197 - È arrivato, credo, il momento per una dolorosa constatazione, che può incrinare, in profondità, le basi su cui poggia il nostro ragionamento. Entrare in contatto con il prossimo, soprattutto di questi tempi, non è affare da poco, anzi.
Sino a questo momento è come se avessimo fatto i conti, come si dice, senza l'oste.
Se nell'antica Grecia i filosofi, e dunque la Filosofia, godevano di una discreta libertà d'azione e di una buona incisività sul piano del sociale (Socrate risultò così efficace da trovare lungo il suo cammino, come già detto, addirittura la condanna a morte), attualmente la situazione sembra perfettamente disinfettata, proprio per evitare, sul nascere, questi tipi di infezioni.
Con il passare dei secoli, inoltre, la Filosofia è stata spodestata dal suo trono e ha dovuto sostenere il confronto, spesso anche violento, con un branco di scienze nuove, molte delle quali apparse piuttosto di recente.
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198 - Uno dei modi migliori che conosco per entrare in paranoia è quello di leggere un libro di sociologia. Provo in pratica lo stesso effetto ad avventurarmi tra le pagine di un manuale di psicologia; l'ibrido tra queste due discipline ha, chiaramente, effetti devastanti sulla mia serenità.
L'ultimo caso in cui mi sono imbattuto, in questo senso, è un'opera di Erving Goffman, intitolata 'Il comportamento in pubblico'. Credevo, o meglio, speravo di trovarci dentro diversi spunti utili per orientare il mio agire e comprendere meglio quella che io considero, ma non sono il solo, come vedremo, la condizione terminale della dimensione sociale dell'Homo Sapiens Sapiens, aggiornato all'ultima versione disponibile.
Questa condizione terminale è però, di fatto, il punto da cui devo necessariamente partire e su cui mi trovo, al pari di tutti i miei simili, ad operare.
Sono stato investito da una quantità esagerata di nozioni e informazioni assolutamente nuove per me: prima fra tutte il concetto di 'disattenzione civile', che l'autore definisce come «quel meccanismo con cui, in molte situazioni, ciascuno di noi segnala all'altro di aver preso atto della sua presenza ma evita qualsiasi gesto che potrebbe essere interpretato come troppo invadente, offensivo o lesivo dello spazio personale».
Rispetto a quanto faccio di solito non ho preso appunti, così sono stato costretto a cercare sulla rete un sunto delle questioni in ballo.
Il saggio di un accademico americano di nome Adam Kendon (L'approccio di Goffman sull'interazione faccia a faccia) ha fatto proprio al caso mio, arricchendo di ulteriori finezze la mia ricerca. Tuttavia, non essendo assolutamente il mio campo, mi sono avvalso di quella che considero una preziosa consulenza in ambito sociologico, fornitami dalla dottoressa F., che ringrazio pubblicamente. Le righe che seguono sono il risultato, dunque, tra le mie supposizioni e le sue osservazioni. Sono argomenti su cui mi concentrerò meglio in seguito: per ora, considerando che queste righe fanno parte, ancora, dell'introduzione, mi limiterò ad abbozzare una panoramica generale.
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199 - Lo studio della “interazione” come tradizione affermata nelle scienze sociali americane — scrive Kendon — era apparso molto prima che Goffman iniziasse le sue ricerche. Ad esempio, negli anni venti, i lettori americani poterono leggere il lavoro di Georg Simmel: per la prima volta, con lui, affiora l'idea che l'interazione possa essere studiata come scienza a sé.
L'intuizione di Simmel, dunque, favorì l'interesse per le componenti dell'interazione e costituì una parte importante nel processo che portò all'emergere dello studio empirico della stessa.
Tra i maggiori studiosi che alla fine degli anni '30 si lanciarono in questa avventura, Kendon cita un tale di nome Eliot Chaple, che sviluppò l'ingegnoso metodo della cronografia dell'interazione, come mezzo per valutare le relazioni umane.
Escogitò, tra le altre perle offerte al mondo, l'idea di misurare il tempo che le persone passano ad interagire e, più specificamente, di determinare come le loro azioni sono organizzate nel tempo una in relazione all'altra.
Ai primi studi seguirono un gran numero di approfondimenti basati sull'osservazione di occasioni naturali e su esperimenti fatti in laboratorio: questi diventarono una costante nella metodologia di matrice americana.
Con la scuola di Chicago nasce la cosiddetta tradizione 'microsociologica', che inverte il paradigma dominante, sino ad allora la società veniva considerata come sovradeterminata dalle strutture, e si concentrerà, per l'appunto, sulla sua unità di analisi minima, che è, come già detto, quella dell'interazione sociale.
