Parte I
01 – Un lunedì mattina lungo dieci anni [001 - 006 ]
02 – Il fallimento: radiocronaca del tracollo [007 - 012]
03 – Arredatori d’inferni [013 - 019]
04 – Addestramento [020 - 026]
05 – L’orrore essenziale [027 - 034]
06 – Conflitti [035 - 043]
07 – La vita oscena [044 - 051]
08 – Diario di un tutor frustrato [052 - 061]
09 – Diario di uno scribacchino sfruttato [062 - 069]
Parte II
10 – Diario di un metallaro pentito [070 - 077]
11 – PassioneMusicaVeleno [078 - 084]
12 – Morte di un metallaro pentito [085 - 090]
13 – Cosa ho imparato dall’Hard Core [091 - 097]
14 – SangueMusicaVeleno [098 - 104]
15 – RovinaMusicaVeleno [105 - 111]
16 – RicordiMusicaVeleno [112 - 117]
17 – Come mosche grasse e nere sui cadaveri [118 - 125]
18 – L’appeso [126 - 133]
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001 - C’è qualcosa di terribile in un foglio bianco: la sua nuda vastità sembra incolmabile, abbondantemente inutile. È una questione di prospettiva: per chi si accinge a scrivere, non importa che si tratti di un autore professionista acclamato dal suo pubblico o del più improvvisato degli amatori, il foglio bianco a volte è un nemico ostile, più forte, spesso, di quella che un tempo chiamavano ispirazione: si trasforma in un muro in gomma morbida, contro il quale il pensiero rimbalza stanco, sino ad arrendersi, esausto, con la bava alla bocca e gli occhi sbarrati; ha il potere di un anestetico, appare invincibile, e con lui inizia il regno del silenzio, e dello sconforto. In alcuni casi invece, subito dopo la prima parola scritta, diventa un fido compagno, un amico insostituibile capace, a differenza di quanto accade spesso nella vita ordinaria, di accogliere il flusso della narrazione come il terreno arido fa con l’acqua, senza battere ciglio, senza perdere il filo, senza porre obiezioni affrettate dopo la prima premessa, senza giungere alla conclusione saltando a piè pari tutta l’argomentazione. Diventa una landa vergine in cui vivere e, perchè no, crescere; diventa una culla immensa per la coscienza, in cui quiete e impeto dinamico si alternano ritmicamente fino poi a fondersi; una miniera di pace, estasi e conforto; un rifugio, un nascondiglio, ma allo stesso tempo un pulpito, un palcoscenico, un teatro, un mondo nuovo.
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002 - Non so quanto centri la fortuna, in realtà; probabilmente è una componente che influenza marginalmente le nostre vite, molto meno, comunque, rispetto a quanto si creda in genere, ma non è questo l’importante, almeno non ora. Mettiamola così: io lo considero come un dono, un regalo che ho ricevuto inaspettatamente, non so quando e non so da chi, e che ho imparato ad apprezzare con il passare del tempo in maniera esponenzialmente crescente; mi piace definirla ‘predisposizione alla scrittura’, anche se non son sicuro che si tratti di una descrizione azzeccata. Tra tutti i modi che l’uomo moderno ha per esprimere se stesso, compresa quindi la parte più buia del proprio inconscio, la scrittura è la tecnica che riesco a utilizzare con più naturalezza, aspetto che non si traduce automaticamente in ‘garanzia di successo’, è ovvio; semplicemente mi viene spontaneo ‘trasformarmi in parola, in inchiostro su foglio’; c’è chi preferisce usare le note musicali e le corde di una chitarra, chi si trova a suo agio con la danza, con la recitazione, con il disegno. Tra le tante attività in cui un individuo può perdersi con affanno nel tritacarne quotidiano, è sicuramente una di quelle che mi pesa meno, in termini di fatica e, per rendere il giusto onore alle cose, una di quelle che mi gratifica di più. Un tempo la consideravo una necessità, oltre che un piacere, molto più simile alla soddisfazione di un bisogno fisico piuttosto che un’esigenza pseudo artistica o intellettuale; esatto, so a cosa state pensando: all’atto più popolare e democratico che ci sia, quello dell’evacuazione; se così vi piace, devo ammettere che non ci siete andati molto lontano.
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003 - Considero l’estate del 2011 come l’ultima della mia vita: si chiudeva infatti un periodo dorato, per alcuni aspetti, e se ne apriva contemporaneamente uno fittissimo di insicurezze. Queste ultime in realtà dovrebbero essere considerate come le uniche e vere costanti nel nostro percorso, ma spesso invece preferiamo trincerarci, in maniera talvolta anche piuttosto patetica, dietro alle cosiddette certezze che il mondo sembra offrirci a titolo gratuito, al pari di una madre amorevole, ma che possono avere più di un effetto collaterale, per giunta assai sgradevole. Ricordo il decennio iniziato nel 2001 con particolare piacere; per dare un valore sufficientemente oggettivo ad un intervallo così ampio e conseguentemente variegato, mi basta usare un criterio abbastanza semplice: descrivere un lunedì mattina standard. In questo senso, era difficile chiedere di meglio: non dovevo fare altro, appena sveglio, che scegliere un po’ di musica da mettere in sottofondo e prendere in mano un bel libro. Per me si trattava del massimo disponibile sul ‘mercato’ in quel momento, e probabilmente è per questo che mi son preso tutto il tempo (e la calma) che ho ritenuto opportuno, fottendomene delle eventuali conseguenze e cercando di curare, nel mentre, tutti gli altri miei interessi. Sapevo anche che il futuro mi avrebbe riservato inesorabilmente una serie di lunedì terribili, da maledire con tutto me stesso fino alla fine dei miei giorni; una prospettiva non proprio entusiasmante, che contribuiva sensibilmente a rendere quel limbo in cui fluttuavo molto simile ad una fetta succosa di paradiso. Ero poverissimo, in termini economici, ma quanto meno sufficientemente felice sul piano ‘professionale’.
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004 - Benché giudichi, soprattutto in questo momento, la scelta come uno degli elementi cardine della mia esistenza, è necessario ammettere, cosa che ci riesce peraltro senza grossi sforzi, considerando la sua ovvietà, che molti sono i fatti che avvengono a discapito dei nostri desideri e delle nostre intenzioni. La morte, che di solito arriva quando vuole e nella maniera che ritiene più opportuna, infischiandosene allegramente dei nostri progetti o dei nostri pareri avversi, è uno degli esempi più calzanti. Se spesso, ma tuttavia non sempre, non ci è consentito scegliere come morire, possiamo però altrettanto spesso determinare, nei limiti del possibile, come vivere e dunque come ‘non morire’: nel mio caso sono abbastanza sicuro, o meglio assolutamente certo, che non mi capiterà di schiattare con addosso la divisa dell’esercito italiano in qualche landa desertica straniera; tanto meno mi capiterà di lasciare questo mondo da poliziotto, finanziere, carabiniere o, ancora peggio, guardia penitenziaria. Si tratta comunque di casi limite: per garantire la loro inverificabilità infatti basta appena un pizzico di uniformità tra quello che si fa e quello che si pensa: se si ritiene, è il caso del sottoscritto, che quelli appena citati siano tra i mestieri più infami, orribili, e degradanti che un uomo possa svolgere, tutto si risolve di conseguenza. Il discorso si complica però quando si amplia il campo della nostra indagine: come mi comporterei di fronte alla proposta, ad esempio, di una cattedra di filosofia a caso tra quelle disponibili nel nostro bel paese?
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005 - Ancora una volta, è una questione di coerenza: personalmente, parlo in base alla mia esperienza diretta che, tra le altre cose, si è rivelata tristemente simile a quella di moltissimi altri, sono portato a considerare l’insegnante più come un surrogato dello sbirro che come un addetto allo sviluppo intellettuale e culturale dei vostri giovani. E’ una questione che merita sicuramente ben altre considerazioni , argomentazioni e approfondimenti (ci tornerò in seguito), ma per il momento è sufficiente a giustificare quella che è stata una delle decisioni di cui vado più fiero. In realtà, il gioco è stato piuttosto semplice: ai miei tempi per iniziare il percorso verso l’abilitazione professionale si dovevano maturare dei crediti specifici, questioni legate al piano di studi, per poi accedere alla SSIS (Scuola di Specializzazione all’Insegnamento Secondario), soppiantata nel tempo, se ho capito bene, dal TFA (Tirocinio Formativo Attivo). E’ bastato, banalmente, non soddisfare quei requisiti, evitando così a priori di cadere in tentazione, la spina su cui ruota l’intero mondo: avere l’acqua alla gola, si sa, è una delle situazioni più spiacevoli per poter prendere serenamente una decisione e, per restare in tema, di fronte alla necessità e a contingenze più o meno drammatiche, in molti si sono bevuti d’un sol fiato gran parte delle proprie convinzioni in cambio di quattro denari. Probabilmente non c’era affatto bisogno di tutti questi sforzi da parte mia, considerando che ci sono centinaia, se non miglia, di persone che bussano invano in attesa di entrare nel magico mondo della pubblica istruzione, ma una delle cose che ho imparato sino a questo momento è che non si può mai essere abbastanza cauti.
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006 - Non mi ci vedo proprio a sbattere le mani sulla cattedra violentemente per ottenere un grammo di silenzio; non mi ci vedo a mettere note sul registro, sul diario, sui quaderni. Non mi ci vedo a dare i voti, tanto meno quelli gravemente insufficienti; non mi ci vedo a urlare e a sbraitare contro i vostri figli, non mi ci vedo a partecipare agli scrutini di fine anno, non mi ci vedo a decidere sulla bocciatura di un ragazzo, perché ho sempre pensato, e in misura se possibile ancora maggiore in questo periodo, che in ballo ci sia il tempo e dunque la vita di una persona, anche se si tratta di un anno, anche se per molti si tratta “soltanto di 12 mesi, lo facciamo per il suo bene, del resto, e del resto non è mai morto nessuno, e del resto le regole non le ho di certo scritte io”. Non mi ci vedo a seguire protocolli e programmi ministeriali, non mi ci vedo a vomitare tutte le mie frustrazioni su un pubblico altrettanto frustrato, che non ha altro desiderio, comune ai reclusi di ogni tipo, se non quello di uscire il più rapidamente possibile da quelle aule asettiche e malsane per tornare alle cose del mondo. Non mi interessa farmi forte del potere che quel ruolo ti regala, io che autoritario, è un verdetto insindacabile del campo, proprio non riesco ad esserlo; non mi interessa insomma, per questi e per mille altri motivi facilmente intuibili, mandare avanti un sistema che ho avuto modo di maledire abbondantemente per poter anche solo pensare di finire dall’altra parte della barricata, seppur in cambio di uno stipendio. Non mi interessa presentarmi in classe, il lunedì mattina, con il giornale sottobraccio e il mal di testa già in rampa di lancio, fenomeno che ha sempre attirato la mia curiosità sin da giovane per la sua stravaganza; non mi interessa condividere un qualcosa che amo, la filosofia, in un modo così contraddittorio e controproducente.
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007 - Con lei non è stato amore a prima vista, o meglio, il nostro amore non è sbocciato subito.
Dopo aver conseguito il diploma, infatti, ho avuto la sfortuna di trascorrere sei mesi inutili e infernali presso la Facoltà di Ingegneria Elettronica della mia città.
A diciotto anni, secondo teorie e statistiche di cui l’attendibilità è una questione tutta da dimostrare, un ragazzo dovrebbe aver maturato, il condizionale è d’obbligo, la capacità di potersi orientare, tra le altre cose, nel labirinto dell’offerta formativa che il sistema d’istruzione ti offre con apparente premura.
Qualora questo non bastasse, i fantomatici test di ingresso fornirebbero, attraverso criteri assolutamente oggettivi, il grado di compatibilità con il corso di studi scelto, in modo da evitare inutili sperperi di energie e di tempo.
