"Poiché esiste la morte, il tempo è radicalmente relativizzato; tutto quanto facciamo qui non è altro che inventare giochi per passare il tempo".
John O'Donohue – Anam Cara
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001 — Le pietre non sono altro che tre lastre di trachite messe una sopra all'altra, come se fossero strati di soffice pan di Spagna.
In realtà appartengono a G. P., che io chiamo semplicemente Su Maistu, termine che in sardo campidanese significa "il maestro".
Su Maistu, con le pietre, ci lavora: strappa le sue creazioni da quella dura materia, con l'aiuto dello scalpello e del martello. In sostanza è uno scultore.
Le pietre giacciono proprio di fronte all'ingresso del suo laboratorio, nelle campagne ad est del piccolo paese in cui sono cresciuto e che ancora mi ospita.
Io, ormai, esco alle pietre già da alcuni anni. È così che sono entrato in contatto con Su Maistu.
E così, a furia di incontrarlo nello stesso punto, agli orari più improbabili, ho iniziato a parlare con lui.
Credo che ormai siamo “quasi” diventati amici: dico quasi perchè il concetto di amicizia, dalle mie parti, pesa parecchio, più del piombo, e vale tanto, più dell'oro. Un termine che va maneggiato con cura, dunque.
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002 — Le pietre sono uno dei miei posti preferiti, almeno qui in paese: ci vado a scrivere, a leggere, ci vado a meditare ma soprattutto ci vado a guardare il sole e la luna sorgere. In questo senso, credo che non potessi trovare un posto migliore per le mie osservazioni astronomiche.
Su Maistu, dal canto suo, mi ha messo subito a mio agio: — Vieni pure quando vuoi — mi ripete spesso — e se qualcuno dovesse romperti i coglioni, tu digli tranquillamente che sei mio ospite.
Di fronte alle pietre c'è un piccolissimo ponticello, sul quale transitano diverse persone, soprattutto la mattina, all'alba, o durante il pomeriggio: la maggior parte sono agricoltori che raggiungono i loro campi, a bordo di enormi e rumorosi trattori; non mancano però ragazze e signore, che passeggiano lungo la strada con l'intento di sgranchirsi un po' le gambe e tenersi in forma.
E così, con il tempo, le persone hanno incominciato ad associarmi con le pietre; ormai non percepiscono più la mia presenza come una stranezza, ma come una consuetudine.
Alcuni mi salutano pure con una discreta dose di entusiasmo e simpatia, ed io cerco di ricambiare le loro attenzioni in maniera altrettanto cortese.
Agli occhi di tantissimi miei compaesani non sono altro che un irrimediabile sciroppato che manda in scena i comportamenti più improbabili: la maggior parte del tempo libero, infatti, lo trascorro a gironzolare per strada da solo, come un cane randagio.
In pochi, pochissimi in realtà, sanno cosa tutto mi passa per la testa, quanti pensieri sfrecciano come tir nelle autostrade neuronali del mio cervello. In pochissimi sono al corrente delle attività a cui mi dedico e credo che questa sia una fortuna, in termini di privacy e sicurezza personale.
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003 — Su Maistu è una delle poche persone con cui mi capita di parlare, qui in paese.
Assieme trattiamo degli argomenti più disparati.
Stessa cosa succede con suo fratello gemello, A., che ha un orto proprio poco più avanti delle pietre.
Di tanto in tanto si fa vivo per portare un po' di cibo e di pane duro ai cani di Su Maistu, che fanno la guardia nel grandissimo cortile che si estende tutt'attorno al suo laboratorio.
Con Su Maistu e con A., di solito, si discute del più e del meno.
Anche di politica, a volte: di come alcuni uomini esercitino la propria autorità, il proprio dominio su tutti gli altri, senza farsi troppi scrupoli.
Alle pietre ovviamente, nell'ultimo anno, si è discusso anche di pandemia.
Principalmente, alle pietre si parla di vita e di morte.
Uno degli argomenti più gettonati riguarda i lavori con cui ciascuno di noi riesce a sopravvivere, dal punto di vista economico, ma soprattutto le attività con le quali ci svaghiamo.
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004 — Di me sanno praticamente tutto.
Sanno che per esaudire il desiderio della buon'anima di mia mamma, che ha sempre riservato un'attenzione massima, quasi maniacale, nei confronti della mia istruzione, l'ho finita con il prendermi una laurea in filosofia; una cosa che a volte mi sembra un'autentica fortuna ma, sporadicamente, pure una vera e propria disgrazia.
Su Maistu e suo fratello gemello hanno potuto prendere, a malapena, la licenza media.
Questo però è ben lungi dal rappresentare un problema; non c'è uno iato incolmabile fra di noi.
Anzi.
Nonostante le differenze di attitudine, di impostazione e di metodo, mi capita puntualmente di imparare un sacco pieno zeppo di cose da loro.
Di me sanno praticamente tutto: sanno che vivo da solo e che mi guadagno il pane scrivendo per un giornale on-line che si occupa di calcio dilettantistico.
Su Maistu, invece, passa le sue mattine a lavorare presso un'impresa di pulizie nella vicinissima base aerea della NATO.
—Faccio il merdaiolo — mi ha confessato un pomeriggio. — Nient'altro che il merdaiolo.
Suo fratello A., invece, è un bracciante agricolo che cerca di sbarcare il lunario al meglio delle sue possibilità.
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005 — Su Maistu trascorre gran parte del tempo libero tra i muri del suo laboratorio, a lavorare la pietra dura. Pietra di fiume, precisa sempre.
Attraverso le sue mani e attraverso la sua arte, così mi dice sempre, fa partorire la bellezza.
E la bellezza è l'unico elemento che possa salvare il mondo, mi ripete in continuazione, soprattutto in questi tempi così cupi.
Mentre sto seduto sulle sue lastre di trachite, a scrivere o più semplicemente a pensare, miliardi di pensieri in testa, numerosi come le stelle nel cielo, riesco a sentire nitidamente il tintinnio del martello che sbatte sullo scalpello, e lo scalpello che canta, dolce e suadente, ogni volta che accarezza la superficie della pietra.
È così che è nato un parallelo, una sorta di equazione che accomuna il mio mondo e il suo.
Come il maestro, dunque, lavora pazientemente la pietra, così io lavoro sulle pagine bianche dei miei quaderni e, di riflesso, attraverso il flusso dei pensieri e attraverso le lunghe meditazioni, lavoro sulla mia coscienza, sulla mia personalità, sulla psiche, sulla mia anima.
È un parallelo che al maestro è piaciuto molto, almeno così mi piace pensare, tant'è che ormai gli capita di riproporlo frequentemente, con tutti quelli che passano di fronte alle pietre.
Perché le pietre, in un certo senso, sono un crocevia.
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006 — Ogni qualvolta ti viene in mente una buona idea, un'intuizione che ti sembra particolarmente valida, dovresti mettere sempre in conto che qualcuno potrebbe già esserci arrivato prima di te, ed in netto anticipo. Così, per l'appunto, Epitteto fotografava la questione, nelle sue Diatribe:
“D'ora in poi la materia su cui devo lavorare è il pensiero, proprio come quella del falegname è il legno, quella del calzolaio il cuoio...”
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007 — Le pietre, con il passare del tempo, sono diventate uno dei miei posti preferiti, al pari degli uliveti che ci sono a nord-est del paese, o come lo spazio nascosto dalla vegetazione di fronte al fiume, a ovest.
Di solito, per “prendermi” un posto, per considerarlo veramente mio, per trovarci conforto, sollievo e rifugio, mi ci devo drogare (dentro\sopra) almeno una volta. È così che prendo confidenza con i posti.
Alle pietre ci vado a vaporizzare un po' d'erba, di tanto in tanto.
Una notte di luna piena di qualche estate fa, resa speciale dall'eclissi, alle pietre ho organizzato una festicciola un po' particolare, con qualche centesimo di grammo di DMT ad insaporire la questione.
Credo sia successo proprio durante quella notte, che le pietre sono diventate, un po', casa mia.
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008 — A., il fratello gemello del maestro, mi ha raccontato di come trascorre le sue giornate: qualche lavoretto all'orto, un giro in bicicletta nel pomeriggio e poi, dalle 17 in poi, seduto sul divano, ad ascoltare musica, principalmente del rock progressivo anni '70, tipo i Pink Floyd, oppure a guardare vecchi film western alla TV.
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009 — Nel posto in cui vivo attualmente, invece, non ci sono orologi appesi alle pareti e neppure schermi.
Questo significa che nel posto in cui sto non c'è un orario preciso e stabilito per svolgere le diverse attività: non c'è un'ora particolare in cui si inizia a pranzare, né una per la cena e né tanto meno un orario per andare a dormire. Più che dipendere dalle lancette dell'orologio, agisco in base alla voglia, alle esigenze del momento.
Credo siano passati cinque anni, ormai, dall'ultima volta che ho guardato un film. Forse addirittura di più.
Non è una cosa che mi manca, a dire la verità. È solo una tra le tante faccende che appartengono a quella che considero la mia vecchia vita ormai morta e sepolta.
Nel posto in cui vivo, le ho contate giusto per curiosità, le attività consentite e praticabili non arrivano al numero di dieci.
In quella che considero come la mia personalissima cella si può: mangiare (e bere), leggere, scrivere, dormire, ascoltare musica, ballare, fare esercizi yoga e drogarsi.
Sono tutte funzioni che sto imparando a svolgere, piuttosto bene a dire la verità, nella più completa autonomia, in totale solitudine.
— E per fare l'amore? — mi ha chiesto qualcuno.
— Fare l'amore da solo non mi interessa, ma per amarmi, comunque, ho scelto di ricorrere alle droghe — ho risposto con tutta la sincerità e la spontaneità in mio possesso.
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010 — Dopo lo scoppio della cosiddetta pandemia e a causa della conseguente chiusura dei principali punti di ritrovo per le persone, come bar e circoli sportivi e culturali, le campagne della mia zona risultano ormai sovra-affollate, tant'è che alcuni posti che fino a dodici mesi fa venivano frequentati ed occupati soltanto dal sottoscritto sono diventati meta di visitatori e curiosi.