Le correnti principali sono due: l'interazionismo simbolico, di cui Bloumer è uno dei massimi esponenti, e l'etnometodologia, con Garfinkel tra i protagonisti principali.
Goffman, che ha incominciato i suoi studi prima degli illustri colleghi appena citati, è sicuramente il più famoso, ma c'è sempre l'altra faccia della medaglia da prendere in considerazione: veniva infatti considerato un buffone dai suoi contemporanei, sia per le modalità con cui conduceva le indagini e sia per le metafore utilizzate, ritenute, a quanto pare, troppo poco scientifiche.
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200 - Interazione focalizzata e non focalizzata, raggruppamenti, unità di partecipazione, impegni diretti, sistemi di attività situate, consenso operativo, scambi espliciti, piste di attenzione: sono alcuni dei termini che sbucano, a più riprese, tra le pagine dell'opera che mi è capitata tra le mani.
Per uscire fuori da queste autentiche sabbie mobili in cui mi sono trovato, mio malgrado, impantanato, non ho trovato niente di meglio da fare che costruirmi un sillogismo da quattro centesimi, considerando la vastità, davvero sconfinata, dell'argomento e la pochezza delle componenti in mio possesso.
In principio dovevano esserci le cosiddette buone maniere, trasmesse sia oralmente, magari all'interno del pacchetto educativo fornito al soggetto, e sia attraverso la scrittura e, dunque, tramite i vari romanzi e saggi.
Le buone maniere, secondo Goffman, garantivano, almeno in un primo momento, una sufficiente ritualizzazione delle occasioni sociali; una lista di azioni consentite o sconsigliate che contribuiva a sgravare l'interazione interpersonale da tutti gli effetti collaterali, imprevedibili ed anche estremamente stressanti.
L'autore a questo proposito cita un passo di Elizabeth Bowen, un'autrice irlandese che riveste le sue argomentazioni con una fitta coltre di nostalgia.
Il comportamento sociale è in parte arte, in parte istinto. […] Il declino delle buone maniere nel senso di qualcosa di completo e rigidamente fissato, ha reso il comportamento infinitamente più difficile. […] Non c'è più la sicurezza di un mondo prestabilito del quale si possono imparare le mille ed una regola, e in cui si può trovare la propria strada al sicuro.
[…] Per ognuna delle occasioni della società si era imparato ad usare una delle mille e una regola. Si sapeva cosa si doveva fare e lo si faceva. La società andava avanti come un orologio.
[…] Le buone maniere servivano da protezione, e davano anche un senso di stabilità.
Come mi fanno giustamente notare, però, le buone maniere sono sempre variate per classe, genere e cultura. Come a dire: ciò che può essere considerato accettabile in un contesto, può non esserlo in un altro. Nella loro stessa natura è quindi implicitamente racchiusa una letale precarietà congenita che, probabilmente con l'aumento della complessità sociale e del numero di collisioni tra individui provenienti da ambiti diversi, ne ha decretato il crollo che la Bowen descrive con raro senso del tragico.
Esaurimento, senso di oscurità e di svuotamento seguono in molte persone ad una cena non convenzionale. Quanto sarebbe più gradito osservare un rituale, pur di non essere costretti a passare attraverso una serie di angosce.
Ma un rituale unico e costantemente valido non può esistere in una situazione che diventa sempre più entropica.
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201 - Ed è proprio questa entropia, in costante, progressivo aumento, che probabilmente ha fatto sbocciare in seno al mondo sociologico l'esigenza di studiare l'interazione e le sue regole, che in precedenza venivano date per scontate.
Non ho ancora ben chiaro, e forse non lo scoprirò mai, quale sia stato il reale intento, il movente che ha animato queste ricerche: secondo la consulente che abbiamo interpellato possiamo escludere, con un alto grado di certezza, che questi luminari avessero la pretesa di normare 'scientificamente' i rapporti interpersonali, come invece farebbe il galateo, che comunque è prerogativa esclusiva di ricchi e nobili.
A questo punto della storia però, mi sembra di poter credere che le relazioni interpersonali siano state in un certo senso vivisezionate, scomposte in particelle sempre più elementari; una raccolta quasi ossessiva di dati e di informazioni che ha investito la totalità degli aspetti in gioco.
I piccoli rituali attraverso cui gli incontri focalizzati sono allestiti diventano interessanti.