Il parere sfavorevole della mia ormai ex professoressa di matematica, una brava donna, dotata di grandissimo buon senso ma forse legata troppo ad una didattica decisamente rigida ed ingessata, aspetto comunque abbondantemente consentito dalla materia stessa, passò, purtroppo per me, in secondo piano: fui spinto e convinto dal coro dei vari sapientoni, parenti strettissimi in primis, che ispirati dal più stupido senso comune, identificavano in quello che allora era considerato come il nuovo Eldorado della scienza, il cammino più sicuro verso un’occupazione stabile, prestigiosa e remunerativa.
E’ stato un po’ come mettere un carro, senza ruote, di fronte ad una coppia di buoi stanchi, vecchi, zoppi e con la diarrea: i miei sostenitori nel frattempo mi aspettavano, fiduciosi e con un sorriso ebete stampato in faccia, sulla linea del traguardo.
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008 - Un uomo farebbe bene ad imparare ad amare i propri fallimenti, perchè diventano parte di lui, una delle lezioni più impagabili che ci sono concesse.
Tendo a diffidare di coloro che dipingono la propria storia come una serie perfetta di successi; o mentono, oppure non hanno ancora avuto modo di apprezzare quanto possa essere crudele la vita; è solo questione di tempo, il conto arriva per tutti e di colpo svaniscono tutte le convinzioni in proposito.
C’è qualcosa di epico nel tracollo: un’esclusiva collezione di sensazioni ed emozioni, che ti riavvicinano di colpo alla natura, ciclica per definizione, teatro eterno del sublime e contemporaneamente del terribile.
C’è qualcosa di epico nella disfatta: guardate quell’uomo, curvo sulla schiena, piegato inesorabilmente dal peso dei suoi sbagli e della contingenza, pronta ad infierire senza pietà appena la guardia si abbassa; quell’uomo che innaffia il terreno con le proprie lacrime e il sudore, ed il sangue.
Ora tende all’infinitamente piccolo, tanto da sfiorare lo zero assoluto; il cuore sembra fermarsi, questo è l’ultimo battito, è pronto a scommetterci, eppure si sbaglia.
Nessuno può realmente, contrariamente a quanto capita per mille altre questioni, delegare ad altri le proprie sconfitte, discorso che vale almeno per quelle più intime.
Dovremmo essere gelosi dei nostri insuccessi: sono il passaggio diretto verso un’altra potenziale rinascita, inconsapevole ed automatico preludio per l’ennesima catastrofe.
La fine non è la fine: spesso può essere l’occasione per guardare il mondo da un’altra angolatura.
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009 - Esame di informatica: la struttura ad albero, o qualcosa del genere.
Ci ho passato sopra diverse ore al giorno, per due mesi, poi, finalmente, il giorno dell’esame.
Il giudizio: 16.
Meno due dalla sufficienza minima, non ho manco la carta dell’orale da giocarmi. Ennesimo passo falso, dopo Analisi I, Chimica, Geometria.
Son sempre stato un campione nello sventolare bandiera bianca, nell’alzare le mani al cielo in segno di resa; se non c’è più niente da fare, tanto vale ammetterlo, prenderne atto, scegliersi una posizione privilegiata, di solito in questi casi non è difficile trovare un posto in prima fila, e godersi il crollo dell’impero, del castello di carte.
Attimi, secondi, minuti, giorni, mesi, anni: una poltiglia informe ormai priva di senso, di sapore, di profumo; ricordi, appunti, fogli, libri, tutto assieme nel cestino dell’indifferenziata.
Capirò, alcuni anni dopo, che le vere tragedie sono altre, ma ogni singolo dolore reclama il suo spazio e, anche se insignificante, il suo momento da protagonista.
E’ sempre spiacevole rendersi conto di aver fallito, ma è ancora più complicato doverlo spiegare agli altri: quando non si ha più nulla da perdere però, bastano poche parole.
Prendo la decisione dopo una notte insonne: fuggo da questo tormento, scappo dai numeri, schemi, diagrammi, equazioni, variabili, formule, tecnicismi: datemi un cazzo di libro da leggere, vi prego. Si chiude così la mia breve parentesi presso la Facoltà di Ingegneria. Un salto nel vuoto, davanti il nulla.
Vado via senza rimpianti, non prima però di aver superato l’esame di Economia Aziendale: target, fette di mercato, risorse umane, segmenti, strategie di attacco nei confronti della concorrenza, condizionamenti psicologici, ricavi, perdite, profitti, costi di gestione, marketing, pubblicità, loghi, corporazioni, multinazionali, il vangelo secondo Henry Ford; è in quell’occasione che ho avuto il primo, vero assaggio, di quanto schifoso possa essere l’orticello del cosiddetto commercio moderno.
Anche al termine di quella esperienza totalmente disastrosa, rimane la consapevolezza che non si torna a casa mai del tutto a mani vuote.
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010 - Da adolescente pensavo (la mia beata ingenuità, macellata a caldo, ancora belante, dalla spietata orgia del sociale, ha avuto comunque il tempo per provocare i suoi danni) che il mondo seguisse delle regole semplici, dettate principalmente dal buon senso.
Ero convinto che per integrarsi all’interno di un gruppo fosse sufficiente rivolgersi nei confronti del prossimo con un minimo grado di simpatia e di sincerità per venire quanto meno accettati; in realtà, con quell’atteggiamento, di questi tempi, si finisce, pare, al massimo per essere virtualmente sezionati a colpi di accetta, accettati appunto, ma in un’altra accezione del termine.
Fu con questo spirito che lasciai il piccolo nido rappresentato dal mio paese natale e mi tuffai pieno di speranze e di entusiasmo nella mia nuova vita, cinque lunghi anni nelle stanze grige di un liceo scientifico, assieme a persone che ben presto si rivelarono, per la maggiore, ben più scaltre, sul piano delle dinamiche interpersonali, del sottoscritto.
L’illusione che gran parte dei problemi legati alla vita all’interno di una piccola comunità potessero sparire automaticamente con l’ingresso in una dimensione più grande e potenzialmente più ricca, a livello culturale, e meno provinciale crollò, senza esagerazioni, in poche ore: l’impatto fu, per usare un eufemismo, complicatissimo e drammatico.
Mi sentivo come se mi trovassi nel bel mezzo di una guerra, armato soltanto di una pistola ad acqua.
Ho passato tanto tempo a chiedermi dove fossero nascoste le regole del gioco; non riuscivo a capire, la situazione attualmente in questo senso non è poi tanto diversa da allora, come funzionasse quel precario equilibrio di sorrisi finti e di dichiarazioni d’intenti altrettanto false, non riuscivo a comprendere le tecniche subdole e capziose, ne tanto meno gli obbiettivi da perseguire.
Nel frattempo, ancora oggi sono convinto che si sia trattato dell’unico modo in quel momento per sopravvivere, imparai in fretta, e molto meglio di latino, fisica e matematica, ad essere cattivo, come non lo ero stato mai e, mi auguro con tutto il cuore, come non lo sarò mai più.
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011 - Ormai maggiorenne pensavo, evidentemente la mia ingenuità non era stata completamente estirpata dalla reclusione in un liceo, che fosse facile, per chiunque, trovare il giusto spazio all’interno del mondo, compatibilmente con i propri talenti.
Suppongo, ancora oggi, probabilmente a torto, considerando come stanno andando le cose in questo senso, che la domanda giusta da fare sia: “C’è qualcosa in cui mi posso rendere utile?”.
Sarebbe fantastico se potessimo dedicarci a fare del nostro meglio per soddisfare un’esigenza, nostra e/o di qualcun altro, forti del fatto che il nostro bagaglio fisico, tecnico, culturale e attitudinale è quanto di più calzante per la situazione in cui ci troviamo ad operare.
In un certo senso, i colloqui di lavoro servono proprio a questo, anche se poi quest’ultimo si riduce semplicemente ad un mero generatore di profitto, che c’entra spesso troppo poco con la nostra storia, le nostre capacità, i nostri sogni. Il personale viene selezionato in base alla presunta abilità di rispondere ad un ordine nel minore tempo possibile e nella maniera più efficiente, senza causare troppi danni e troppi fastidi.
E’ decisamente inutile aspettare che la buona sorte bussi proprio alla nostra porta per stravolgerci l’esistenza; in realtà, come si legge da più parti, il talento va coltivato, tenuto bene al caldo, amato.
Con il senno di poi, forse avrei dovuto cambiare vita e iscrivermi a qualche scuola di scrittura creativa, lontano da tutto questo; invece, ho puntato su tutt’altro.
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012 - Non ricordo tantissimo delle mie avventure alle scuole elementari, eppure c’è un fatto che ancora oggi, a distanza di anni, mi fa riflettere.
M. passava il suo tempo a disegnare camion e ruspe; i dettagli erano sbalorditivi, curatissimi; i pneumatici, le singole parti meccaniche, sino ad arrivare addirittura agli adesivi.
Arrivavamo in classe, ci sedevamo, lui prendeva un foglio bianco e una matita ed iniziava la sua giornata di studio, in totale autonomia.
Come è ovvio veniva riportato subito all’ordine, spesso rimproverato; a nessuno sembrava importare che un bambino di sette\otto anni riuscisse a riprodurre su carta, con estrema spontaneità, un autocarro, senza l’ausilio di nessun modello ma basandosi soltanto sul ricordo, da tre prospettive diverse: fronte, retro e lato; una sorta di proiezione ortogonale.
Poi le nostre strade si separarono: frequentò le scuole medie senza particolari successi, perdendo qualche anno; probabilmente pesarono, tra le altre cose, i 4 in pagella in ‘Musica’ sotto la voce ‘Flauto Dolce’, o l’impreparato in ‘Scienze della Terra’.
Ogni tanto mi capita di rincontrarlo, abbastanza felice, almeno per come si può esserlo nel 2015: ha un lavoro e una macchina sportiva sempre lucida, sua grandissima passione; passa le giornate a guidare i mezzi pesanti dell’impresa di famiglia.
A volte penso che sia inutile avere del talento, se poi questo finisce irrimediabilmente soffocato nella pressa cieca e ottusa dell’istruzione di massa; in realtà il ‘loro’ compito dovrebbe essere quello di cogliere i fiori più belli per valorizzarli al meglio; la ‘loro’ giustificazione però, al tempo, non faceva una piega: ‘non puoi passare le giornate a scarabocchiare su un quaderno, ci sono cose molto, molto più importanti, anche se ora non lo capisci’.
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013 - Non so bene quanto incida, in percentuale, la situazione di partenza nell’economia della vita di un individuo: probabilmente, è più facile diventare un musicista se si ha la possibilità di crescere in una famiglia di musicisti, come probabilmente è più comodo sviluppare la propria personalità, le proprie idee e le proprie attitudini in un ambiente propositivo e fertile a livello politico, artistico e culturale in genere.
Fortunatamente, chi non gode di questo privilegio non è automaticamente condannato ad un’esistenza misera e avara di soddisfazioni; farà forse più fatica a trovare la sua dimensione, a furia di sbagli e sberle, o forse si dovrà accontentare di un ruolo da comparsa quando in realtà ha tutte le carte in regola per essere il protagonista principale.
Questo mondo però, e meno male, a volte si dimentica qualche porta aperta: la fame, la rabbia e l’ostinazione, unite alle necessarie qualità, non c’è bluff che regga in questo caso, ti permettono di invertire il pronostico della vigilia; la storia è costellata di conferme, ma è sin troppo puntuale nel ricordarti che, nonostante tutto, la squadra avversaria parte sempre e comunque in vantaggio, e in anticipo.