In poche parole, spesso ho dovuto cercare una sistemazione alternativa, non senza un pizzico di disappunto e di incredulità per quell'aumento improvviso del traffico.
Le pietre, però, sono pronto a difenderle dall'assalto di chiunque; ancora ne conservo, per fortuna, l'accesso esclusivo.
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011 — Di fronte alle pietre ci passano pure diversi cani, accompagnati dai rispettivi padroncini. Ormai li conosco quasi tutti.
La più tenera è, in assoluto, una piccolissima cagnetta con il manto color marroncino chiaro. Si chiama Stella.
All'andata Stella viaggia bella comoda, dentro ad un passeggino per cuccioli d'uomo; al ritorno invece, sfreccia allegra, per quanto le è possibile. Con le sole zampette di davanti.
Il retro-treno, invece, è poggiato su una specie di carretto a due ruote, legato alla vita da un grazioso gioco di funi, spaghi e nastri adesivi. Un pomeriggio, Stella vestiva pure un elegantissimo tulle rosa ad ingentilirne la figura.
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012 — Il mio adoratissimo primo e per ora unico cane è morto, ormai, da quasi ventiquattro mesi.
Nel mio paese ci saranno almeno altri sette mila bipedi, a parte me.
La domanda più frequente che mi rivolgono, dopo avermi visto per tredici lunghi anni felicemente a spasso con il mio quattro zampe, in lungo e in largo per piazze, aiuole e strade, è sempre la stessa: — E tu non ce l'hai più il cane?
Lo considero, in un certo senso, il prezzo da pagare per finire di elaborare il lutto, cosa che peraltro, mi sembra, sono riuscito a fare piuttosto bene.
Riesco a rispondere, tutto sommato, con una buona dose di serenità e di tranquillità in allegato.
Spiego puntualmente che un piccolo problema alla cistifellea, oltre che la naturale azione dell'età e del tempo che passa, hanno fatto si che il mio compagno levasse le tende in favore del suo ultimo, definitivo e spettacolare viaggio interstellare.
Spero di raggiungere presto “quota sette mila”, che significherebbe aver dato la stessa identica risposta a tutti i miei compaesani.
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013 — Ugo è un cane dal pelo grigio, di tredici anni.
M., il suo padroncino, mi ha raccontato che ormai stanno affiorando tanti piccoli acciacchi: le gambe di dietro iniziano a tremare, a cedere, ed ogni tanto, assieme all'urina, capita che Ugo pisci fuori un po' di sangue.
Ugo ormai lo incontro di frequente, che le passeggiate con i cani spesso seguono tempistiche assolutamente precise e regolari.
M. un pomeriggio mi ha confidato che fra mille anni, quando Ugo non ci sarà più, andrà in canile e adotterà l'esemplare più vecchio, per poi continuare con questa strategia ancora ed ancora.
Tutto in onore di Ugo.
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014 — Senza un cane è tutto più difficile. Mi riferisco all'affrontare il trascorrere del tempo.
Dopo che vivi per diversi anni assieme ad un quattro zampe, dopo che ci entri in simbiosi, è quasi impossibile riuscirne a farne a meno. Manco si trattasse di una sostanza stupefacente.
Sul piano della compagnia, un cane non ha prezzo.
Passeggiare con Cartesio era una delle cose che mi faceva più uscire fuori di testa, in assoluto.
Principalmente per le scariche di serenità e buon umore che ricevevo puntualmente in cambio, ogni giorno.
— E cosa stai aspettando a prendertene un altro? — mi chiedono.
— Prima devo farmi almeno due viaggi fuori dall'isola — replico.
Perché con un quattro zampe sotto la propria responsabilità non è sempre un'attività agevole da svolgere. A meno che non lo si porti appresso, è ovvio.
Ma in realtà credo che un po' di stacco tra una storia e l'altra non possa che farmi bene.
Seppure abbia la netta sensazione che ci sarà almeno un altro cane ad addolcirmi l'esistenza, prima della mia morte, sono fermamente intenzionato a rispettare il mio proposito.
Sarà dura, ma devo resistere.
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015 — In termine tecnico si chiama “cella liscia”.
Si tratta di una piccola stanza, provvista soltanto del minimo necessario indispensabile.
L'individuo che viene rinchiuso dentro ha a disposizione soltanto un materasso in cui sdraiarsi per dormire e, quando va molto bene, un cesso per espletare i propri bisogni fisiologici.
Uno dei primi istituti carcerari in cui si è sperimentato, in maniera diffusa, questo particolare tipo di detenzione, è stato quello di Cherry Hill, nella città di Filadelfia, dove sono stati imprigionati un numero elevatissimo di individui.
A Cherry Hill la condanna consiste nel semplice trascorrere del tempo, nell'estrema, mortifera monotonia vuota con le quali sono foderati i secondi, i minuti, le ore, le giornate, le settimane, i mesi e gli anni.
Il detenuto rinchiuso a Cherry Hill viene privato di qualsiasi tipo di diversivo.
La sua punizione consiste, per l'appunto, nella più completa inattività: nessuna possibilità di svolgere qualsiasi tipo di lavoro, niente letture, nessun passatempo come i video-games o le partite di calcio alla TV. Nessuna possibilità di scambiare quattro chiacchiere con gli altri. Niente di niente. Solo la noia più totale.
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016 — “Nella prigione in Pennsylvania le sole operazioni della correzione sono la coscienza e la muta architettura cui essa si urta. […] I muri sono la punizione del crimine; la cella mette il detenuto in presenza di sé stesso; egli è obbligato ad ascoltare la sua coscienza”.
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017 — A causa delle misure adottate dai governi per contrastare, a loro dire, l'epidemia causata dal Covid, sono state cancellate dal nostro esistente gran parte delle sorgenti di svago a cui ci eravamo (ben) abituati negli ultimi 200 anni. Oltre ad un elemento antichissimo come il teatro, sono stati eliminati (temporaneamente, è chiaro, ma nessuno sa fino a quando) sale da ballo, cinema, circoli ricreativi, ecc ecc. Durante il famigerato primo lockdown, inoltre, sono state vietate pure tutte le attività che svolgevamo all'aria aperta, fuori dai nostri domicili.
Le stanze delle nostre case, dunque, sono diventate le nostre celle; dotate, per fortuna, di tutta una serie di dispositivi e di applicazioni telematiche che ci aiutano a trascorrere il tempo nella maniera più agevole, senza che quest'ultimo abbia l'effetto della carta vetrata che raschia sulla nostra coscienza.
Quanto saremo disposti a spendere pur di fuggire via dalle fredde stanze di Cherry Hill?
È così che TV e piattaforme di servizi on-demand diventano la nostra sola e unica salvezza nei confronti di un “nulla” sempre più famelico e straripante.
E noi non siamo altro che la sua preda designata.
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018 — Chi fornisce e garantisce la connessione dei vari dispositivi telematici tra di loro, fornisce anche, molto spesso, i contenuti che vengono trasmessi e diffusi attraverso gli stessi.
La TIM, per citarne una, mette a disposizione i cavi in fibra ottica che ci permettono di navigare a velocità sempre più elevate sul web e, allo stesso tempo, si preoccupa di sponsorizzare, di produrre gli eventi mediatici più importanti nel nostro paese, come ad esempio il Festival della Canzone di Sanremo, o il campionato di calcio di Serie A.
L'architetto delle varie stanze virtuali (meglio: colui che produce gli elementi primari, come il cemento e i mattoni) è lo stesso che poi, in definitiva, si occupa di arredare lo spazio, di appendere i quadri alle pareti. Chi fornisce le apparecchiature per mandare in play i nostri passatempi (smart-phone, TV e computer) si preoccupa di scegliere i temi e le attrattive a cui staremo appresso, di cui discuteremo con gli altri.
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019 — C'è qualcosa di intimamente grottesco nel vedere le persone impegnate nelle proprie mansioni. Nella maggior parte dei casi, è triste ammetterlo, si tratta di impieghi snervanti, tossici, monotoni, logoranti.
Seppur nascosti dietro alle nostre brave giacche e brave cravatte, non siamo poi così diversi dalle centinaia e centinaia di lavoratori forzati (ora, in termini più dolci, salariati) che, in passato, hanno tirato su, con lacrime e sudore, il mondo che ci troviamo ad abitare.
Ma c'è qualcosa di ancora più grottesco nel modo in cui, ormai, ci divertiamo...o pretendiamo di farlo.
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020 — Uscire alle pietre, in un certo senso, è un piccolo atto di rinuncia al mondo.
Uscire alle pietre, dunque, significa rinunciare alle modalità classiche di svago e socializzazione.
Alle pietre non c'è nessun barista, nessuna cameriera che serve bibite gassate e zuccherate; non si vendono alcolici, non si preparano caffè; non ci sono apparecchi televisivi sintonizzati su una qualche emittente che spara a raffica, 24 ore non stop, video-clip musicali.
Alle pietre non ci sono slot-machine, giochi da tavolo, biliardi o biliardini.
Non si può giocare a ping-pong, non ci sono consolle di ultima generazione dedicate alla video-ludica. Alle pietre non si proiettano film e non c'è modo di guardare le serie TV su Netflix.
Le pietre sono uno dei pochi posti che ho scovato, nel mondo che mi circonda, in cui posso rimanere al sicuro dai miliardi di agenti contaminanti che mi vengono sparati addosso in continuazione.
Uscire alle pietre, da questo punto di vista, è un atto rivoluzionario. Un modo particolare di trascorrere le mattine, i pomeriggi, le notti.
Alle pietre il tempo si dispiega con lentezza quasi poetica; una parete liscia da scalare in autonomia, senza nemmeno il più piccolo aiuto esterno.