[…] Dobbiamo considerare gli sguardi, le manovre, le posture e l'orientazione nello spazio.
In questo senso, è emblematico quanto riporta Kamden:
Alcuni sviluppi nella linguistica strutturale avevano portato studiosi come Norman Mcquown, Ray Birdwhistell e Gregory Bateson a cominciare ad esaminare il 'materiale comportamentale' dell'interazione con uno spirito completamente affine a quello che Goffman stesso avrebbe proposto in seguito. Sotto l'influsso della psichiatra interpersonale Frieda Fromm-Reichmann, si riunirono all'Institute for Advance Study a Stanford nel 1956 per intraprendere lo studio dettagliato del filmato di un'interazione in cui ogni aspetto di ciò che veniva osservato doveva essere minuziosamente annotato ed esaminato rispetto al posto che occupava nel processo comunicativo. Questo progetto è conosciuto col nome di 'La storia naturale di un'intervista'.
Si trattava, in sostanza, dei primi passi verso un approccio che avrebbe tentato di esplicare davvero, in modo microscopico, le componenti della pratica dell'interazione.
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202 - Non si sa perché e non si sa come ma siamo giunti, dopo tanto esaminare, studiare, discutere, a quella che ho già definito come la condizione terminale della dimensione sociale dell'Homo Sapiens Sapiens. Mi sembrano profetiche, in questo senso, le parole che Goethe mette in bocca al suo Mefistofele nel Faust:
Chi vuol conoscere e descrivere qualcosa di vivente cerca anzitutto di cacciarne via lo spirito; così ha in pugno le parti. Mancherà soltanto il legame vitale; peccato.
Non mi resta altro da fare, per chiudere il cerchio, che affidarmi alle intuizioni di Tiqqun: poco meno di venti anni fa, nel 1999 per la precisione, il collettivo francese scattava un'istantanea lucida e spietata di un fenomeno che poi sarebbe diventato la triste consuetudine del nostro presente.
Dal finestrino vediamo scorrere veloce la campagna innevata. Il viaggio tra V. e R., che un tempo avrebbe richiesto una settimana, sarà percorso in breve tempo.
Da meno di un'ora vi trovate a occupare uno dei posti di uno dei venti vagoni tutti uguali di uno dei tanti treni ad alta velocità.
La disposizione regolare, per non dire ottimale, delle poltroncine si dispiega nell'armonia astratta della soffusa illuminazione al neon. Il treno procede lungo le rotaie e all'interno di questo vagone, perfettamente conforme a una certa idea di ordine, sembra che anche la realtà umana si muova lungo binari invisibili. Una sana e cortese indifferenza aleggia nello spazio che vi separa dalla donna seduta accanto a voi. Nessuno dei due, nel corso del viaggio, sentirà il bisogno di scambiare due parole, tanto meno di intraprendere una conversazione. Ciò finirebbe col disturbare la vostra distrazione o, nel caso della vostra vicina, lo studio attento di alcune riviste femminili («Come andare a letto con un uomo senza che lui se ne accorga», «L'abbordaggio soft», «Regali che hanno un senso», «Lui lo fa bene?», «Chi siete davvero?», ecc.).
[…] La scena si ripete nella più completa banalità. È un evidenza di un nuovo genere. Ti colpisce come uno schiaffo in volto. All'inizio fa male, ma abbiamo avuto il tempo di prepararci per anni, metodicamente, fino a diventare gli uni per gli altri dei perfetti estranei: esistenze grige, presenze indifferenti, senza il minimo spessore. Ma una situazione del genere non potrebbe darsi se non fossimo ormai assolutamente intimi in questa estraneità. È stato necessario che l'estraneità divenisse la cifra del nostro rapporto con noi stessi: che diventassimo a tutti gli effetti dei Bloom.
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203 - Se il Bloom si incontra anche nei libri è perché lo si è già sempre incontrato per strada e poi, più tardi, in se stessi: un fatto è la conferma dell'altro. Un giorno, per esempio, ci capita di prestare attenzione al silenzio collettivo di un vagone del metrò ed ecco che, dietro la finta condivisione delle abitudini contemporanee, ci sentiamo invadere da un brivido di fondo, da un terrore primario, aperto a ogni sospetto.
Ultimo uomo, uomo della strada, uomo della folla, uomo di massa, uomo-massa: è così che il Bloom ci è stato già presentato. Come il triste prodotto dell'era delle moltitudini. Il figlio catastrofico dell'età industriale e della fine di tutte le illusioni.
Tiqqun – Teoria del Bloom