La ricetta è semplice: devi crederci tu in primis, perché difficilmente qualcuno lo farà al posto tuo; è una condizione necessaria ma non sufficiente, in aggiunta devi avere il culo di trovare la persona giusta al momento giusto, molti lo fanno di professione, che si accorga di te e abbia quattro spiccioli da scommettere, proprio come si fa con i cavalli, assieme alla voglia di investire la sua fiducia nel tuo estro. Un aspetto trascurabile se alle tue spalle hai già chi lavora alacremente, con abbondanza di mezzi, dal momento della tua nascita, per spianarti la strada.
Il merito è costretto a dividere, suo malgrado, la coppa di vino con il ‘caso’; uno su mille ce la fa, per gli altri non c’è posto, non almeno nei libri di storia.
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014 - Gli amici si scelgono, i parenti proprio no.
Nelle intenzioni, ogni famiglia rappresenta per il nuovo arrivato il substrato ideale in cui crescere, nella pratica però le cose si complicano, anche in maniera piuttosto drammatica.
Ad Andrè Agassi, contrariamente a quanto si potesse pensare prima dell’uscita della sua auto-biografia, le cose sono andate un po’ una merda, soprattutto all’inizio: il padre vede in lui, a ragione, un futuro campione del tennis e si adopera con tutti i mezzi a sua disposizione, i metodi possono anche essere discutibili, per mettere in atto le enormi potenzialità del giovane.
Il figlio, come da copione, scalcia, si oppone e reclama una vita identica a tutti i suoi coetanei; poi, come accade altrettanto spesso, si piega, cede e si arrende, condannato dal destino, che gli ha messo a disposizione capacità smisurate, e, costante comune a molti, dall’autorità paterna.
Il risultato è semplice: ci troviamo di fronte ad un ragazzo che odia con tutto se stesso l’attività che gli fornisce il sostentamento, niente di strano in questo, e nutre un odio profondo, e scontato, nei confronti di chi ha scelto per lui la strada da percorrere.
Tutto sommato ad Agassi poteva andare sicuramente molto peggio, considerando l’enorme varietà di impieghi orribili, e sicuramente meno remunerativi, che milioni di persone hanno ricevuto in eredità assieme al cognome e al corredo genetico.
Una situazione che si ripeterà probabilmente all’infinito, almeno fino a quando la struttura familiare sarà più simile ad un recinto che ad un vaso, e l’individuo più simile ad un sacchetto da riempire che ad una piccola piantina, dove i genitori, spesso unici ed esclusivi titolari, assieme al sistema educativo statale, esercitano il monopolio per diversi anni e nel momento chiave, sulla sua formazione culturale, etica e intellettuale.
Emerge tuttavia da tutta la questione una piacevole conferma: la felicità, per fortuna, non dipende necessariamente dai traguardi raggiunti a livello professionale.
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015 - Ho passato i primi quindici anni, come capita a molti, ad assorbire come una spugna gli insegnamenti e gli input offerti dai miei genitori e dal sistema educativo, ed altrettanti a resettare faticosamente quanto appreso, condizione imprescindibile per iniziare a dare una nuova forma a me stesso.
Non serbo rancore, sia chiaro: sono convinto che in questo caso, mio padre e mia madre abbiano agito guidati dal buon senso e dall’amore, un trattamento che non tutti i figli hanno la fortuna di ricevere.
Purtroppo però, amore e buon senso non sono sufficienti: tutti partiamo inevitabilmente dal presupposto, quasi mai veramente messo in discussione, che le nostre credenze siano assolutamente giuste; un atteggiamento che ci può stare se applicato strettamente a livello individuale, ma che scricchiola, e non poco, se esteso a terzi.
Chi ci permette di crescere, fornendo protezione e sostentamento, regala contemporaneamente, fa parte del gioco, una serie di parametri e chiavi di lettura per orientarsi nel mondo; il soggetto però non può valutare, nell’immediato e con i criteri più opportuni, l’effettiva bontà del bagaglio a sua disposizione (per una molteplicità di ovvi motivi tra cui spicca la mancanza di esperienza), il quale viene quindi acquisito ed accettato automaticamente e diventa, progressivamente, il principale serbatoio di nozioni da cui attingere per far fronte ai problemi, di qualsiasi natura essi siano, che si incontrano.
Può capitare però (la vita, sostengono in molti, sa essere una maestra crudele e severa), che gli strumenti a disposizione si rivelino all’improvviso inadeguati per destreggiarsi nel dedalo dello spazio sociale.
L’individuo è in un certo senso costretto a confrontarsi e rapportarsi rapidamente con regole e codici assolutamente nuovi che, molto spesso, sono antitetici rispetto a quelli forniti dal suo nucleo familiare.
Gli effetti sono molteplici: talvolta si assiste ad una vera e propria rottura con il modello adottato sino a quel momento, un brusco e repentino cambio di rotta che può anche essere inteso in maniera molto negativa, addirittura come un vero e proprio fallimento personale, da parte dei custodi della nostra formazione.
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016 - Mio padre si aspettava un figlio sostanzialmente diverso da quello che in pratica si è trovato davanti, partendo dalle questioni più semplici e trascurabili, come ad esempio l’estetica o i costumi, sino ad arrivare a quelle più complesse e problematiche, come le idee politiche.
Probabilmente un padre, non posso dirlo con certezza poiché non mi trovo in questa situazione e difficilmente mi capiterà il contrario, spera che il figlio possa ricalcare le proprie orme, possibilmente con uguale o maggiore successo: in lui vede una conferma o una rivincita, a seconda dei casi, e quindi una fonte immensa di soddisfazioni o una delusione intermittente.
Ha cercato di trasmettermi i suoi valori: votava per il Partito Socialista, era un craxiano fervente, convinto allo stesso tempo, come molti in Italia, che ‘Mani Pulite’ fosse un’operazione condotta dai cattivi e dagli invidiosi di turno verso i buoni, così mi ha sempre detto; nel 68 aveva 19 anni, lavorava dall’età di 14, dopo aver appena concluse le scuole medie. Niente superiori, ne tanto meno università; niente contestazione giovanile, niente ribellione. Niente lotta di classe.
Mia madre invece faceva il tifo per la Democrazia Cristiana, andava a messa ogni domenica e pretendeva, con quel pizzico di severità necessaria per tirare su i giovani al meglio, che io facessi altrettanto; nel 68 aveva 14 anni, ma mio nonno, un tipo piuttosto conservatore stando a quanto mi raccontano (è morto sei mesi dopo il mio arrivo in questo gran bordello), deve essere riuscito nell’intento di isolare le sue due figlie da tutte le tentazioni pericolose che giungevano dall’esterno, ad eccezione delle minigonne e delle sigarette. La morte di mia nonna, praticamente contemporanea a quella del marito, ha fatto si che mia mamma riversasse tutte le sue attenzioni sul sottoscritto che, aspetto tutt’altro che secondario, poteva goderne in assoluta esclusività.
E’ con questo background che mi presento in prima superiore: le istruzioni da seguire per arrivare sano e salvo alla fine del mio percorso, portare a termine gli studi è sempre stato considerato un obbiettivo primario dalle mie parti, sono semplici e chiare: rispetta l’autorità e fatti i cazzi tuoi; se qualcuno protesta per qualcosa, non immischiarti e fatti i cazzi tuoi.
Fu proprio quest’ultimo punto a darmi i problemi maggiori, soprattutto nei rapporti con coloro che alle spalle avevano una spinta diversa dalla mia, tendenzialmente di sinistra, e che viaggiavano sicuri e forti del loro corredo culturale, adottato con verosimile convinzione.
Ai loro occhi, in qualche occasione ho recitato la parte dell’infame, ma in realtà stavo solo mettendo in pratica, peraltro per le ultime volte, le direttive che mi erano state impartite; allo stesso tempo mi capitava di portare avanti idee controverse, un po’ per divertimento e un po’ per andare contro il catto-perbenismo diffuso, lo stesso in cui avevo sguazzato più o meno pacificamente per anni ma che all’improvviso mi appariva ripugnante.
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017 - A prima vista, sembra una situazione blindata, senza nessuna possibilità di errore.
Libertari spingono fiduciosi i loro passeggini con futuri libertari dentro, convinti che niente e nessuno potrà rendere i loro figli dei brutti nazi-fascisti omofobi e violenti; d’altro canto, stimabili conservatori in giacca e cravatta ripongono tutte le loro speranze in quell’adorabile bimba dagli occhi azzurri che mai e poi mai, son pronti a metterci la mano sul fuoco, avrà niente a che spartire con quella deforme feccia hippie puzzolente anarco-comunista, una mandria di falliti, tossici e scansafatiche senza nessun futuro davanti.
Eppure, le cose talvolta non vanno secondo i piani.
Piccole, quasi impercettibili, fratture destabilizzano progressivamente le fondamenta etico-morali, fragilissime, dell’individuo in via di sviluppo.
Come scriveva R.W. Emerson, un ragazzo impara più cose nella strada che lo porta da casa sua alla scuola rispetto a quante ne impari effettivamente a casa sua o a scuola.
Le persone che frequenti, anche accidentalmente, ti offrono una prospettiva diversa, e solo per questo possono trasformarsi immediatamente in quelle che qualcuno chiama ‘cattive compagnie‘, capaci di strapparti senza pietà dalla ‘retta via‘ che qualcuno aveva scelto per te.
Le influenze, soprattutto negli ultimi anni con la crescita esponenziale di internet e dei cosiddetti social-network, ormai sono infinite e praticamente, bisognerebbe arrendersi, incontrollabili; se prima risultava difficile rinchiudere un ragazzo dentro una campana di vetro, ora l’impresa è impossibile.
Una volta che la tempesta ormonale – adrenalinica si placa, hai solo due strade: tornare indietro, fare un back-up del sistema e diventare nuovamente quello che già eri, con maggiore e definitiva sicurezza (tradotto con il linguaggio del senso comune: mettere la testa a posto), oppure abbracciare il nuovo te stesso e imparare finalmente a conviverci, cosa più facile a dirsi che a farsi, sperando che chi ti sta attorno capisca o quanto meno accetti la metamorfosi.
Non so bene se siano state le situazioni a condizionarmi, o se sia stata la mia curiosità a determinare le situazioni che poi si sono rivelate fondamentali: gli amici e due veicoli straordinari come la musica e i libri hanno contribuito sicuramente a farmi affacciare su nuove realtà, via via sempre più lontane dalla situazione di partenza; tre episodi particolari, hanno infine sancito la fine della mia vita precedente.
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018 - Riesco a chiamare solo dopo cinque giorni dalla mia partenza, al mattino, saranno circa le 7.30.
Non possiedo un cellulare, e l’unico mezzo a mia disposizione sono i telefoni pubblici.
A Genova, inutile dirlo, le cabine funzionanti sono rare, praticamente introvabili, considerando che la maggior parte sono state vandalizzate; non ho molto tempo da perdere, non ho intenzione di soffermarmi per quelle strade colpite a morte, la città è un cadavere agonizzante che non riesce a nascondere le proprie ferite ancora fresche, nonostante la bella mattina estiva.
Salgo su un autobus e scappo via, verso Savona, con la testa piena zeppa di fotogrammi. Gli eventi mi sono colati addosso, come se si trattasse di un film.
– Così tanta gente, la vedi solo per le Olimpiadi. E’ un’occasione unica – mi disse M. trattenendo a fatica l’entusiasmo.
A lui era bastato poco per strappare un si al padre; certe cose sono più semplici quando il tuo interlocutore è un vecchio militante del partito comunista.
Il mio compito si rivelò decisamente più difficile, ma contrariamente al passato, avevo sviluppato una sana e coriacea ostinazione, supportata da una favella agile e aggressiva; armi importanti, efficaci perchè inedite in quel terreno di battaglia casalingo.
La paura dei miei genitori, una fra le tante, era che la situazione potesse degenerare, per me erano tutte stronzate: sapevo solo che dovevo partire, il resto non mi importava.
– Mi state impedendo di fare una delle esperienze più importanti della mia vita.