Sembra una questione banale, di poco conto, eppure ognuno di noi dovrebbe (e potrebbe facilmente) sperimentare cosa significhi gettarsi in pasto nelle fauci di un pomeriggio in un paese, senza nemmeno un diversivo a cui ricorrere.
Alle pietre non si fanno puzzle o cruciverba. Non si balla, non si fanno esercizi con i pesi, o a corpo libero.
Si può stare a guardare il cielo, i passeri, le rondini e i merli che volano e poi, dopo il crepuscolo, tutti i branchi di stelle che spuntano fuori.
Che il cielo, durante la notte, sembra una tavola imbandita, apparecchiata con posate di oro e diamanti.
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021 — Alle pietre non ci sono né sedie, né tavolini, né tanto meno divani o letti.
Le pietre però, allo stesso tempo, sono abbastanza grandi da permettere ad una persona di coricarsi.
Una sera d'estate di due anni fa mi ci sono, per l'appunto, sdraiato sopra, per guardare meglio il cielo stellato.
Nel frattempo, di fronte alla mia postazione preferita, sono passate due persone, marito e moglie, che non sono riuscite a trattenersi dal commentare, a mezza voce, tra di loro, la scena che mi vedeva come unico protagonista.
Certo, mi rendo conto che sia strano vedere una persona (per di più già avanti con l'età...) che quasi sonnecchia sopra a tre lastre di trachite piazzate nel bel mezzo del nulla della campagna campidanese, però, allo stesso tempo, non c'è nessun divieto, nessun vincolo che mi impedisca di farlo.
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022 — Le pietre, potenzialmente, sono aperte a chiunque, ma in realtà non ho mai visto nessuno che le occupi, a parte il sottoscritto.
Sono io dunque che, in un certo senso, do un significato differente a quelle tre lastre di trachite.
Sono il mio posto; io do un significato a quelle pietre per il semplice fatto che le abito.
Più le abito, più le frequento, a discapito di tutto il resto, e più regalo loro una funzione alternativa a quella che avevano in origine e che continuerebbero ad avere senza il mio intervento.
Maggiore è l'intensità, la costanza con cui le frequento e maggiore è il significato, i contenuti che mi regalano indietro.
Di solito risulto un tipo un po' atipico (da “atopos”, che è proprio l'aggettivo con cui veniva definito Socrate nel Teeto di Platone); alle pietre però sono un tipo atipico seduto in un posto atipico, un “non-luogo”.
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023 — Nei pressi delle pietre sono l'unico individuo che sta fermo, seduto nello stesso posto per mezz'ore e mezz'ore di seguito, molto spesso a scrivere su di un taccuino.
Tutti gli altri, semplicemente, vi scorrono davanti, passano sopra il ponticello che c'è nelle vicinanze e proseguono appresso ai fatti loro.
Alcuni, forse per educazione, o per paura, o chissà cos'altro, mi lanciano solo qualche timidissima occhiata.
Potrei quasi stilare i primi bilanci: quanti attaccano bottone, quanti invece si comportano come se non ci fossi. Certo, la mia presenza in un posto così insolito, inusuale, è in un certo senso destabilizzante.
Capisco il loro punto di vista.
Del resto: cosa mai potrà farci una persona, da sola, seduta sopra tre lastre di trachite?
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024 — Alle pietre ci ho pure già portato due amici, S. e E., ma è inutile, non ci hanno trovato tutta la poesia che ci trovo io, ed è un fatto che comprendo senza grossi sforzi.
Le pietre non sono un posto divertente, o particolarmente panoramico; non succede granchè, sebbene qualcosa, a starci attenti, succeda sempre.
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025 — Ho intenzione di insistere: del resto so bene come mi comporto nei confronti delle mie passioni.
Continuerò a riempire le pagine del mio taccuino, nel frattempo che staziono alle pietre.
Di fronte a me scorrono le vite degli altri: piccoli frammenti, almeno.
Due bambine in bicicletta, le facce rosse dal caldo e dallo sforzo.
Una signora di mezza età che passeggia da sola, sguardo chino e mascherina abbassata sul mento.
Ci sono pure alcuni ragazzi che fanno jogging: uno, a dir poco elegantissimo, con la tuta griffata di una squadra di calcio.
L'altro in tenuta decisamente più umile e trasandata, barba, capelli rasati. Ha avuto pure il coraggio di gridarmi contro: — Mi farai leggere il libro quando finisci di scriverlo?
— Ti girerò il link del sito web dove lo caricherò — gli ho risposto con una risata in allegato.
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026 — E poi, un pomeriggio, scopro, quasi per caso, come mi capita spesso, una chiave, tra le pagine di Foucault. Un barlume di luce, capace di illuminare la situazione e regalarle una prospettiva diversa. Almeno così mi piace pensare, almeno.
“Si vive, si muore, si ama in uno spazio quadrettato, ritagliato, variegato, con zone luminose e zone buie, dislivelli, scaloni, avvallamenti e gibbosità , con alcune regioni dure e altre friabili, penetrabili, porose.
Ci sono le regioni di passaggio, le strade, i treni, le metropolitane; ci sono le regioni aperte della sosta transitoria, i caffè, i cinema, le spiagge, gli alberghi, e poi ci sono le regioni chiuse del riposo e della casa.
Ora, fra tutti questi luoghi che si distinguono gli uni dagli altri, ce ne sono alcuni che sono in qualche modo assolutamente differenti; luoghi che si oppongono a tutti gli altri e sono destinati a cancellarli, a compensarli, a neutralizzarli o a purificarli.
Si tratta in qualche modo di contro-spazi.
I bambini conoscono benissimo questi contro-spazi, queste utopie localizzate.
L'angolo remoto del giardino, la soffitta o, meglio ancora, la tenda degli indiani montata al centro della soffitta., e infine — il giovedì pomeriggio — il grande letto dei genitori.
È in quel luogo che si scopre l'oceano, perchè tra le sue coperte si può nuotare; ma quel letto è anche il cielo, perchè sulle sue molle si può saltare; è il bosco, perchè ci si può nascondere; è la notte, perchè fra le sue lenzuola si diventa fantasmi; ed è il piacere, perchè al ritorno dei genitori si verrà puniti”.
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027 — Il lavoro che porto avanti sulle pagine bianche del mio quaderno e quindi, di riflesso, sulla mia coscienza, sulla mia anima, è un lavoro in prospettiva: in corso d'opera hai soltanto un'idea su come vorresti che andassero le cose; è come mettersi in viaggio per raggiungere una meta senza sapere però quanti contrattempi potrai trovare lungo il percorso, quante deviazioni, quanti ostacoli più o meno insormontabili.
A volte è necessario cambiare direzione, itinerario; altre volte, invece, occorre insistere sulle proprie convinzioni, armarsi di tenacia e fermezza e proseguire, con fiducia.
Un lavoro in prospettiva, che si arricchisce di un dettaglio alla volta, con il proseguire dell'opera e il trascorrere del tempo.
Per questo è molto simile all'arte del pittore e, se si vuole, in misura maggiore a quella dello scultore.
La materia prima su cui lo scultore imprime la sua idea, dando sfogo alla propria fantasia e alla propria creatività, al proprio genio, è ruvida e grezza. Grezza è la sua forma di partenza.
Lo scultore è l'unico che possiede, nella sua mente, l'immagine finale da raggiungere; nessun altro può avere accesso a quella diapositiva, a quell'istantanea.
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028 — Per lavorare la pietra (così come per la pittura) serve costanza.
Vale anche per l'arte di riempire le pagine bianche con la scrittura: a volte il processo esplode spontaneo, come l'acqua che esonda fuori dal letto del fiume o dalle mura di una diga.
Altre volte è un lavoro di pazienza, che richiede calma e un certo amore per l'attesa.
A volte si procede spediti, quasi in preda ad una vera e propria furia; altre volte si guadagna un centimetro alla volta, come una guerra di trincea.
Si piazza un dettaglio, si rifinisce meglio un particolare; si aggiunge un pizzico di colore e di senso all'opera generale.
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029 — Ci sono dei lassi di tempo, che possono durare pure svariate decine di minuti, in cui sento Su Maistu che picchia forte, con ritmo costante, sulla pietra, con il suo martello e il suo scalpello.
Poi arrivano pure i momenti di stasi, di silenzio.
Magari qualcuno passa a trovarlo nel suo laboratorio, lo distrae per un attimo, sospendendone il lavoro.
Ma la testa de Su Maistu, così mi ripete spesso, è sempre proiettata sull'opera.
— Proprio come faceva Socrate — mi ha spiegato una domenica mattina — che non smetteva mai di essere se stesso...
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030 — Lavorare sulla propria anima richiede la stessa costanza, la stessa pazienza che ci vuole per scolpire la pietra.
È un lavoro che il più delle volte non paga, in termini di vile denaro, ma che porta comunque, in cambio, in regalo, una dose abbondante di soddisfazioni.
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031 — E nel frattempo che Su Maistu passa interi ed interi pomeriggi, chiuso nel suo laboratorio, io trascorro le mie ore libere seduto alle pietre, a riempire pagine, ad affilare la mia coscienza, ad addestrare la mia percezione, in modo che non finisca preda ed ostaggio del mondo, ma possa volarci sopra leggera, per posarsi solo e soltanto su tutti i picchi di estrema, candida, pura bellezza.
Su Maistu non smette mai di ricordarmelo: la bellezza può salvare il mondo. E chi permette alla bellezza di sgorgare fuori dal suo buio nascondiglio, attraverso una scultura, attraverso un singolo gesto nei confronti del prossimo, è un operatore dell'estasi.
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032 — Di fronte alle pietre il mondo continua a scorrere pigro, un frammento alla volta, in maniera discontinua, ma il flusso non si arresta mai del tutto.
Tra un frammento di mondo e l'altro spesso c'è un intervallo di pochi minuti, altre volte passano intere mezz'ore. Intere mezz'ore di nulla e di deserto.
Poi un frammento di vita interrompe la condizione di stasi, con il suo manifestarsi.
Una mamma e una figlia sulle loro biciclette.
La bambina, sei-sette anni di età a voler esagerare, pedala forte, nonostante la piccola salita che fa da preludio al ponticello.
La mamma, staccata di qualche metro, ansima, quasi piagnucola: — Che ne dici se torniamo indietro? Mi sa che io sono stanca...sono vecchia! — sbuffa.
A guardarla da fuori, direi che non ha ancora compiuto cinquant'anni.
— “Mi sa” non esiste — risponde la bambina mentre prosegue incurante con la sua corsa.
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033 — Alcuni frammenti di mondo appaiono puntuali, più o meno sempre alla stessa ora: come il signore che trascina la sua bicicletta, con appresso una cagnetta dal manto nero e luccicante, come la superficie della pietra di ossidiana.
Zompetta lenta, lenta, lenta. Lenta e pesante.
— Ha dei problemi di artrite — mi ha raccontato un pomeriggio — per questo va così piano.
— È anche un po' grassottella, vero? — ho risposto.
— Meglio per lei! — sentenzia il tipo prima di sparire oltre il ponte.
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034 — Dalle mie parti ho sempre sentito un detto: “Non sei tu che avrai la meglio sul mondo, ma è il mondo che avrà la meglio su di te”.
Una sentenza che vale sempre, per chiunque, a quanto pare. Senza eccezione alcuna.
Proprio per questo, tra le altre cose, mi sono messo in testa, con così tanta ostinazione, di voler lavorare sulla mia essenza, sin negli aspetti più intimi e profondi.
Mi piacerebbe diventare denso, come il mercurio.
Il reale, si sa, è affamato. Ci mette meno di un attimo, a fagocitare in un solo boccone, gli elementi che si staccano dal resto; i granelli che cercano di schierarsi in verso opposto e contrario alla direzione consueta, imposta.
Il mondo fa un unico boccone dei disadattati, dei riottosi, dei dissidenti.
Per questo lavoro per diventare denso come il mercurio.
È diventato il mio unico intento, il mio obbiettivo ultimo.
Come lo scultore che gratta via la pietra con il solo scopo di estrarre fuori la forma perfetta.
Diventare densi come il mercurio: per avvelenare il mondo, a colpi di bellezza, di poesia.
Oh...quale fine sublime che mi sembra...
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035 — Diventare densi come il mercurio può significare, anche, risultare indigesti a tutti gli altri.
A volte mi sorprendo, quasi, a sognare di venire diluito da un elemento esterno.
Essere placato, per un secondo appena. Ma è un pensiero passeggero.
Mi basta davvero poco per avere di nuovo chiaro il mio scopo.
Come lo scultore che lavora la pietra a caccia delle forme perfette, io lavorerò sulla mia coscienza per raggiungere la bellezza. L'unico approdo in cui, davvero, posso sentirmi completo, soddisfatto, al sicuro.
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036 — Succede, spesso e volentieri, che io e Su Maistu stacchiamo dalle nostre rispettive faccende in contemporanea, appena il sole sparisce dietro la catena di montagne che si staglia a ovest.
Così capita di fare un po' di strada assieme, mentre torniamo ognuno a casa propria.
Io rigorosamente a piedi. Lui invece in bici, attento e cortese ad andare al mio stesso passo.
Così, spesso e volentieri, quella è l'occasione ideale per scambiare due chiacchiere, principalmente sul più e sul meno, come al solito.
Una sera, nel vederlo stanco ma comunque sia piuttosto rilassato, gli chiedo: — Tu non cucini, vero?
La risposta arriva dritta e chiara, come da garanzia. — Certo che no! Ho una moglie.
Sottinteso: ho una moglie che mi aspetta e che cucina pure per me.
Io me la sfango in autonomia, invece. Proprio come succede per un mare, un oceano di altre questioni.
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037 — Le faccende legate al cibo e alla cucina richiamano alla mia mente, puntualmente e inesorabilmente, la buon'anima della mia mammina, che si approcciava all'argomento (meglio: pure a questo argomento) con quel pizzico di ansia che, di fatto, la caratterizzava.
Arrivata la sera, iniziava già a soffriggere nell'irrequietezza, solo al semplice pensiero di provare ad acchitare il possibile menù per il giorno successivo.
Ricordo il terrore che la assaliva, letteralmente, quando chiedeva a me e a mio padre: «E domani cosa vorreste mangiare?»
Lo diceva con un'apprensione tale, che sembrava quasi come se stessimo attraversando un periodo di carestia, come se nella dispensa non ci fosse più nulla da mesi.
Il suo problema più grande era ritrovarsi a corto di idee, condannata a preparare le stesse due-tre pietanze per tutta la vita.
A pensarci bene, però, per quasi trent'anni il servizio mensa di casa nostra ha seguito una sequenza piuttosto rigida: il sugo al pomodoro veniva preparato sempre e solo il sabato mattina, e serviva a condire la pasta per tre giorni, a volte pure quattro. Il sabato era pure il giorno della carne in umido come secondo.
Il turno del pesce arrivava, rigorosamente e categoricamente, il martedì e il venerdì.
Il martedì, ma a settimane alterne, era il giorno in cui si cucinava la minestra di verdure e legumi, in una quantità sufficiente per poterci sfamare per almeno tre giorni.
Il pranzo della domenica non poteva esistere senza l'arrosto, così come la cena, al pari di quella del lunedì, non poteva assolutamente prescindere dal brodo di pollo o di manzo.
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038 — Su Maistu, di tanto in tanto, cade nella tentazione di curiosare tra le mie abitudini alimentari: dunque sa bene ormai che, per questa vita, non comprerò e non cucinerò più carne.
Sa pure che ho litigato con i latticini e i prodotti caseari in generale.
Diciamolo pure: tra tutti i mille e mille argomenti su cui ci capita di chiacchierare, questo occupa uno degli ultimi posti nella mia scala di interessi.
Ma si sa: quando ci si deve conoscere meglio, tutto fa brodo, per l'appunto.
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039 — In realtà, il punto a cui Su Maistu mirava con la sua domanda era un altro: — Ma tu non hai nessuna intenzione di sposarti?
Mi rendo conto che questo potrebbe diventare presto uno degli argomenti più gettonati, secondo soltanto al già citato “ma non ce l'hai più il cane?”
Per coincidenza, anche Ulisse mi aveva fatto la stessa domanda, alcuni giorni prima.
Ulisse è un ragazzetto di etnia Rom di nemmeno diciotto anni, che vive, assieme alla sua numerosissima famiglia, dentro a delle palazzine occupate, a ovest del paese; una struttura che in passato faceva parte del complesso architettonico dello zuccherificio, che invece è stato demolito.
Ulisse è in assoluto il mio stratega, il mio consigliere, il mio braccio destro.
Adoro il modo che ha di ragionare, la logica che segue, totalmente diversa da quella che mi hanno abituato ad utilizzare.
È con lui che mi confronto quando ho qualche dubbio che mi assale, a proposito di una scelta importante. Ma questa è un'altra storia ancora.
Ad Ulisse ho cercato di spiegare che, al momento, stare assieme ad una persona significherebbe, necessariamente, adeguarsi al ritmo, al passo dell'altro.
C'è da scommettere, per il modo in cui sto viaggiando ora, che troverei qualcun* più lent*, da aspettare, gli dico mentre rallento all'improvviso, contagiando così una brusca frenata al mio giovanissimo amico, ritto in piedi sulla sua piccola bicicletta.
Oppure troverei qualcun* più veloce di me, da inseguire.
Sempre che lo si riesca a incontrare, un altro essere umano che viaggia davvero nella tua stessa direzione.
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040 — Con Su Maistu, invece, le spiegazioni non sono state necessarie: — Tu vuoi sposarti solo con la filosofia, vero?
Su Maistu capisce sempre tutto al volo, come se la dialettica, tra di noi, viaggiasse sui binari della telepatia, piuttosto che su quello dei discorsi.
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041 — Mi rendo conto che trascorrere la propria vita in solitudine sia una faccenda piuttosto faticosa; alcuni, credo, sono terrorizzati dalla sola idea, nonostante ci siano tantissime persone (uomini e donne) che si sono sbucciate (e ancora oggi giorno si sbucciano) la propria dose di patate nella più completa autonomia.
Una delle esche più utilizzate è: — Come farai quando sarai più vecchio?
Il mio cervello, però, spurga rapido tutti gli anticorpi: “Qualcuno che butterà le mie spoglie dentro ad una bara e ad un loculo (o in pasto al fuoco per ridurle in cenere) lo si troverà di sicuro. Per quanto riguarda la mia coscienza invece, ho ancora del tempo a mia disposizione per affinare tutte le arti che mi consentiranno di restituirla al cosmo, magari senza troppi trambusti”.
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Appunti sulla psico-geografia
042 — A conti fatti ho sempre amato alla follia frequentare i non-luoghi che ho scovato nel mio paese.
Per un lungo, lunghissimo periodo, prima di stabilirmi alle pietre, passavo le sere (e le notti) su di un ponte, un cavalcavia ferroviario che all'epoca era ancora chiuso al traffico tramite sei grossi blocchi di cemento.
Un ponte chiuso al traffico è un ottimo punto strategico: visuale ampissima su tutta la vasta pianura circostante e, soprattutto, la possibilità di trascorrere svariate ore senza incrociare lo sguardo di un'anima viva.
Lo confesso alle pagine bianche del mio taccuino: uno dei miei non-luoghi preferiti, qui in paese, è senza ombra di dubbio il cimitero, anche se mi rendo conto che per qualcuno (più di qualcuno...), la faccenda possa apparire drasticamente macabra.
Comunque sia: se quello che davvero cercate è un posto tranquillo e silenzioso in cui stare a riflettere, a meditare, magari in cui buttare giù qualche buona riflessione sulle pagine di un quaderno, non c'è niente di meglio di un cimitero durante le ore che, generalmente e comunemente, sono destinate al pranzo.