Era questa l’argomentazione principale del mio discorso. Con il senno di poi, posso dire di averci visto giusto.
Continuai ad urlare, ad insistere, fino a quando si arresero. Non so se lo fecero perchè, semplicemente, mi volevano bene, o perchè non erano sicuri della validità di quel divieto; i fatti diedero comunque la giusta parte di ragione anche a loro.
La promessa che feci a mio padre probabilmente mi ha salvato il culo, considerando soprattutto che non avevo alle spalle altre esperienze di piazza significanti.
– Non fare cazzate – lo ripeté per tre volte, prima di farmi andare via. Ubbidii. Come mi era capitato molto spesso in precedenza.
La voce è quella di un uomo a pezzi, che non dorme da giorni e non riesce proprio a mettere pace al coro delle proprie paranoie, fomentate a regola d’arte dal folle bombardamento mediatico dei tg.
– Ciao, sto tornando a casa, arrivo tra tre ore -. Le nostre conversazioni, al telefono soprattutto, sono sempre state piuttosto brusche, sbrigative, come tra due persone che, seppure legate da un ovvio vincolo di sangue, non si conoscono e non hanno niente da dirsi, ad eccezione delle informazioni basilari.
Per la prima volta lo sento piangere, anche se ho il sospetto che in passato l’abbia fatto semplicemente di nascosto. Crolla di colpo, in maniera assolutamente inaspettata, l’immagine dell’uomo duro dietro alla quale, non so perchè, ha scelto di nascondersi.
– Mi hai tolto dieci anni di vita – accusa, tra i singhiozzi.
Non è certo la reazione che mi sarei aspettato, mi sembra esagerata ma non ci faccio caso. Sono troppo impegnato a riprendermi, con voracità disumana , ciò che mi spetta e che sento mi è stato tolto per troppo tempo.
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019 - Il futuro, per un genitore, ha un sapore del tutto particolare: gli occhi si posano su quel fagottino di carne tenera, e il cuore come per magia accelera i suoi battiti e pompa sangue e speranza nelle arterie, nelle vene, arriva impetuoso dritto sino al cervello, ossigeno prezioso che nutre la fantasia, materia prima per la realizzazione di cattedrali incantevoli: scorre davanti una vita serena, profumata, fortunata, inebriante, colorata, magica, benedetta.
Poi lo sguardo si sposta sull’asfalto, sui muri screpolati, incontra le facce bianche, malate e nervose dei passanti; percepisci l’aria puzzolente insinuarsi dentro al naso, rotolare giù sin dentro i polmoni e infine aggrapparsi violentemente agli alveoli: il domani è foderato di incognite, di malattie nuove, nuove sostanze tossiche, di pericoli inimmaginabili, di nuova violenza sempre a caccia di nuove e inconsapevoli vittime.
Mio figlio godrà di tutte le fortune di questo mondo.
Ma la paura non è sconfitta, si accuccia a sonnecchiare in un angolo, è una belva feroce che sa benissimo che il suo momento arriverà, si tratta soltanto di aspettare, e lasciare che il mondo faccia il suo dovere.
E non importa se ti ostini a non sentire il rumore in lontananza: si scavano già le fosse comuni per i martiri di domani; ma che ci importa, abbiamo un’eternità davanti.
Mio figlio sarà un condottiero valoroso, pronto a conquistare il mondo: lui è così forte.
I suoi occhi così grandi, neri come quelli della madre, già pronti per versare miliardi di lacrime. E chissà quanti sospiri, quante maledizioni scagliate verso il cielo, quante notti insonni, quanti crampi alla bocca dello stomaco.
Giorni persi, a cercare un senso.
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020 - Lasciavo il libro ai piedi del letto, in modo che fosse subito disponibile al mio risveglio, senza, aspetto ancora più importante, dover abbandonare il tepore maturato tra le coperte nel corso della notte.
Facevo volentieri a meno di andare a lezione: mi permetteva di risparmiare il denaro per gli spostamenti e, aspetto ancora più importante, una quantità esagerata di tempo.
Fortunatamente, le letture che venivano proposte erano, in linea di massima, abbastanza interessanti: instauravo con il testo un rapporto intimo, diventava il mio unico amico, la mia ossessione per 30\40 giorni di seguito, dal lunedì al venerdì pomeriggio.
Gli ultimi giorni della settimana invece venivano dedicati al lavaggio della materia cerebrale: litri di sostanze alcoliche, talvolta di pessima qualità, erodevano chimicamente le pareti del mio stomaco ma contribuivano contemporaneamente ad allentare la morsa della tensione e della stanchezza psicofisica, acutizzata dal regime di quasi assoluto isolamento a cui mi sottoponevo in maniera volontaria.
Poi si ripartiva, sino al giorno del verdetto finale.
Accadeva, nel frattempo, qualcosa che definirei esaltante: le varie nozioni, i concetti, le teorie, talvolta conficcate con forza bruta e grande ostinazione, molto spesso assorbite in maniera sorprendentemente naturale, davano vita a riflessioni nuove e più articolate, offrivano spunti brillanti per l’umile vagabondare della mia fantasia e della mia curiosità, oltre a inaspettati punti di vista alternativi su una vastità di argomenti diversi; era come se un cibo mai assaporato prima stesse dando nuova energia, in maniera costante, alla mia mente.
Imparavo progressivamente ad apprezzare l’eleganza dei ragionamenti e delle argomentazioni, l’imponente solidità del metodo, la profondità delle analisi, l’enorme forza distruttrice custodita all’interno delle singole osservazioni critiche.
Il colloquio con l’insegnante era utile per avere un riscontro oggettivo: in quella sede avevi la conferma, o la smentita, di aver effettivamente compreso quanto studiato.
Peccato che nel gioco fossero inclusi, inevitabilmente, tutta una serie di aspetti decisamente meno poetici.
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021 - Ho sempre ritenuta tristemente patetica la regola dell’obbligo di frequenza: una formuletta che consente al professorone di turno di evitare l’onta mortale dell’aula deserta, pericolo costante soprattutto quando si offrono dosi di carisma ed entusiasmo prossime allo zero.
In realtà, tale vincolo di fatto non esisteva, ma il docente si premurava di specificare, in maniera più o meno velata, che chi avesse sopportato educatamente il supplizio, avrebbe goduto di una corsia preferenziale per il superamento della prova.
In sintesi, chi ti poneva le domande non si aspettava altro che quelle stesse risposte fornite durante le lezioni: in questo caso, i dieci\quindici minuti di colloquio volavano via rapidi e banali, con buona pace del tuo senso critico ansioso, e puntualmente deluso, di poter esibire i suoi eventuali progressi.
Alcuni di noi puntavano sull’imprinting lorenziano: nelle prime ore del corso, cercavano di fissare i propri tratti somatici nella memoria visiva dell’avversario, e si premuravano di consolidare questo dato sensibile con apparizioni sporadiche, sperando quindi di guadagnare qualche ‘punto simpatia’ spendibile nel momento decisivo.
Io di solito sceglievo una linea più intransigente e mi presentavo da perfetto sconosciuto: nel programma, venivano indicati i testi aggiuntivi per i ‘disertori’, ma era una clausola che non ti blindava automaticamente, anzi, dalle eventuali rotture di coglioni.
Dalla prima domanda ti rendevi conto del clima che avresti respirato nei successivi, eterni secondi: quando hai passato gli ultimi mesi della tua vita a sbattere quotidianamente il cranio, come un martello pneumatico, sopra le stesse pagine, sei in grado almeno di distinguere gli argomenti principali da quelli secondari, e questi ultimi da quelli poco importanti, sino ad arrivare ai passaggi praticamente inutili; prendendo per buono questo discorso, non ho mai capito l’accanimento mostrato da alcuni docenti, che esordivano con il chiederti un’analisi dettagliata di un’anonima frase poggiata per caso a commento di qualche illustrazione in bassissima risoluzione.
Con il passare del tempo e l’accumularsi delle esperienze negative, sviluppai un metodo di studio che si nutriva avidamente della paranoia più densa: cercavo di eliminare nei limiti del possibile le zone d’ombra, sperando così di non cadere di fronte al capriccio da scompenso ormonale del mio esaminatore.
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022 - Vivevo il momento dell’esame come un duello o, molto meglio, come una rapina.
E’ semplice: arrivi, saluti, ti siedi, cerchi di fottere chi hai davanti in qualsiasi modo possibile sperando di non essere fottuto a tua volta, prendi il voto, qualsiasi esso sia, metti una firma e scappi.
Stavo sviluppando un rapporto decisamente conflittuale con qualsiasi figura autoritaria: i professori non potevano rappresentare un’eccezione, e a dire il vero molti di loro non facevano assolutamente nulla per invertire la tendenza.
Indisponenti sin dalle prime battute, facce rigide, nervose, annoiate.
Con il passare degli anni mi sono convinto del fatto che in realtà si sentissero dannatamente limitati a ricoprire quel ruolo: probabilmente sarebbero voluti diventare scrittori di successo, o ricercatori di fama internazionale, e invece si dovevano accontentare, in cambio di uno stipendio discreto e di parecchio tempo libero, di svolgere della semplice didattica che comprendeva, purtroppo, anche l’aspetto della valutazione; in parole povere, si dovevano sorbire una serie infinita di giovani stronzi, talvolta spudoratamente impreparati, lanciati disperatamente all’inseguimento di un pezzo di carta che, spesso, si sarebbe rivelato, alla fine dei giochi, totalmente inutile; una penitenza che sarebbe cessata soltanto con il raggiungimento della pensione.
Altri, una minoranza, si sforzavano di essere quanto meno cordiali e cortesi, dipingendo con tinte più gradevoli quella che era troppo simile, purtroppo, ad una farsa patetica.
Il problema di fondo era il mare di superficialità che invadeva tutti gli spazi: le lezioni nove volte su dieci erano mortalmente noiose; chi le teneva seguiva ossequiosamente un copione sempre uguale, così come spesso lo erano gli argomenti dei corsi. Il docente si vomitava addosso nozioni incolore, incapace di stimolare qualsiasi tipo di reazione; raramente ho assistito ad un dibattito veramente prolifico: chi faceva delle domande era interessato soltanto a dei chiarimenti concettuali utili esclusivamente ai fini del voto finale; nel peggiore dei casi, cercava solo un po’ di visibilità.
Contrariamente a quanto pensassi, la facoltà di filosofia sarebbe dovuta essere il regno della libertà di pensiero, le osservazioni critiche venivano liquidate frettolosamente: se eri fortunato, ricevevi una risposta che non c’entrava nulla con la tua domanda, se eri sfortunato, venivi trattato come un intralcio, dribblato come si fa con le carcasse degli animali morti e abbandonati sulla carreggiata.
Gli studenti, non è certo una novità, reagivano di conseguenza: c’era chi scarabocchiava su di un foglio o direttamente sul banco; chi leggeva altro, come il sottoscritto; c’era anche chi preferiva far finta di trovarsi ancora alle scuole elementari durante l’ora di dettato e riportare pedissequamente il verbo del maestro.
Quasi tutti insomma, si impegnavano al massimo per spingere quei 45 minuti nel baratro del passato, nel modo più rapido ed indolore.
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023 - Ricordo ancora il mio primissimo incontro con Michel Foucault: non mi vergogno a parlarne con gli stessi toni con cui di solito si raccontano le storie d’amore, perchè il sentimento di ammirazione e di riconoscenza che provo nei confronti di uno dei più grandi pensatori del XX secolo è immenso, nonostante non abbia mai avuto l’onore di conoscerlo di persona.
La mia professoressa di filosofia politica ci parlava dei, testuali parole, ‘tanti uomini della sua vita’: Rousseau era uno di questi, assieme ad Hobbes e ad altri che ora mi sfuggono; è normale, aggiungeva, quando dedichi gran parte del tuo tempo e delle tue energie allo studio estremamente meticoloso dei lavori di un autore, entrare in un certo qual modo in rapporto, intimo e intenso, con lo stesso, come se si trattasse di un affetto reale.