Dalle 13 alle 14, orientativamente, se siete capaci di mettere da parte per un po' le esigenze di pancia, lingua e gola, rischiate seriamente di essere gli unici vivi all'interno di uno spazio che, a seconda della prospettiva con cui lo si guarda e lo si attraversa, può risultare estremamente poetico.
Già, ci trovo una poesia sublime nei visi, nelle fotografie dei morti sopra le lapidi: la forma che attraverso la vita, e dunque attraverso le nostre scelte e le nostre azioni, diamo ai nostri corpi, ai nostri volti, mi ricorda le opere dei più grandi artisti nel campo della scrittura e della pittura.
Ci trovo qualcosa di meraviglioso, in quella carrellata di volti, di vite ormai passate...
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Una questione di rispetto \ la mia amica lucertola
043 — L'altra sera, nel mio posto solito, ci ho trovato una bellissima lucertola, che si godeva, beata, gli ultimi raggi di luce solare.
Sapevo che se mi fossi fatto avanti, con l'intento di sedermi come al solito sulle lastre di trachite, sarebbe fuggita via, al riparo dal pericolo che potevo rappresentare per lei.
Così l'ho rispettata: son rimasto in piedi, fermo come un palo, a distanza di sicurezza.
E nel frattempo che nella strada di fronte alle pietre scorrevano diverse autovetture (chissà cosa avranno pensato di me i conducenti...), io insistevo nella mia immobilità e mi godevo l'ennesimo tramonto campidanese assieme alla mia amica lucertola
E certo che dev'essere una sensazione strana, pensavo tra me e me, avere il sangue freddo e dover dipendere esclusivamente dal sole per la propria sopravvivenza.
Chissà quanto è lunga e fredda la notte, per un rettile.
Proprio per questo, quella sera, ho ceduto volentieri la mia postazione alla mia amica lucertola.
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[ Piereddu Segundu ]
043 — Su Maistu ormai ha capito bene come funziona la faccenda: ho un rapporto un tantino particolare con il telefono cellulare: questo significa semplicemente che spesso e volentieri lo dimentico a casa e vado in giro senza; quando me lo porto appresso invece rischio puntualmente di perderlo da qualche parte.
Una sera, per l'appunto, è rimasto sopra alle lastre di trachite che mi ospitano, sino all'alba della mattina seguente.
Ci ha pensato Su Maistu a metterlo al sicuro, lontano dai malintenzionati, perchè, sostiene lui, basta davvero un attimo che qualcuno di passaggio se lo metta in tasca e sparisca con il bottino.
A poco è servito spiegargli che quell'apparecchio varrà, ad occhio e croce, non più di cinque euro, e che quindi il danno sarebbe stato davvero minimo.
Per tutta la giornata, insomma, Su Maistu ha giocato a farmi da segretario e rispondeva alle chiamate che arrivavano al mio numero ripetendo a tutti quanto io sia smemorato e davvero poco attento alle mie cose.
Quando mi ha restituito ciò che mi appartiene non ha risparmiato gli insulti: «Come fai a essere così stupido?», urlava con aria seria, anche se di tanto in tanto sulla sua bocca appariva un accenno di sorriso.
La scena si è ripetuta identica dopo quella volta che sopra alle (sue) pietre ho lasciato le chiavi di casa, ma questa è un'altra storia ancora...
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044 — Un pomeriggio, sul display del cellulare trovo la notifica che mi avvisa di una chiamata persa da parte di Su Maistu. La prima cosa che mi viene da pensare è di aver nuovamente lasciato in giro qualche effetto personale, ma trovando al proprio posto tutto ciò che cerco mi rilasso e proseguo ad occuparmi delle mie questioni, promettendomi di richiamare il mio amico nelle ore successive, al primo momento utile.
In realtà il momento buono quel pomeriggio non arrivò mai, così la storia passò in cavalleria, come si dice in questi casi. Alcuni giorni dopo sarà proprio Su Maistu a raccontarmi, a voce e dal vivo, gli ultimi aggiornamenti.
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045 — C'è poco da fare: due degli argomenti più gettonati alle pietre riguardano la vita e la morte.
Mi è bastato stare lontano anche e solo per una settimana per trovarmi di fronte ad una situazione completamente stravolta rispetto a quella che conoscevo.
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046 — Adoro, impazzisco letteralmente, quando le persone mi raccontano le loro storie: vale per quelle belle e serene, così come per quelle più dolorose ed amare.
Mi piace da impazzire quando le persone buttano fuori i loro ricordi, con foga e partecipazione: sembra quasi di poter vivere le scene. Mi godo le smorfie, l'intensità del flusso narrativo, la densità quasi collosa delle vicende.
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047 — Quando attacca con il racconto, la voce di Su Maistu si abbassa di tono, le parole escono a fatica dalla bocca e di tanto in tanto sembra quasi che un gemito di dolore sia prossimo a prendersi la scena. Su Maistu si nasconde dietro a timidissimi colpi di tosse, poi finalmente riesce a sputare fuori la triste verità: una sera di due settimane prima, Piereddu, il suo cane, esce dal cortile insieme ad altri quattro-zampe molto più grandi di lui e se ne va in giro, come al solito.
Ma si sa come vanno le cose a questo mondo: gli imprevisti sono sempre dietro l'angolo.
Così, a differenza del passato, Piereddu non farà più ritorno a casa.
Solo allora comprendo il motivo della telefonata che Su Maistu aveva cercato di farmi alcuni giorni prima...
Dai suoi occhi quasi sgorgano le lacrime, impossibile non accorgersene.
Credo, comunque, che sia bello il modo sincero che certe persone hanno di vivere e di comunicare agli altri le proprie emozioni. E io non posso fare altro che ringraziare tutti coloro che decidono di condividerle con me.
*
048 — Com'è logico aspettarsi, Su Maistu non riesce a darsi pace per la scomparsa del suo cane e per alcuni giorni cerca il suo fidato quattro-zampe in lungo e in largo, aiutandosi anche con FB.
Fino al giorno in cui una ragazza trova, a diversi chilometri di distanza dal luogo di partenza, il cadavere di Piereddu, in una cunetta al lato di una strada di campagna.
— Sai...ho pianto un sacco quando l'ho visto — mi confessa.
E io non riesco a fare altro che abbracciarlo attraverso un lungo e rispettoso silenzio.
*
049 — Le regole non scritte di questo mondo sono piuttosto chiare, c'è ben poco da confondersi: si lascia il proprio posto con la stessa facilità con cui qualcun altro arriva per occuparlo.
Una volta che si entra in armonia con questa sacra legge, diventa tutto più facile...
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050 — La vita non è altro che un susseguirsi di furti e di regali.
Non passa molto tempo da quel fattaccio che la vita di Su Maistu subisce un'altra svolta inattesa, questa volta a carattere positivo.
Grazie ad un gioco di passaparola, rimpalli e coincidenze, un altro quattro-zampe arriva per colmare quel vuoto apertosi improvvisamente: ha il manto bianco e nero come il suo predecessore e alcuni tratti piuttosto simili; è solo un po' più piccolo di stazza, così piccolo che può stare comodamente sul cestino porta-pacchi di una bicicletta.
Su Maistu dal canto suo non ha avuto nessun dubbio: il nuovo arrivato alle pietre si chiama Piereddu Segundu, in onore del suo precursore.
Ogni volta che mi vede, Piereddu Segundu mi inonda letteralmente di coccole e io non posso fare altro che augurargli tutto il meglio, cosa che vale pure per il suo padrone...
***
[gennaio '22]
051 — Da queste parti l'inverno, quello duro e fastidioso, di solito dura una trentina di giorni: per gran parte del mese di novembre ha piovuto quasi senza soluzione di continuità, che sembrava di essere a Dublino.
Dalla seconda metà di dicembre in poi le temperature minime si abbassano ulteriormente, eppure non mancano di certo i bei pomeriggi senza troppe nuvole in cielo, con il sole che dunque può fare il suo sacrosanto lavoro e scaldare a dovere la piccola porzione di mondo dove vivo, con i mandorli che incominciano a fiorire già dai primissimi giorni di gennaio.
Certo, è chiaro, quando ti piove addosso un vero e proprio mare di acqua non risulta certo comodo stare seduto, fermo, su tre lastre di trachite, né, tanto meno, scrivere all'aria aperta sui fogli di un quaderno.
Ho ripreso a frequentare con continuità le mie pietre da pochi giorni: queste, per l'appunto, sono le prime righe che butto fuori in questo 2022 appena nato eppure già famelico, isterico e carico di promesse.
Una delle cose che mi mancavano di più (...e che mi mancheranno) è il suono dello scalpello de Su Maistu, che sbatacchia sulla pietra, sotto i colpi del suo martello.
Sono trascorse diverse settimane senza che ci incontrassimo, senza che riuscissimo a scambiare neppure mezza parola...
*
052 — ...ma proprio la settimana scorsa ci siamo rivisti e abbiamo parlato per un po'.
Non mi capita con tutti, è chiaro, eppure mi succede ancora piuttosto spesso: ci sono persone che perdo di vista per mesi e mesi, ma poi basta un singolo incontro, una mezz'ora appena, per riprendere le fila di tutti i discorsi interrotti.
Su Maistu è una di quelle persone, e io le adoro, che ti regalano tutte le cose che hanno in testa in quel momento, anche se non sono state invitate a farlo, a prescindere dal fatto che debbano rispondere ad una domanda o meno. Collegano in presa diretta il cranio con la bocca e danno inizio alla trasmissione...
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053 — «Se non fosse per la mia arte — mi ha sparato addosso uno degli scorsi pomeriggi — mi sarei già licenziato dal mondo da parecchio tempo».
Ha utilizzato proprio queste testuali parole, ma in sardo campidanese: mi sarei licenziato dal mondo.
Con me ha fatto strike.
Non è di sicuro la prima volta che succede, ed è per questo che parlare con lui mi fa sentire incredibilmente ricco, anche dopo uno scambio di battute minimo, per tutti gli input che mi dona, con semplicità e genuinità.
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054 — Ha sfondato la classica porta aperta, come si dice in questi casi.