Per uno studente, penso, le dinamiche sono pressoché le stesse, con i toni se si vuole addirittura enfatizzati dall’inesperienza e dall’entusiasmo adolescenziale: capita, nel tuo percorso, di ‘scoprire’ qualcuno che con le sue teorie ti completa, da sostegno ai tuoi pensieri timidi e barcollanti, diventa il tuo punto di riferimento, perchè quello che ha scritto corrisponde esattamente a quello che vorresti dire ma che, per carenza di mezzi, non riesci ad esprimere (in realtà nemmeno a concepire) altrettanto efficacemente.
Ignoro al momento l’argomento principale del corso, ma A. N. ci aveva dato la possibilità di integrare il programma con una lettura a scelta, fra cinque diverse proposte: negli ultimi due minuti di lezione, ci fece una carrellata rapida dei contenuti appoggiando i volumi sulla cattedra, riservando a ‘Sorvegliare e punire’ un parallelo spericolato con il ‘Grande Fratello’ in onda su Canale5, emblema, a suo dire, delle nuove forme di controllo sociale.
Mi fidai più del mio buonsenso e della mia curiosità, accalappiata fortunatamente dal titolo, piuttosto che della recensione, anche se temevo di trovarmi di fronte all’ennesima disamina inutile di qualche sociologo da circo sulle degenerazioni della tv moderna.
Inutile ammettere che al termine della lettura di quelle 350 pagine scarse, di fronte a me si apriva un mondo nuovo, inesplorato, una vera e propria miniera d’oro.
Inutile allo stesso tempo, raccontare come andarono le cose all’esame: dopo aver discusso dei temi principali, arrivò il momento di commentare assieme il volume di Foucault.
In testa avevo una miriade di osservazioni che si agitavano frenetiche e aspettavano soltanto un cenno per esondare dalla mia bocca: la nostra analisi però, un po’ lo temevo ma speravo ingenuamente con tutte le mie forze, sino all’ultimo, che non si potesse cadere così in basso, si concentrò con puntuale banalità su quello che probabilmente era il suo, unico, cavallo di battaglia in merito: «Mi dica, non ci ha trovato analogie inquietanti con il Grande Fratello di Canale5?».
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024 - La Fuckoltà il sabato mattina si trasforma. E’ un po’ quello che capita anche agli ospedali, probabilmente è un aspetto che coinvolge allo stesso modo tutti i grandi edifici che di colpo si svuotano della loro anima, le persone, e diventano ancora più silenziosi, artificiali, grotteschi, alienanti.
Aspetto il mio uomo seduto sui gradini delle scale interne, immerso in una calma irreale. L’appuntamento è fissato per le nove, ma lui non accenna ad arrivare, e il ritardo aumenta progressivamente.
Addosso ho una sensazione strana, decisamente sgradevole, amplificata dall’alcool immagazzinato la sera precedente e che, a causa delle poche ore di sonno alle spalle, è ancora bello vivo e decisamente turbolento.
In mano ho un foglio: la mia domanda di laurea per il triennio; manca solo la sua firma, ho ancora quattro giorni per la presentazione di tutta la documentazione.
Con A. O. avevo avuto l’occasione di dare tre esami: mi sembrava un tipo decisamente gentile, preparato, disponibile; non avevo avuto nessun tipo di problema, i suoi corsi erano senza dubbio interessanti, e notai con piacere come tendesse a demolire quelle fastidiose barriere formali tra studente e docente; la stretta di mano, forte e vigorosa, con cui ti salutava al termine dei colloqui era un modo di fare inusuale in un mondo ingessato come quello accademico, e fu l’aspetto che forse mi convinse definitivamente del fatto che si trattasse della persona giusta per me.
Mi venne spontaneo e naturale chiedergli di seguirmi con la stesura della tesi, e lui accettò cordialmente. Avremmo fatto un lavoro snello e sintetico, mi assicurò, perchè per il diploma di primo livello non era assolutamente necessario spendere troppo tempo.
Per quanto riguarda la bibliografia, di conseguenza, sarebbe bastato concentrarsi sul testo principale, quello proposto dal sottoscritto. Lui si sarebbe occupato di leggere tutto il materiale, io non dovevo far altro che iniziare a scrivere, e così feci, per quattro mesi.
Non mi preoccupava il fatto di svolgere il compito da solo, era una cosa a cui ero ormai felicemente abituato, così procedevo spedito: come da accordi, consegnavo le bozze al docente che mi invitava puntualmente ad andare avanti.
Arrivò con svariate ore di ritardo, per via di non so quale problema occorso al suo volo da Pisa, mi fece entrare nel suo studio e ci sedemmo, con pochi convenevoli.
I toni cambiarono all’improvviso, come se sino a quel momento avesse indossato una maschera dalla quale si era liberato con un prestigio, un colpo di scena degno della miglior opera teatrale.
– Non va bene.
L’esordio in effetti non lasciava spazio a tantissime interpretazioni.
Sento la sudorazione aumentare all’improvviso, son seduto e questa è una fortuna perchè mi sento le gambe molli. Cerco di reagire.
– Cosa non va bene?
– Tutto.
E’ come se qualcuno stesse fracassando la mia faccia sopra una lastra di metallo, in maniera assolutamente gratuita, senza darmi nessun tipo di spiegazione.
Mi regala qualche dettaglio in più, quasi mosso da compassione.
– Le citazioni sono inesatte, è sbagliata anche la suddivisione in paragrafi.
Se è solo quello il problema, posso correggerlo: ho ancora quattro giorni, dormendo giusto qualche ora e passando il resto al pc posso farcela, ma lui sembra leggermi nel pensiero e sferra un altro colpo violentissimo, sicuro della protezione che il suo ruolo sociale gli regala.
– Deve rifarla da capo. Veda Lei se riesce. Nel caso me la manda via mail al mio indirizzo, e io gli faccio sapere se va bene. I documenti posso firmargli anche ora, non è un problema, l’ho già fatto altre volte, ma io riparto per Pisa domani e tornerò in sede tra un mese.
Per un attimo prendo in considerazione l’idea, anche se mi rendo subito conto che è fuori da ogni logica riuscire a recuperare in tre giorni quanto fatto in centoventi.
L’aggrapparmi a simili ipotesi dimostra come la mia razionalità sia appena stata spedita a fare in culo con un biglietto di sola andata. Perchè me lo dice soltanto ora? E’ l’unica domanda che resta in piedi dopo il massacro, ma non riesco ad articolarla in parole. Parte all’attacco, nuovamente.
– Cosa non le è chiaro? E la smetta di fare quella faccia.
Mi sgretolo, pezzo dopo pezzo, e i frammenti cadono invisibili su quella cattedra lucida in legno massiccio, ma è un dettaglio a cui nessuno bada. Il mio interlocutore mette fine alla chiacchierata, snocciolando le ultime indicazioni inutili. Mi consiglia di leggere ‘Come fare una tesi di laurea’ di Umberto Eco e mi suggerisce due o tre percorsi alternativi su come sviluppare il discorso, buttandoci in mezzo Nietzsche e qualche nome di secondo piano.
Ma ormai è tardi. E’ come regalare un paio di scarpe, peraltro orribili, a chi ha appena perso una gamba.
Mi alzo, saluto mogio ed esco dalla stanza. Senza stretta di mano.
Raramente mi è capitato, in vita mia, di provare tanto disgusto nei confronti di una persona e una sensazione che, ancora oggi, credo rasentasse l’odio assoluto.
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025 - Per mesi, la via più semplice per addormentarmi è stata quella di immaginare un altro incontro con A. O., magari senza una cattedra a dividerci, un’altra situazione a parti invertite, con i rapporti di forza capovolti.
I miei colleghi cercarono di consolarmi in ogni modo possibile: sembrava quasi che tutti fossero a conoscenza della totale inaffidabilità del soggetto in questione, ad eccezione del sottoscritto.
Buttai nel cesso tutto il lavoro, cambiai relatore e dopo altri sei mesi discussi la mia tesi dal titolo ‘Il Panopticon e l’evoluzione del sistema penale dal XVI al XXI secolo’.
L’ultima volta che rividi A. O. fu in occasione di un esame per la specialistica, non proprio quello che mi aspettavo, insomma.
– Ci conosciamo già? – mi chiese appena entrai nel suo studio. L’aria da perfetto imbecille che aveva appiccicata sulla faccia mi faceva credere che realmente non si ricordasse di me; ammissibile come cosa, considerando quante persone diverse sfilano in quelle aule ogni anno.
– Forse di vista, ho dato un esame con Lei nel triennio – tagliai corto.
Ero li esclusivamente per prendere il mio voto e dileguarmi nel più breve tempo possibile. Come sempre, del resto. E così feci.
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026 - Mi sentivo stanco, deluso e demotivato. Avvelenato mortalmente dalle molteplici tossine che il sistema secerne: effetto collaterale inevitabile, o risultato calcolato e ottenuto nel minimo dettaglio, poco importava.
Ancora una scelta davanti, l’ennesima.
Da una parte la voglia immensa, che sbraitava le sue ovvie ragioni, rinchiusa com’era nella piccola gabbia piantata nel centro dello stomaco, di cambiare definitivamente pagina.
Dall’altra, messa all’angolo, impaurita per ciò che era stato e per ciò che necessariamente sarebbe ancora accaduto, stava la volontà di portare a termine un percorso che nonostante tutto mi aveva regalato anche delle bellissime esperienze, seppur rare.
Le voci delle sirene, penetranti come aculei, le tentazioni, le pressioni, le aspettative altrui, gli inviti, i sussurri del demonio, andavano a comporre quella sterminata foresta nera che conoscevo molto bene, in cui ero costretto, al pari di tanti altri, a muovere i miei passi. Di nuovo al centro della scacchiera, in attesa di fare la prossima mossa
I miei genitori non perdevano l’occasione di ribadire il loro sterminato desiderio di vedere terminata nel migliore dei modi la mia carriera scolastica, ma lo facevano con moderata cautela, consapevoli, ne avevano avuto esperienza diretta, dell’infinita serie di aspetti negativi che questo avrebbe comportato per me. I loro occhi erano comunque velati da una sottile patina di tristezza: il loro film preferito rischiava seriamente di prendere una piega assolutamente indesiderata.
A. L., la mia relatrice, con cui effettivamente instaurai un buon rapporto, aspettò il giorno in cui mi consegnò le ultime correzioni della tesi, ormai ci siamo, mi disse con un bel sorriso, per sedurmi con una provocazione da dieci centesimi: secondo lei, avevo tutte le potenzialità per fare bene, sarebbe stato dunque un peccato se avessi abbandonato gli studi. Difficile sentirmi dire il contrario: era il suo lavoro, io in sostanza, ne ero consapevole, solo uno dei polli dell’allevamento.
Dopotutto però, le alternative a mia disposizione non erano tantissime, e comunque erano infarcite abbondantemente di aspetti intollerabili.
Tornai a casa e trovai mio padre e mia madre all’interno del piccolo cucinino, intenti a preparare il pranzo, come capitava spesso in quel periodo: non so se il giorno li ho resi effettivamente felici, comunicando loro la mia decisione; posso solo supporre di si, considerando che era tutto quello che bramavano.
Se di gioia si trattò, durò comunque soltanto lo spazio di qualche respiro. Probabilmente sbagliai i tempi, rovinai tutto in pochi istanti, chiedendo, simile ad un vigliacco che cerca di approfittare del momento evidente di debolezza del suo avversario, un riscatto in cambio del mio sacrificio.
Mi offrirono una ricompensa in denaro, una macchina, un viaggio; sarebbero stati pronti anche a costruirmi una navicella spaziale, un sommergibile, un aereo.
Tutto tranne quello.