È un pensiero che partorisco spesso e volentieri anche io.
Tutti noi, in realtà, stiamo ben aggrappati alle nostre cose: famiglia, amici, lavoro, arti, passioni ed hobby, più tutta una serie di svaghi e divertimenti che ci aiutano a mandare giù, a deglutire quel pappone denso di secondi, minuti e ore che compongono le giornate e, in definitiva, la nostra vita...
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055 — Io me lo ripeto spesso, un po' per farmi coraggio nei momenti di sconforto (chi non ne ha incontrati?), un po' per ricordarmi chi sono e soprattutto cosa ho scelto: sino a quando avrò matite e fogli bianchi sui cui scrivere, sino a quando avrò pagine e libri da leggere e da studiare, sino a quando l'Universo, i miei fratelli e le mie sorelle nascoste nel Deep-Web (al pari di tutti gli alleati e le alleate che ho nel mondo reale) continueranno a fornirmi le sostanze con cui nutro la mia anima e attraverso le quali mando in play i miei esperimenti, dovrò considerarmi ben custodito all'interno della classica botte di ferro.
In questo preciso momento, lo rammento a me stesso, è chiaro, in pratica ho tutto quello che ho chiesto, e dunque, di conseguenza, non manco assolutamente di nulla...
*
056 — ...certo, so bene che senza l'arsenale delle mie consolazioni (e senza un corpo in buona salute) le cose sarebbero ben più amare rispetto a quanto lo sono ora...
E proprio per questo non passa giorno senza che io ringrazi per tutti questi doni e per tutta questa abbondanza...
Rimane da capire a chi rivolgo i miei ringraziamenti, e a dirla tutta non mi viene affatto difficile immaginare di essere seduto attorno ad un tavolo, assieme a qualcosa come altri 7 miliardi di giocatori, con il mazziere cosmico che distribuisce le sue carte. Come ogni buon giocatore che si rispetti, devo mettere in conto che le carte possono essere sufficientemente buone, ma pure terribilmente merdose...
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057 — A volte mi sento come Spud, uno dei personaggi di Trainspotting, che durante un colloquio di lavoro racconta alla commissione che avrebbe dovuto valutare la sua candidatura per un posto come animatore turistico: «me la spasso a vedere gli altri che se la spassano...»
È così che mi sento quando mi scorrono davanti tutte le persone, felici e liete, che passeggiano con i loro rispettivi quattro zampe, come se quasi riuscissi a succhiare, a rubare un po' della loro gioia.
A Su Maistu, invece, brillano gli occhi, come se fossero due laghetti rischiarati dalla luce della luna, quando mi dice che di lì a breve andrà a fare visita alla sua adoratissima nipotina...
*
058 — Io credo proprio che in questa vita, per una scelta mia, è chiaro, non saprò cosa significa mettere al mondo un figlio\a, né tanto meno, dunque, non vivrò le sensazioni incredibili che inondano le persone quando diventano nonn*.
Allo stesso tempo, però, ci sono un sacco (pieno zeppo) di persone che non sanno minimamente, che non hanno neppure la più pallida idea, di cosa si provi, ad esempio, a farsi travolgere le cervella da un ottantina di milligrammi di DMT in free-base.
Certo, il diventare papà, mamma, nonno, nonna, implica tutta una serie di sacrifici, di fatiche, di responsabilità che non tutti si sentono in grado di gestire e di accettare.
Con le droghe, in questo senso, le cose risultano un tantino più semplici: basterebbero cinque minuti netti appena per mandare in orbita tra le galassie infinite un* qualsiasi di voi.
L'unico peccato è che moltissime persone non sanno nemmeno che esistano così tante strade per raggiungere le estasi.
Sono convinto, pur senza poterne avere la certezza, che quando parlo con gli altri delle mie adoratissime molecole, anche io ho gli occhi che mi brillano come due pozzanghere rischiarate dalla luce della luna piena...
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059 — ...Ho avuto modo di ragionarci a lungo e sono arrivato alla conclusione che, come vale per le arti alle quali ci appassioniamo o che ci toccano in sorte in questa vita, lo stesso si può dire del luogo in cui ci troviamo a vivere. A volte bisogna accontentarsi.
Seduto sopra alle mie adoratissime pietre posso ammirare i campi di carciofi che si estendono in ogni direzione, quasi a perdita d'occhio...
Certo, messa così non si tratta proprio del panorama più bello di cui poter godere, ma mi chiedo: le cose mi sarebbero andate davvero meglio se fossi nato, per dire, in Vietnam, sperduto tra risaie chilometriche?
E se invece mi fossi ritrovato gettato in Groenlandia, tra i ghiacciai perenni?
*
060 — Di fronte ad una situazione data, come può essere il contesto in cui ci troviamo a crescere e a vivere, possiamo generalmente adottare due atteggiamenti: il primo consiste nel farsi bastare quello che passa il convento, come si dice, e cercare di spremere al massimo la situazione, limitando al minimo gli svantaggi.
Oppure, va bene uguale, possiamo cambiare, mischiare le carte e migrare in un posto che possa risultare migliore, ma anche in questo caso, comunque sia, dovremmo fare i conti, inevitabilmente, con i pro e soprattutto con i contro che accompagnano qualsiasi aspetto, senza eccezione alcuna, dell'esistenza su questo pianeta.
Ad un estremo, dunque, troviamo coloro che riescono, facilmente e felicemente, a mettere radici in prossimità della culla; altri invece sono spinti a volare via da un impulso irrefrenabile, lontano dal proprio nido, almeno per un po'.
Troviamo dunque personalità nomadi, che fanno della loro ragione d'essere lo schizzare da una parte all'altra del globo terrestre; altri invece trovano la loro collocazione ideale già al secondo, terzo tentativo.
Alcuni giocano a fare le trottole, soprattutto in giovane età; altri fermano il loro vagare soltanto a vecchiaia acquisita; altri invece coltivano la loro irrequietezza sino all'ultimo secondo disponibile.
*
061 — Era una cosa che sospettavo già da tempo, a dire il vero, ma il 25 dicembre scorso, grazie ad una chiacchierata con due amici, ho scoperto di potermi definire, anche io, a tutti gli effetti, un nomade digitale, uno di coloro che ha il vantaggio di poter lavorare indifferentemente da qualsiasi punto del pianeta terra, attraverso un PC portatile ed una semplicissima connessione alla rete internet.
È da un po', a dire il vero, che mi domando perchè sto fermo, piantato come un cardo in questo centro di 7 mila abitanti, incastonato nel bel mezzo del Campidano di mezzo, considerando soprattutto che il mio rapporto con il resto degli indigeni non è proprio idilliaco, cosa che va avanti sin dai tempi della mia adolescenza inquieta.
Proprio uno degli scorsi giorni, Su Maistu mi ha detto che un po' mi invidia per il mio essere libero e senza legami; una condizione che dovrei sfruttare per dare una piccola sterzata alla mia rotta.
Come è giusto che sia, Su Maistu è stato uno dei primi a venire a conoscenza di una delle novità più importanti che riguardano questo mio 2022: tra poco meno di 60 giorni leverò le tende e cambierò aria per un po'.
— Mandami almeno un SMS, di tanto in tanto —, mi ripete spesso Su Maistu.
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[Sulla solitudine]
062 — C'è poco da fare: ci sono attività che per essere svolte richiedono una buona e abbondante dose di solitudine.
Quando Su Maistu lavora alle sue opere non ha di certo compagni, né tanto meno un pubblico che assiste al processo creativo, o fa il tifo per lui.
Considerado che Su Maistu trascorre nel suo laboratorio tutti i suoi pomeriggi e le sue serate, è facile fare il conto di quante ore alla settimana si sbuccia in completa autonomia, anche se è vero che può godere della preziosissima, impagabile presenza di Piereddu, e sono ben consapevole di quanto riesca ad incidere, in questo senso, un quattro zampe.
Anche per scrivere, per buttare giù le righe, bisogna ritagliarsi del tempo da dedicare, in maniera esclusiva, alla faccenda, e non può essere diversamente: se trascorro le mie mezzore libere alle pietre, assieme al mio taccuino e alle mie matite, sto scegliendo, allo stesso tempo, di non stare, per dire, seduto al tavolino di un bar insieme ai miei simili, a parlare del più e del meno...
*
063 — Credo che il rapporto con la nostra solitudine sia, in assoluto, una delle faccende più complesse da gestire e, allo stesso tempo, una delle più formative.
In realtà, poi, credo di essere geneticamente ben strutturato in questo senso: mio nonno paterno trascorreva intere ed intere mattine tra gli alberi di arance dell'orto di cui si prendeva cura, e ho sempre ammirato le dosi gigantesche di solitudine che trasportava, con serenità stoica, sulle proprie spalle.
Anche mio padre, dopo la prematura morte di mia mammy, sta dimostrando, comunque sia, di potersela cavare in autonomia, anche se c'è da dire che è agevolato, in questo, dai due incontri settimanali (appena una decina di ore in tutto) che ha con la sua attuale compagna e da cui, di fatto, dipende l'umore che lo anima nei restanti cinque giorni in cui si ritrova, come molti altri in questo pianeta, da solo con se stesso...
*
064 — A parte questo rispettabilissimo corredo genetico, che fa inevitabilmente parte del mio DNA e, quindi, in parole povere, delle mie potenzialità, la mia vita sin dal giorno 0 è stata caratterizzata dalla solitudine.
Questa è una constatazione a cui sono approdato giusto questa estate, grazie ad uno scambio di battute a dir poco illuminante che ho avuto, in una piazza di Milano, con I., a proposito della mia (non tanto) presunta anaffettività.
Mia madre, del resto, me lo ripeteva spesso e volentieri, ma credo di non aver mai trattato la faccenda con la dovuta attenzione: essendo nato prematuro, in anticipo di un mese rispetto ai piani, son passato dal suo grembo dritto nello spazio ridotto di un'incubatrice.