Ricordo le grida, poi l’aria si incendiò, nervosa, isterica, densa, elettrica. Si rifiutavano di inchinarsi a quello che ai loro occhi era un ricatto bello e buono.
Per sopravvivere in questo mondo è utile imparare nel più breve tempo possibile che chi riceve deve essere altrettanto pronto a concedere.
Ora ne sono sicuro: incastonati nel mio corredo genetico ci sono dei luminosissimi frammenti di ostinazione pura, tramandati come molto altro, del resto, da quell’immensa donna che fu mia nonna.
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027 - Sceglierlo non fu facile, considerando soprattutto che si trattava della prima volta, e di conseguenza non sapevo bene cosa aspettarmi, e che parametri adottare.
Saranno stati una decina, forse di più. A me ovviamente ne bastava uno, lo volevo, a tutti i costi, e ormai era una questione di minuti.
U. mi convinse del fatto che potesse essere una bella faccenda per me: il desiderio crebbe nel tempo, ma gli ostacoli erano comunque difficili da superare, per anni furono in pratica insormontabili.
A mio sfavore giocava, in maniera sino a quel momento determinante, un caso di toxoplasmosi dalle conseguenze nefaste che riguardava un neonato, incontrato per caso, almeno così raccontano, nei miei primi giorni di vita nelle stanze dell’ospedale pediatrico: le lacrime dei genitori del piccolo influenzarono terribilmente la fantasia dei miei, così l’argomento fu considerato ‘fuori discussione’ per diverso tempo. Lo ritenevano un inutile incomodo, un accessorio assolutamente non necessario nell’ordine programmato delle nostre esistenze.
Quasi tutti si tuffarono verso di me, allegri sassolini rotolanti che cercavano in ogni modo di fare centro nelle mie mani aperte.
Soltanto uno, un po’ più grassoccio degli altri, soprattutto nel ventre, rimase indietro, in disparte. Così scelsi proprio lui.
Lo tirai fuori da quella fanghiglia puzzolente, un misto di paglia, terra ed escrementi, e lo presi in braccio goffamente. Compilai i documenti per l’affidamento, e fu così che entrò ufficialmente, in modo brusco ed imprevedibile, in questa storia.
Per il resto, avevo già scelto: Descartes sosteneva che gli animali sono automi, ovvero macchine prive di pensiero, di una coscienza e, se si vuole, di un’anima.
La replica di Linneo a tale osservazione mi frullava continuamente in testa: ‘Evidentemente Cartesio non ha mai visto una scimmia’.
Lo chiamai proprio con la versione italianizzata del nome del pensatore francese, cullando l’idea strampalata che quest’ultimo, chiuso dentro alla sua bara come capita di solito a tutti i morti, si contorcesse indispettito per l’onta di venire associato, in qualche modo, ad un quadrupede insignificante.
Iniziò la sua avventura nell’angolo più buio del garage, con nemmeno un mese e mezzo di vita alle spalle, ben lontano dai nostri alloggi; oggi si muove a suo piacimento per tutta la casa, prendendosi molte più libertà di tanti suoi simili.
Un risultato, va detto, conquistato sul campo, con tenacia e fedeltà esemplare.
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028 - Fu una scena già vista, stesso preludio, stesso comune denominatore tra drammi differenti, ma identici per intensità negativa. Importantissimi, entrambi, per quanto mi hanno insegnato, in maniera diretta e brutale.
Domenica mattina: mia madre entra nella stanza, prima della luce del sole, tappata ostinatamente fuori dalle persiane rigorosamente sigillate, mentre dormo ancora, anestetizzato a dovere dal peso del solito sabato alcolico; il cane sta male, dice a mezza voce.
E’ con noi da appena sette giorni, nemmeno il tempo di abituarci ai nuovi ritmi, alle nuove regole, alle nuove emozioni, che tutto viene messo improvvisamente in discussione. Cartesio trema, manco fosse uno di quei pupazzi per bambini provvisti di vibrazione meccanica, e non esce dalla sua cuccia improvvisata, una scatola in cartone con dentro una piccola coperta. Gironzola svogliato per il cortile, si accascia stanco in prossimità della prima pozzanghera di sole disponibile nel cemento freddo di gennaio; le feci sono verdastre, un muco liquido e malsano. Io non capisco, non ho la più pallida idea di cosa possa essere.
Il giorno dopo, ci pensa il veterinario a chiarire ogni dubbio: gastroenterite. Non so bene perchè, ma scoppio a piangere, probabilmente ancora prima di rendermi conto della gravità della malattia, incapace di fare qualsiasi altra cosa. Non che ci sia molto da escogitare, in effetti, perchè il protocollo non concede spazio alla fantasia, in tutta la sua asettica rigidità: flebo per alimentarlo e reidratarlo, punture sottocutanee per limitare i vomiti. Preghiere, per chi ci crede. Stop.
La prima notte è terribile, e così lo saranno le successive tre.
Veglio quel piccolo pugno di carne e ossa che perde rapidamente peso ed energie: vedo la vita colargli puzzolentemente fuori dallo sfintere anale e sgorgare moribonda dalla bocca, in un sottofondo di conati lamentosi. E’ la prima volta che mi capita di assistere, seppur in piccolo e con tutti i limiti del caso, a quello che Huxley definisce, in maniera magistrale, l’orrore essenziale. Ciò che ho sognato per anni interi, sta diabolicamente svanendo nel nulla a velocità supersoniche.
I suoi respiri diventano sempre più lenti e affannosi, ognuno potrebbe benissimo essere l’ultimo: resta fermo immobile con gli occhi chiusi, un tuffo nell’eternità silenziosa; è morto, è finita, e invece di colpo, quando tutto ormai sembra definitivamente scritto, la gabbia toracica si gonfia ancora con una testardaggine commovente, portando macabramente in superficie le esili costole, e quel fantasma scheletrico di giovane animale rimane appeso al sogno dei vivi.
Nei giorni successivi, il copione si ripete preciso al dettaglio: in preda allo sconforto e allo sfinimento, ho sperato con tutto me stesso che il supplizio, mio e soprattutto suo, cessasse.
Il venerdì mattina invece, una telefonata, forse tra le più belle della mia intera vita, mi racconta di un esserino sgattaiolato sorprendentemente fuori dal suo cesto, un fuggiasco che lascia la sua cella, timidi passi silenziosi in cerca di cibo o, più semplicemente, dei giusti festeggiamenti per un avvenimento tutto sommato memorabile, almeno, ne sono sicuro, dal punto di vista del quadrupede.
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029 - G. M., che considero uno dei miei più grandi maestri, mi disse che avere la possibilità di prendersi cura dei malati terminali è un dono. Era a conoscenza della mia situazione, lo informai di proposito perchè c’era il forte rischio che potessi mancare all’improvviso alle sue lezioni, cosa questa a cui entrambi tenevamo molto, ma non so se con quelle parole volesse semplicemente trasmettermi un po’ di coraggio e di forza d’animo, o se lo pensasse davvero.
Mia madre, prima di allora, non aveva mai avuto nessun tipo di contatto con principi enteogeni di alcun tipo, ma ha passato gli ultimi 3 mesi su questa terra con un piccolo serbatoio di morfina collegato costantemente, attraverso un ago, alla sua colonna vertebrale; non so dire con esattezza in che misura questo prodotto agisse sulla sua psiche, oltre che sulla sua percezione del dolore ovviamente; ciò che conta è che la sua coscienza, a quanto dicono anche a causa del decorso della malattia e delle relative modificazioni del metabolismo, era profondamente alterata: iniziò ad avere delle allucinazioni intensissime e per molte ore al giorno fluttuava spaventata in preda ad uno stato confusionale profondo.
Viviamo in un mondo decisamente strano: moltissime sostanze, ad eccezione praticamente dell’alcool e del tabacco, sono rigidamente vietate e represse con decisione, spesso considerate come assolutamente dannose, ma alcune di loro vengono somministrate a livello ospedaliero senza tener conto, almeno così mi sembra, degli effetti psicotropi (dovremmo considerarli collaterali?), soprattutto in quei soggetti che non ne hanno mai avuto esperienza e non ne possono quindi gestire assolutamente le conseguenze.
Non parlava quasi più.
Spesso dava l’impressione di fissare intenzionalmente, con sguardo curioso o stupito, dei punti ben precisi sul muro, bianco, di fronte al letto; altre volte si guardava intorno agitata, come se nella stanza ci fossero molte più persone rispetto a quante ne potessimo contare noi; un giorno l’avevo sorpresa a muovere le braccia e le mani, indaffaratissima, l’affanno era evidente così come la grande alacrità, nel cogliere, è questo ciò che pensai sul momento, petali invisibili da una pianta altrettanto immateriale per poi metterli velocemente da parte, all’altezza del petto esile.
Mi venne spontaneo comportarmi come se di fronte avessi un amico qualsiasi, come se il problema fossero i classici inconvenienti che si incontrano in un viaggio troppo audace e burrascoso, provocato magari dal più ingenuo dei sovradosaggi, tipico degli adolescenti.
Cercavo di calmarla, ottenendo risultati peraltro apprezzabili.
Poi mi ricordai del grande potere ‘evocativo’ custodito da alcune molecole particolari; il mio fu soltanto un timido tentativo, ma il risultato è una delle cose più preziose che ancora conservo di quel bruttissimo periodo.
– Torniamo a casa, da Cartesio? – bisbigliai.
La faccia orribilmente pallida di quello che ormai era sempre più cadavere e sempre meno essere vivente fu invasa da una luce nuova, intensa, sublime; come il primo raggio di sole dopo millenni di buio angosciante.
Sgranò gli occhi, che si riempirono di energia, magicamente; in un guizzo, divennero giganti e, sfidando la malattia e la morte, tornarono ad essere, per un secondo che mi sembrò eterno, quelli di sempre; trovò anche la forza per annuire debolmente ma con estrema convinzione, poi si lasciò andare, soffice e serena, come se il suo desiderio fosse ormai spento.
Mi piace pensare che in quell’attimo sia riuscita a rivivere, una cascata impetuosa di fotogrammi ed emozioni, tutti i momenti passati in compagnia del nostro caro quadrupede, quell’animale rifiutato per troppo tempo con cieca e ottusa ostinazione e tristemente rimpianto, alla stregua del più caro degli affetti, nell’ora più difficile.
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030 - Ci sono sentimenti e sensazioni che difficilmente possono venire compresi senza un’effettiva esperienza diretta: è praticamente impossibile, ad esempio, trasmettere, descrivere e comunicare adeguatamente ad un figlio unico, anche utilizzando le parole e i concetti più azzeccati del mondo, l’amore autentico che si prova nei confronti di un fratello o di una sorella.
A volte è difficile anche solo catalogare e spiegare la gamma di emozioni che un uomo può provare relazionandosi con il suo cane, e lo è ancora di più, in questo caso rasenta l’impraticabile, quando l’interlocutore è un irriducibile scettico, che pensa magari, come faceva Cartesio, che l’animale sia un essere vivente inferiore per sua stessa definizione, e che non meriti altro che un grado minimo di dignità e di attenzione, giusto il necessario per mantenerlo in vita.
Non è automatico, pur standoci a contatto, sviluppare un rapporto profondo, che spesso sfocia nell’empatia, con un cane: non so se si tratti di una questione di sensibilità, o di predisposizione.
Mi piace a volte scivolare, anche solo per un attimo, tra le dense e sensuali suggestioni offerte dal buon vecchio Empedocle, con particolare attenzione per la sua teoria della metempsicosi, tramandata da Pitagora e risalente quindi più in generale dall’antica tradizione orfica, e poi ripresa e rinvigorita da Platone: in questo senso, quasi mi convinco di avere a che fare con un’anima da educare, in continua lotta con le accidentalità della materia, aspetto quest’ultimo che ci accomuna indissolubilmente, e che allo stesso tempo ha l’inestimabile potere di educare a sua volta.