Per i primi quaranta giorni di esistenza in questo pianeta ho vissuto nella mia personalissima cella, senza ricevere lo straccio misero di un abbraccio, senza ninna-nanne, canzoncine o dolcezze varie ed eventuali a conciliarmi il sonno.
Certo, c'è chi sostiene che non rimanga nulla, all'interno della nostra memoria, dei primi mesi di vita.
Quando ho la possibilità di riparlare con I., in una spiaggia dell'isola, mi chiede: — E dunque pensi che tutto questo ti abbia condizionato?
Io ho potuto solo rispondere, strizzando un occhio: — Assolutamente no!!!
*
065 — Lungi da me, nel modo più assoluto, la tentazione di calamitarmi addosso anche e solo una singola, minuscola particella di compassione.
Preferisco puntare forte sul famoso “ciò che non ti uccide ti rende più forte”, coniato a suo tempo da Federico Nietzsche.
E dunque credo che sia molto, molto meglio trasformare le disavventure, di qualsiasi natura esse siano, in opportunità di crescita, in abilità, in risorse, in skills, per utilizzare un termine straniero.
Anziché piangermi (e farmi piangere) addosso credo sia molto più comodo entrare nell'ordine delle idee di avere a disposizione le carte migliori per sopportare, anche per diverso tempo, situazioni (e condizioni) che per qualcun altro magari risulterebbero intollerabili, insopportabili.
Per il resto, so bene come funziona: c'è ancora una piccola parte di me, seppur piccola, che di fatto coincide con la porzione della mia anima più fifona e piagnucolosa, che di tanto in tanto prova a convincermi del fatto che tutta questa solitudine, fagocitata quasi con brama animalesca, finirà per spaccarmi inesorabilmente ed inevitabilmente il cranio, finirà per uccidermi.
Sull'altro piatto della bilancia, però, ci sono centinaia di esempi (proprio nelle scorse notti Schopenhauer, nel suo “Il mondo come volontà e rappresentazione”, mi raccontava il caso dei Naasseni) a confortarmi, a darmi forza e coraggio, relativi a uomini&donne che, in ogni parte del globo, dall'Europa all'India, hanno scelto di trascorrere la loro esistenza su questo pianeta nel più completo isolamento, seguendo i principi dell'ascetismo (tra gli altri: povertà volontaria e auto-negazione dell'impulso sessuale).
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066 — Farsi bastare il luogo dove si è nati o, fa lo stesso, dove si è scelto di vivere, significa automaticamente farsi bastare le vie, le strade che lo attraversano e che, di fatto, lo compongono.
Per molti risulta incomprensibile come non si possa provare una noia infinita e mortale a ripetere sempre gli stessi percorsi, giorno dopo giorno.
La sensazione di conforto che si prova a stare in un posto familiare può trasformarsi velocemente in un profondissimo disagio, in una nausea esistenziale capace di spegnere, di sradicare anche gli entusiasmi più pimpanti.
Personalmente, e mi ritengo molto fortunato in questo senso, non esiste mai una passeggiata identica alla precedente o alla successiva, nonostante il teatro in cui vanno in scena (tradotto: il recinto rappresentato dai confini del mio paese) sia sempre il medesimo.
A fare la differenza, sembra strano, sono i pensieri che mi germogliano in testa e che mi scortano nel mio perenne vagabondare.
Come fertilizzante, per mischiare le carte, mi basta anche e solo un singolo discorso, una singola pagina di un libro, e magicamente mi trovo dentro al cranio un turbinio di considerazioni nuove di zecca che non devo fare altro che srotolare, come se si trattasse del filo di un gomitolo, un passo alla volta.
Se questo non fosse sufficiente, poi, ci sono diversi modi per giocare, per interagire con l'ambiente urbano che ci circonda: tra gli antichi greci, e poi tra i romani, c'era chi utilizzava i luoghi delle città (piazze, edifici, vicoli, angoli e incroci) per i propri esercizi mnemonici: ad ogni punto corrisponde un ricordo ben preciso o, fa lo stesso, un particolare concetto da assimilare, l'elemento di una sequenza, di una concatenazione logica.
Mi capita comunque, piuttosto spesso e volentieri, che il passaggio in un determinato luogo provochi in me riflessioni e considerazioni sempre nuove e differenti, in base alla natura dei pensieri con cui mi trovo a fare i conti.
Se manco questo dovesse essere d'aiuto, ci si può sempre affidare alle teorie sulla “Deriva psico-geografica” coniate, alla fine degli anni '50 e nei primissimi anni '60, dal francese Guy Debord, finalizzate a far sviluppare un nuovo modo di abitare, ma soprattutto di attraversare, lo spazio urbano, non più basato sul mero soddisfacimento di bisogni di tipo consumistico (tradotto: raggiungere un determinato negozio o un ufficio che eroga un particolare servizio) ma bensì su un vagare dettato principalmente dalle emozioni e dalle impressioni del momento, dai sentimenti suggeriti sia dall'ambiente circostante (inteso nella sua vastissima gamma di elementi architettonici, artistici o naturali) e sia, anche e soprattutto, dagli altri attori sociali e dalle traiettorie tracciate dai loro spostamenti.
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[M. e il suo sogno]
067 — C'è davvero ben poco da girarci intorno, tant'è che se stessi seguendo un regime dietetico potrei quasi vantarmi per la mia condotta praticamente impeccabile: per giorni e giorni e giorni e giorni le mie uniche interzioni con gli altri vivi possono essere semplicemente riassunte nei trenta secondi netti nei quali scelgo il pane e consegno il corrispettivo in denaro alla commessa che lavora nel panificio affianco a casa, e nei tre minuti totali che mi servono per rifornirmi di frutta&verdura per circa 7-10 giorni, dai 3-4 pusher di fiducia che ho scovato in paese.
Per il resto trascorro le mie ore di riposo e raccoglimento in un posto piccolo quanto umile (così mi sento di poter dire), con 1700 mp3 a disposizione (selezionati con cura e in continuo aggiornamento) e un account su Spotify crackato, giusto per diluire il silenzio, più qualche buona decina di libri che attendono di venire letti, per non lasciare totalmente a digiuno il mio cervello.
Sempre per via della della dieta di cui sopra, faccio facilmente a meno di radio, cinema, teatro, TV, romanzi, film e telefilm, cosicché, in sostanza, gli unici dialoghi che entrano nel mio sistema (tradotto: nella mia scatola cranica) sono quelli che mi capita di mettere in piedi dal vivo, nelle situazioni più disparate.
Le parole che si imbucano nelle mie orecchie, le circostanze in cui mi trovo coinvolto, comprese quelle a bassissimo potenziale emozionale, sono il mio unico nutrimento in questo senso: assorbo tutto, come se fossi una spugna lasciata seccare per mesi nel caldo arido del deserto, o dell'inferno, se preferite. E ringrazio puntualmente l'Universo per quello che mi offre in termini di input e incontri.
Ogni tanto mi concedo un'overdose sociale: passo dallo 0 assoluto in cui generalmente mi trovo al 100 rappresentato dal sovraffollamento di una festa di un compleanno, o di un locale particolarmente frequentato in città, e la cosa mi regala molto spesso un mix tra un brivido che scorre elettrico lungo la mia colonna vertebrale e quel senso di vertigine, di capogiro, che precede i collassi e gli svenimenti, cosa quest'ultima che sto incominciando ad amare profondamente.
Certo, come ogni cosa anche questo gioco presenta i suoi svantaggi: capita, per mia grossa fortuna piuttosto di rado, a dire il vero, che il mio cervello, la mia percezione del mondo e delle situazioni in cui mi trovo inserito vada completamente in tilt, soprattutto se provo delle emozioni molto forti: è come se sbucasse fuori il mio fratello gemello che prende il comando delle operazioni e per 30 secondi prende le scelte più scellerate e combina pasticci nella maniera più irrazionale possibile, per poi svanire nel nulla, lasciando a me l'onere di occuparmi dei cocci ormai rotti. Ma questa è un'altra storia ancora...
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068 — Con M. ci incrociamo spesso: mi capita di incontrarlo quando sto alle pietre, poichè lui segue alcune sue faccende, nello specifico si prende cura di un cavallo, in un cortile adiacente al laboratorio di Su Maistu, di cui, tra l'altro, è il nipote.
Di solito ci salutiamo e basta, e dal modo in cui mi guarda credo che mi ritenga un tipo piuttosto bizzarro, e credo di non potergli dare torto, sinceramente.
Un pomeriggio arrivo nella mia postazione preferita con l'intento di buttare giù qualche riga e lo trovo impegnato a scaricare dal suo camioncino, adibito per il trasporto di animali vivi, diverse balle di fieno su un piccolo rimorchio agganciato ad un altrettanto piccolo trattore.
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069 — Sei venuto a prendere il sole? Mi chiede, quasi a bruciapelo, cogliendomi un tantino di sorpresa.
— Anche...si — rispondo. E in effetti le pietre sono un'ottima location per godersi la luce buona e calda del pomeriggio. Poi aggiungo: — È uno dei miei posti preferiti qui in paese...
— È merito dell'energia che sprigiona il maestro — replica mentre sgranocchia una smorfia e una risata appena accennata.
Io invece non posso fare altro che ridere di gusto...
— Si, è una brava persona — gli dico. —Tu ci parli?
— Ma nooo!!! — mi sparacchia contro. — Lo lascio dire, per me è troppo strollico (che in sardo campidanese, alla lontana, corrisponde all'italiano “logorroico all'eccesso”).
Ed è così che mi aggiudico la seconda, grossa, buona risata nell'arco di pochi minuti.
Tutto grasso che cola, come si dice...
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070 — Nel frattempo che lui si occupa delle sue balle di fieno, io continuo a sporcare di grafite le pagine bianche del mio taccuino; così iniziamo a parlare, come succede spesso tra i vivi, del più e del meno.
Mi chiede se studio ancora all'università, così quando spetta a me ricambiare con la medesima curiosità, vengo a sapere che è arrivato soltanto alla terza classe delle scuole superiori, in un corso per perito informatico.
— Mi sono un po' pentito di aver mollato, ogni tanto ci ripenso, sono stato uno stupido...a volte ho anche la tentazione di iscrivermi alle scuole serali, ma dopo che finisco con il lavoro sono troppo stanco per pensare di poter prendere un libro in mano...
Così mi racconta di come si guadagna il pane: fa l'operaio in un noto complesso petrolchimico a circa 30 km dal paese, di proprietà, tra gli altri, di Massimo Moratti.
— Manutenzione degli impianti — precisa. — Utilizziamo le tute e le maschere dell'ossigeno...
Immagino di cosa si tratta, così non posso trattenermi dal chiedergli: — Ti piace il tuo lavoro?
— Mi piacciono i soldi — mi risponde, con un ghigno e la parlantina fluida degna del miglior rapper in circolazione...
— E ce l'hai un lavoro dei tuoi sogni? — rilancio, visto che ci sono.
— Si! Farei proprio questo! — esclama mentre infilza con il forcone l'ennesima, grossa balla di fieno giallo.
— Mi piacerebbe aprirmi un maneggio, ma per tirarlo su servono troppi soldi. Qualcosa come 250.000 euro.
Pensare di racimolare il gruzzolo con la sana pratica del risparmio è assolutamente fuori discussione.
Per fortuna esistono i surrogati pure dei sogni.
— Per ora sono riuscito a comprare questo furgone e mi do da fare nei fine settimana trasportando i cavalli alle fiere e alle gare...
Sale sul trattore e poco prima di iniziare un nuovo viaggio verso la stalla mi chiede: — Tu cosa fai?
— Sono caduto in piedi — gli rispondo subito dopo essermi levato la matita dalla bocca — scrivo...e alla fine come potrai immaginare non mi dispiace come cosa...
Anche se quello che mi permette di racimolare il cash non è proprio l'argomento più nobile e illuminato.
— È vero! Ora ricordo!
Ha un passato come centrocampista di fascia nella squadra locale di calcio.
— Vai ancora a vedere le partite?
Gli spiego che con l'avvento di FB e di tutti gli altri dispositivi informatici, le informazioni che mi servono per compilare le cronache del centinaio di partite di cui mi occupo settimanalmente mi arrivano direttamente a domicilio, così, se voglio, posso lavorare senza dover fare nemmeno un passo.
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071 — La domanda che arriva più frequentemente al centralino continua sempre ad essere, ancora dopo tre anni: «...e il cane non ce l'hai più?».
Seguita a ruota, soprattutto in quest'ultimo periodo, dall'interrogativo tutto nuovo di zecca: «...e un altro non te lo prendi?».
Anche con M. va in scena lo stesso copione.
Replico ai suoi “mi dispiace” di default, a proposito della dipartita del mio adoratissimo 4zampe, raccontandogli che comunque, nel suo piccolo, Cartesio ha trascorso un'esistenza principesca, considerando, tra l'altro, che la titolare del panificio che c'è proprio affianco a casa gli regalava un grissino avvolto nella mortadella, ogni giorno. Compreso l'ultimo,
— Era sempre con te... — Commenta giustamente M.
Già, gli sono stato affianco fino all'ultimissimo respiro.
Per il resto, non sono pochi in paese quelli che, forse stufi (o preoccupati?) di vedermi vagabondare costantemente da solo spingono, a modo loro, affinchè io mi faccia, quantomeno, un nuovo amico a 4zampe.
— Non posso prendermi un altro cane ora... — confesso a M. — perchè a metà maggio mi sposto dall'isola...
Mi lancia un'occhiata foderata di curiosità, come se volesse davvero sapere qualcosa in più.
Aggiungo due tesserine al puzzle.
—...vado in Sud America. Ho un biglietto per il Perù...
— Ma andrai in qualche isola?
Scuoto la testa in modo che il mio “no” gli arrivi chiaro e diretto.
— Perchè non vai alle Hawaii?
Continuo a non capire perchè M. mi voglia spedire su un'isola dopo che ho passato, in pratica, la mia intera esistenza, per l'appunto, su di un'isola.
— Di mare credo di averne visto abbastanza...
Così gli espongo, manco fossi un tour operator, le caratteristiche geografiche del Perù.
— C'hanno il mare pure loro, comunque, ma credo di essere interessato più alla foresta amazzonica, a dire la verità...
Ci pensa un po' su, mentre continua ad occuparsi delle sue balle di fieno.
— Li già ce ne sono piante di coca...
Poi si lascia scappare un “tzira!”, che dalle mie parti è un termine che esprime disgusto, ribrezzo assoluto per qualcosa.
— Uhm...in realtà la cocaina non piace manco a me...però avranno anche un po' di marijuana immagino...a te l'erba piace?
— Ne ho fumato in passato — mi racconta — ma poi ho smesso...
— Ci hai litigato?
— No, è che per il mio lavoro ogni sei mesi ci fanno il drug-test; guidiamo mezzi pesanti, dunque non me lo posso più permettere...
Il suo lavoro continua a piacermi sempre meno, ma comunque sia non è un problema mio, ovviamente.
*
072 — Proprio quando sta per andare via, M. spara la sua ultima cartuccia.
— Tu in paese non esci, vero?
In realtà mi butto in giro per un po' di ore ogni santo giorno, ma capisco subito che sta mirando ad un altro bersaglio.
— Non mi piace tantissimo stare nei bar o nei locali...
— Sei un tipo solitario, diciamo...
— Sono stato fidanzato per quindici anni, ma diciamo che ora non faccio troppa fatica a stare da solo.
Eppure, parlare con le persone non mi dispiace affatto, e credo che ormai pure M. abbia in mano le prove sufficienti in questo senso.
— Quanti anni hai? — chiede infine.
— 41 — rispondo candidamente.
— Sei un pischello! — sentenzia. — E poi in Perù sarà pieno di peruviane, no?
Evito di aggiungere che la P R I N C I P E S S A di cui sono innamorato e per cui sto ingoiando tutte quelle centinaia e centinaia di chilometri non ha sembianze umane...
...perchè, tutto sommato, come primissimo discorso va già benissimo così...
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1 Comment:
Un luogo è essenzialmente uno spazio a cui dai un nome o quantomeno un senso. Hai dato il nome e un senso al disabitato, a quel vuoto che riempie lo spazio, gli spazi, tra i luoghi comunemente determinati. I tuoi luoghi mi ricordano i miei posti-brutti belli. Il non-fiume, il covo di umido cemento delle rane, i vasconi per l'itticoltura che mai hanno visto dell'acqua, quella natura appena fuori dall'urbano che si riprende con solerzia i falliti tentativi umani di colonizzare tutto. La finta vipera gialla, il vero serpente verde, bianco e nero, l'enorme maiale rosa, la volpe arancio, la civetta confusa col grigio, il rapace gigante, i gamberi neri, le rane e i rospi, i fiori di oppio, le tarantole, il mucchio di carogne di pecora senza orecchie. Abbiamo dormito strafatti nei crateri intorno alle fabbriche, troppo stanchi, troppo infreddoliti, per riprendere le bici e farci spingere a casa dal maestrale. Abbiamo invaso la bruttezza, abbiamo invaso l'abbandono, abbiamo invaso. Ma non ho mai fatto prigionieri, perché la bellezza di quella guerra stava nella desolazione che incontravo. E mi era amica. Credo sia lì che è iniziata la dissoluzione, il profumo d'eremita. Innanzitutto bisognava trovare un vuoto da riempire. Laddove era già pieno, non era casa. All'epoca anche a me interessava essere denso, affinare, abbracciare tutto, avvelenare. Di recente, però, ho preso un altro sentiero. Vorrei non riempire il vuoto che riempio. Non vorrei cercare l'essenza, ma essere vuoto nel vuoto. Scomparire, dissolvermi, svanire. Senza pensiero. Non essere un uomo nella desolazione di un desolato paesaggio. Vorrei essere io stesso il paesaggio, confuso con una pietra, un granchio, un pezzo di plastica, un groviglio di lenze, un topo incuriosito dal raro passaggio umano, un cucciolo di cernia che mi osserva dalla sua tana, sabbia sputata da un tordo, e stare imperturbato nell'imperturbabile, senza l'ombra di un pensiero che non sia finemente legato all'accadimento presente. Nulla che vada oltre una coscienza elementare, come se fossi cresciuto tra scaffali vuoti e libri di schizzi di colore. Io vorrei disciogliermi come il sale nell'acqua, finché non ci sia differenza tra me e il resto. Ad oggi, si è rivelato impossibile essere vivi ed essere sale nell'acqua. Ci provo tentando di simulare l'animale, ma non è affatto semplice. In ogni caso, quando vivevo completamente inurbato, in tempi non sospetti, come si dice, prima di poter aprire ogni giorno gli occhi all'orizzonte da una delle moltitudini di prue di questa barca chiamata isola, scrissi questo:
La notte furtiva
cammino
ladro di fiori
Li rubo
sporgenti dai davanzali
i migliori
o dalle aiuole pubbliche
bagnati appena
innaffiati dal nessuno automatico
o dietro i cancelli e le inferriate
nei giardini
o spontanei a bordo strada
nelle spaccature del cemento
tra i lastroni rotti
nell’incavo d’ananas delle palme
La notte furtiva
ladro di fiori
depongo il mio mazzo
sul petto sdraiato del morto
morto senza il corteo di tristi passi a seguire
solo
né parenti né amici
solo due vecchie pietose
che sgranano preghiere
a quest’ignoto non scomparso
perché già non compariva da vivo
a quest’altro nessuno
effimero lieve umano
dimenticabilissimo
che se lo vedevi andare a comprare il pane
era solo il pane e la busta del pane
a quest’altro che se piangeva
c’erano solo le lacrime
e se rideva
c’erano solo le lacrime,
qualche pietra, una conchiglia e un libro
a quest’altro nulla non-detto non-io
(si sente rumore di sale che si scioglie nell’acqua)
io.
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