Di una cosa sono quasi sicuro, pur senza riuscire, almeno per il momento, a fondare in termini oggettivi la mia convinzione (forse nemmeno ne sento l’esigenza, a dire il vero): in questo nostro mondo esistono amplificatori di buone sensazioni, e generatori di buone sensazioni; il cane nello specifico, mi sembra appartenere a quest’ultima categoria, un ruolo che ricopre peraltro senza pretese, senza secondi fini, senza egoismi, con estrema, quotidiana, disarmante semplicità.
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031 - Mi accorgo di faticare a ricordare con esattezza le date degli avvenimenti più importanti, così sono costretto per l’ennesima volta a tirare fuori dal cassetto quel documento ufficiale: lui non sbaglia, ed è puntuale come una vecchia cicatrice che non aspetta altro che di vedere ancora la luce, per rivivere un’altra volta, assieme agli eventi che narra con odioso distacco.
Sono le nove circa di un lunedì qualsiasi di fine maggio; io dormo pesantemente, ancora schiacciato, messo al tappeto, dal peso puzzolente di un week-end faticoso, simile a tanti altri.
Mia madre si materializza sulla soglia della stanza, silenziosa. Mi regala uno dei risvegli più difficili di sempre, senza dubbio.
– Ci sono i carabinieri. Vogliono parlare con te.
Sta zitta per un attimo. Poi aggiunge, celando a fatica la preoccupazione che si auto alimenta in maniera spietata: – Cosa hai combinato?
Il cervello è attraversato letteralmente da una scossa elettrica, un dolore intenso, una fitta pungente mi trapana da parte a parte il cranio. La realtà invade come un fiume in piena i miei occhi. Non c’è tempo: mi infilo un paio di pantaloni e una maglietta.
– Niente, stai tranquilla, va tutto bene.
Da quel momento il tempo inizia a scorrere diversamente, più lento, denso, si appiccica addosso. Come se mi trovassi immerso all’interno di una moviola narcotica. Ed è così che ricordo tutto: i fotogrammi scorrono in maniera meccanica, decisamente poco fluida; non c’è nessun suono in sottofondo.
Mi aspettano fuori dal cancello, le facce inespressive.
– Abbiamo un mandato di perquisizione domiciliare a suo carico per la ricerca di armi ed esplosivi.
Faccio un respiro profondo, cercando di mantenere la calma: quei quattro luridissimi stronzi mettono i piedi nel cortile della mia abitazione.
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032 - In realtà ero già pronto ad affrontare il tutto, anche se non si è mai del tutto pronti a fronteggiare certi accadimenti, e lo capirò soltanto al termine di quella lunghissima giornata.
In quel periodo mi portavo appresso, più che mai, la convinzione che si potesse dare una decisa e netta sterzata alla condizione sociale, economica e politica del posto in cui sono nato e in cui ancora oggi vivo: si trattava di un semplice tentativo, uno tra i tanti; cercavamo di abbozzare un progetto, un discorso che potesse risultare valido e finalmente efficace, a differenza del passato.
C’erano stati diversi incontri, dove si discuteva tanto, anche in maniera accesa; si cercava di capire quale fosse il modo migliore per prepararsi, nell’eventualità di passare all’azione; come mettere in moto un processo di cambiamento, come accendere la miccia, insomma.
Risultavo tra i più giovani ed inesperti del gruppo: forte soltanto delle esperienze maturate nei libri, ma poco altro.
Ricordo con piacere quel periodo, è stato un momento fondamentale per la mia crescita, svanito come un sogno, una tiepida mattina di fine maggio.
Avevano già fatto visita a tutti gli altri, alcuni giorni prima, nessuno escluso; credevo di essermela scampata: dopo tutto, pensavo, non sono che l’ultima ruota del carretto. Mi sbagliavo.
Non caddi vittima della sorpresa, perchè in realtà sapevo già cosa volevano da me; tuttavia questo, purtroppo, non fu sufficiente per evitare tutte le conseguenze negative che certe storie ti lasciano in dote.
Un pomeriggio discutevamo tra di noi sulle strategie difensive da adottare in un eventuale processo; la mia mente vagava orrendamente persa nel panico più totale, visto che non avevo nemmeno ancora un avvocato.
E’ una sensazione strana – ammise R. -, come quando ti innamori per la prima volta, forte e indescrivibile, con cui devi fare i conti da solo.
Si è trattato di una delle persone più belle che ho conosciuto; era genuinamente orgoglioso delle sue idee e delle sue azioni; affrontava con caparbietà e grande forza d’animo anche quella situazione.
Io invece vissi la vicenda in maniera sostanzialmente diversa perchè, probabilmente, ho dovuto tenere conto di altre variabili: la paura mi divorò in un solo boccone.
R., me lo disse in faccia, non pensava che mi sarei comportato in quel modo; sembrava davvero deluso, come se lo avessi tradito.
Non avrebbe capito le mie ragioni, per questo non tentai nemmeno di spiegargliele; così il tempo cancellò famelico il nostro fragile rapporto, ancora troppo tenero per essere definito una vera e propria amicizia.
*
033 - Mi sembrava di essere dentro ad un video game, una di quelle simulazioni di guerra sparate ad altissima velocità sullo schermo, in cui il giocatore deve gestire contemporaneamente una serie di input e trovare la soluzione migliore per risolvere il problema.
Pedinavo quei quattro segugi, impegnati nella loro opera di ricerca, odiosamente meticolosa, un po’ per scelta, era mio interesse verificare cosa potesse attirare la loro attenzione, e un po’ per forza, visto che mi avevano intimato di non allontanarmi mai dai luoghi sottoposti alla perquisizione.
Tutt’attorno il caos: mia madre che piangeva al telefono, mentre parlava con una certa zia, impiegata come assistente nello studio di un inutile avvocato civilista, nell’intento di capire cosa stesse accadendo, e soprattutto, se si trattasse di un’azione legittima dal punto di vista legale; mio padre con la faccia pallida e il passo incerto di chi sta per svenire da un momento all’altro, un pugile frastornato, giunto non si sa come all’ottavo round dopo un migliaio di ganci micidiali al mento, che si muoveva a caso come la biglia di un flipper, totalmente inerme di fronte a quella inedita invasione; probabilmente si aspettava che da qualche angolo nascosto della casa uscisse un fucile o un pacco di esplosivo, continuava a ripetermi, con voce sempre più disperata: – Non farmi scherzi -, ma penso non si riferisse più a me, quanto a qualche entità sovra-terrena, in un lamento che assomigliava tristemente ad una preghiera, cosa che giocava a favore delle forze dell’ordine, pronte a captare qualsiasi micro-segnale di nervosismo, per utilizzarlo a proprio favore.
L’impresa di imbianchini impegnata in quei giorni nei lavori di tinteggiatura dei locali interni della mia abitazione contribuiva ad aumentare, e non di poco, l’entropia del sistema: da una parte ad assistere alla scena c’era un pubblico assolutamente sgradito quanto indiscreto, ad eccezione di uno di loro che, capito l’andazzo, decise di solidarizzare canticchiando una canzone anarchica a mezza voce; dall’altra il trambusto provocato da quelle attività poteva complicare, o almeno speravo, il ficcanasare tra le mie faccende.
*
034 - Mi sorpresi di quante cose, che credevo ormai perse, morte e sepolte, saltarono fuori dai cassetti; mi sorpresi ad osservare, quasi con ammirazione, la chirurgica precisione di quei gesti: uno spettacolo, seppur orribile, che mi regalò l’esatta dimensione di quanto l’addestramento possa trasformare un individuo, fino a renderlo un essere spregevole.
Trovarono delle vecchie foto relative ai cortei, assolutamente pacifici, della prima giornata di Genova.
– Hai partecipato agli scontri?, mi chiese uno, in maniera secca e severa. Non risposi.
Trovarono del materiale contro-informativo sulle multinazionali, in particolare sui prodotti della Nestlè.
– Dicono che diano il latte in polvere scaduto alle donne del Terzo Mondo – mi disse un altro, usando un tono complice e bonario. Non risposi, evitando la provocazione.
Negli anni avevo imparato la lezione, e quest’aspetto mi regalò puntualmente sincere risate: in ogni squadra che si rispetti c’è sempre il cattivo, il quale cerca di intimorirti e metterti con le spalle al muro, e il buono, che lavora per accaparrarsi la tua fiducia e la tua collaborazione con un atteggiamento falsamente docile.
Uno di loro prese un flyer con la mano protetta dal guanto in pelle nera, e incominciò a leggere ad alta voce.
– Quando diciamo ‘Non è il momento per un attacco contro lo Stato…..”
Si interruppe dopo pochi secondi.
-Non puoi tenere queste cose, lo sai?
Non risposi.
Fu il pretesto che probabilmente cercavano: incominciarono a prendere qualsiasi cosa, senza più manco stare ad analizzarla, buttandola poi dentro ad un sacco di plastica. Cd musicali, tutti i miei quaderni di appunti, un’agenda con i numeri di telefono, svariati libri, una marea di volantini, delle cartoline, delle fanzine. Si portarono via, caricandolo direttamente nel cofano della macchina parcheggiata fuori nel cortile, anche il tower del mio personal computer.
Non trovarono tutto quello che poteva solleticare il loro interesse soltanto perchè molta roba era sistemata, alla rinfusa, in altre stanze.
Quando i carabinieri se ne andarono, diverse ore dopo, ci pensò mio padre a terminare l’opera, in preda a quella che se non era misera e patetica follia, le si avvicinava molto.
Accese un bel fuoco nel caminetto e incominciò a bruciare il resto dei libri, soltanto quelli a tema politico, ovviamente, che erano comunque tanti: li vedevo, per l’ultima volta, mentre intraprendevano in maniera brusca quel viaggio di sola andata, con il fumo che lentamente prendeva in ostaggio l’aria della stanza.
Non provai nemmeno a fermarlo, sarebbe stato inutile, e comunque non ne avevo le forze, in quel momento. Così rimasi in silenzio.
Mi sembrava di essere finito nel bel mezzo delle pagine di ‘Fahrenheit 451’; dentro di me custodivo comunque la speranza che si trattasse soltanto di un brutto sogno, e che a momenti sarebbe finito tutto; un grande spavento, seguito da un sospiro di sollievo.
Non piansi, anche se, lo ricordo molto bene, avevo un’enorme e disperata voglia di farlo.
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035 - L’atmosfera in casa si ammalò rapidamente: un mix di ossessioni assortite e infinita, pesantissima tristezza avvolse le cose e le persone, per lunghissimi mesi. La notizia dell’operazione ebbe risonanza nazionale, e finì addirittura tra le pagine del televideo Mediaset.
Per mio padre e mia madre si trattava di una vergogna senza precedenti, avrebbero preferito sprofondare sotto terra per evitare di raccontarlo a qualcuno, ma furono costretti a parlarne, con loro estremo dispiacere, almeno con i familiari più stretti,.
Alcuni amici mi fecero sentire la loro vicinanza; altri, che ormai non definisco più come tali a causa di altri mille contrattempi sopraggiunti con il passare del tempo, si divertivano a constatare come fossi stato stupido a mettermi nei guai, senza un briciolo marcio di buon senso.
Le forze dell’ordine non mollavano la presa: chiamavano spesso al telefono o addirittura si presentavano al mio domicilio con la scusa di notificarmi qualche provvedimento; eravamo costantemente messi sotto pressione, e avevo sinceramente paura che i miei genitori non reggessero: li vedevo seriamente provati, in grossissima difficoltà, più di quanto potessi esserlo io che comunque, a volte, sprofondavo nei dubbi e mi facevo trascinare dallo sconforto, spaventato più che altro delle ripercussioni giudiziarie dell’intera vicenda.
A differenza di tutti gli altri, non mi accusarono di ‘Associazione sovversiva‘; il giudice per le indagini preliminari non mi inserì nel filone principale ma isolò il mio caso.
Mi spettò ‘Propaganda sovversiva e apologia di reato’, articolo 272 del Codice Penale.
L’avvocato disse ai miei che non c’erano, stando alle prove raccolte, grossi motivi per preoccuparsi, ma avrei dovuto necessariamente cambiare frequentazioni per non compromettere seriamente la posizione nel caso fossimo arrivati ad un processo.
Presero quel consiglio alla lettera: incominciarono a guardare con sospetto ad ogni lettera o pacco, stavano attenti a captare ogni telefonata che ricevevo, cercavano di scoprire l’identità di ogni persona che incontravo; si informavano in maniera fastidiosamente pedante di tutti i miei spostamenti, temevo che sarebbero arrivati anche a pedinarmi, se solo gliene avessi dato il motivo.
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036 - Raggiunsero il loro obbiettivo: spensero sul nascere il mio entusiasmo, mi imbottirono di paura, e così fecero con gli altri componenti del nucleo familiare, che partecipavano, seppur in maniera indiretta, a quel gioco deprimente.
Un pomeriggio mio padre mi invitò a non esitare di chiedergli aiuto, se ne avessi avuto bisogno; era stato un gesto umano, da parte sua, è giusto riconoscerlo, ma cadde con un tonfo sordo nel mare di veleno in cui galleggiava il mio stomaco.
Mi sentivo profondamente umiliato, come mai prima di allora.
Attorno alla vicenda, da parte degli organi giudiziari, regnava il più assoluto silenzio: passarono tre anni, termine sufficiente per la prescrizione, in maniera lentissima e penosa; l’avvocato ci fece sapere che il GIP aveva chiesto purtroppo altri 2 anni ulteriori per approfondire le indagini.
Non successe nulla. Nessuno mi interpellò per sentire la mia versione.
Nel mio ragionamento assurdo, me ne rendo ben conto, ero convinto che qualcuno avrebbe dovuto pormi delle scuse.
Non riuscivo a capire come fosse possibile che, sotto un governo cosiddetto democratico, quattro agenti potessero entrare così prepotentemente, di punto in bianco, nella tua vita e accusarti di un reato, soltanto per le tue idee e le tue opinioni.
Cullai questa contraddizione per tantissime notti, fino a quando mi fu chiaro cosa farne: se mai fossi giunto alla tesi finale, nel mio percorso di studi, avrei portato, in una pubblica aula, alla luce del sole, un sorso del succo amaro di quella vicenda.
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037 - Impiegai praticamente un intero anno, tra la lettura di tutto il materiale e la stesura della tesi, l’atto finale, il mio congedo da quel mondo.
Se proprio devo impegnare il mio tempo, mi dicevo, tanto vale farlo con degli argomenti che mi stanno a cuore: lessi avidamente le opere, tra gli altri, di Bakunin, di Malatesta, di Proudhon, di Bookchin e le integrai con gli studi del passato.
Sviluppare la mia argomentazione non fu particolarmente difficile, perchè gli stessi teorici della democrazia, io mi riferivo in particolare a Norberto Bobbio, Giovanni Sartori e Robert Dahl, nei loro scritti lasciavano più di una porta aperta alle possibili critiche, anche radicali, di un sistema che, se messo a nudo, mostra diverse crepe e contraddizioni.
Intitolai il lavoro, il consiglio della mia relatrice fu prezioso, ‘Errico Malatesta e Francesco Saverio Merlino: le critiche anarchiche alla democrazia’; durante tutta l’esposizione, durata appena quindici minuti, il presidente di commissione non mi guardò mai in faccia, tenendo lo sguardo rivolto ostinatamente verso la finestra.
Al momento della proclamazione del giudizio, marcò antipaticamente, come se volesse ricordare il mio rapporto con quello Stato che criticavo con tanta convinzione ma da cui, in fin dei conti, continuavo a dipendere, cosa che per lui rappresentava evidentemente un aspetto inconciliabile con la mia presunta coerenza, le parole con cui si apre la formula: ‘In nome del popolo italiano, la dichiaro…’.
Mi fece quasi tenerezza, ma non provai nessun tipo di fastidio, solo un pizzico di compassione: non gliene feci una colpa, non poteva sicuramente capire che già il fatto di aver potuto parlare di quegli argomenti ad alta voce, senza nessun timore, rappresentava per me una discreta rivalsa.
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038 - Scegliemmo un pino, fu G. a farlo, a dire il vero, seguendo non so quale sensazione, e ci sedemmo ai suoi piedi, trovando un confortevole riparo dal caldo pomeridiano. Era la prima volta che parlavo con lui, ma mi fece un’ottima impressione sin dalle prime battute; mi veniva quasi spontaneo condividere tranquillamente i miei pensieri, come se ci conoscessimo da anni.
Chiacchieravamo di musica, aspetto che appassionava entrambi, sebbene il suo percorso fosse radicalmente diverso dal mio, anche e soprattutto per i traguardi raggiunti, e dei nostri progetti in generale in vista del futuro.
Il domani spesso si trasforma all’improvviso in una perfetta tabula rasa: il protagonista della storia, volente o nolente, si trova in balia, manco fosse un povero relitto, delle scure onde dell’incertezza.
– Non ti piacerebbe fare il ricercatore? – mi chiese con genuina curiosità.
Forse si, ma considerando gli argomenti trattati nelle due tesi, difficilmente l’università, e dunque lo Stato, mi avrebbe offerto dei soldi per (continuare a) cercare il modo più efficace e rapido di buttare giù questa allegra baracca colorata, anche se si fosse trattato soltanto dell’ennesimo barlume andato a male e inoffensivo di un’utopia sbiadita e moribonda.
Non c’era posto per i miei discorsi, e per stare ancora dentro a quel circo mi sarei dovuto occupare di questioni di cui non mi interessava nulla.
Pochi minuti dopo la conclusione della discussione della tesi, la relatrice si avvicinò a salutarmi e disse: – Se ha bisogno di qualcosa, sa benissimo dove è il mio studio.
Secondo mio padre, mi stava chiaramente offrendo un lavoro; io ero convinto che quelle parole facessero parte del rituale dell’addio, tra due persone che non si sarebbero mai più incontrate dopo aver comunque fatto un pezzo di strada, seppur insignificante, assieme.
Non scoprì mai il vero senso di quell’invito: nonostante ci siano, in effetti, ancora alcune esigenze irrisolte, non penso che la soluzione ai miei problemi sia custodita in quelle stanze. Ritengo anzi che in quelle stanze sia radicata, in maniera peraltro subdola, la causa di una parte molto rilevante di alcune tra le rogne attualmente più pressanti.
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039 - Al Centro dell’Impiego, un posto inquietante con un nome inquietante in cui mandrie di persone profondamente tristi e rassegnate aspettano il loro turno per risolvere alcune questioni burocratiche che generalmente si rivelano inutili per le loro difficoltà reali, la tizia con la faccia rotonda, che con distaccata professionalità mi guidava nelle procedure per l’aggiornamento del mio curriculum e quindi della mia posizione nell’Elenco Anagrafico dei Lavoratori, fu abbastanza chiara: dopo un percorso di studi come il mio, quello che serviva era un pizzico di esperienza in più sul campo; un tirocinio formativo, ad esempio, sarebbe stato perfetto, soprattutto in un momento di grande contrazione, come quello attraversato dal mondo del lavoro nel nostro paese.
Mi invitò, prima di congedarmi, a consultare i vari siti istituzionali alla ricerca di opportunità che, sosteneva con verosimile convinzione, non sarebbero mancate.
In effetti gli eventi andarono proprio in quella direzione: alcune settimane dopo quel colloquio, venni a conoscenza di un bando regionale, finanziato dall’Unione Europea, rivolto ai giovani in cerca di un’occupazione: non si trattava ovviamente di una soluzione definitiva, ma di un palliativo, della durata di sei mesi.
Il sistema era apparentemente molto semplice: in una bacheca virtuale venivano pubblicate tutte le offerte disponibili, l’utente invece non doveva fare altro che candidarsi, in base alle proprie competenze e ai propri interessi, e aspettare una risposta. Che non arrivava mai.
Dopo alcune settimane, fiutai il trucco: le proposte erano fittizie, in quanto l’accordo tra soggetto ospitante e tirocinante era stato già raggiunto, in maniera privata; si trattava di una formalità, di un passaggio inutile per dipingere esteriormente la faccenda con un pizzico di trasparenza che in sostanza non possedeva affatto.
Feci buon viso a cattivo gioco, e inizia a cercare autonomamente, sfruttando la mia ridottissima rete di contatti, un’azienda o un ente che potesse soddisfare la richiesta.
Mia zia, una carissima persona che a volte però pecca di precisione nelle sue analisi e nelle sue considerazioni, prese la faccenda molto seriamente, e mi aiutò nell’opera: alle ACLI, mi disse, di solito lavoravano con i ragazzi impegnati nel servizio civile e, forse, potevano essere interessati alla questione. Parlò con un suo caro amico, in perfetto italian-style, e il rebus fu magicamente risolto in poche mosse.
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040 - Non avevo, lo giuro, mai sentito parlare di questa organizzazione: ricordo che fui costretto a fare una ricerca su Google per avere un’idea più chiara del guaio in cui stavo andando ad incastrarmi; tuttavia lo sgomento che mi assalì mentre leggevo il significato di quell’acronimo sarebbe dovuto essere sufficiente per farmi desistere immediatamente da quello sfortunatissimo proposito.
Associazioni Cristiane dei Lavoratori Italiani.
Siamo bravissimi a trovare delle argomentazioni per giustificare le nostre scelte, anche quando l’evidenza sembrerebbe non ammettere nessun tipo di replica.
Il mio panettiere di fiducia potrebbe essere benissimo un cattolico devoto e praticante, dicevo tra me e me pescando l’esempio più stupido tra i tanti potenzialmente a mia disposizione, ma questo non significa necessariamente che tra di noi non possa instaurarsi un rapporto proficuo o quanto meno corretto, almeno in ambito lavorativo.
Magari, cercavo di convincermi, posso imparare qualcosa anche da questa esperienza; non ha senso escludere a priori l’eventualità che possa nascere uno scambio fertile di idee e di opinioni, soltanto basandosi su un preconcetto.
Il primo impatto non fu terribile, anzi: la mia responsabile, una ragazza che peraltro conoscevo di vista da diversi anni, mi spiegò con grande gentilezza quali sarebbero stati i miei compiti; mi avrebbero affidato la comunicazione relativa a tutte le loro iniziative, avrei fatto quindi pratica con le molteplici attività legate al ruolo di addetto stampa, in un anno oltretutto importantissimo, considerando che in programma c’era il Convegno Provinciale, evento molto atteso, in cui avrei giocato un ruolo da protagonista assoluto.
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041 - Avevo capito sin dai primi minuti passati in quell’ufficio che la situazione non era certamente delle migliori, ma la valutazione decisamente negativa che feci, dopo una prima, sommaria analisi si rivelò, purtroppo per me, errata, in quanto le cose andavano molto peggio di qualsiasi previsione pessimistica.
Fui chiamato immediatamente a risolvere un grosso e scottante dilemma: nella stanza accanto alla mia c’era una giovane laureata in giurisprudenza che cercava disperatamente, con tutte le sue forze, di accedere alla propria area personale nel sito ufficiale dei tirocini.
– E’ la terza volta che ci provo, ma non capisco cosa non funziona.
– Ok, proviamoci assieme – le risposi.
– Promettimi però di non ridere per la mia password.
Cercai di rassicurarla con il massimo della sincerità che avevo a disposizione in quel momento.
– Pesciolina77. E’ così che mi chiama mio marito – confessò visibilmente imbarazzata.
Non risi, perchè sinceramente non ci trovavo niente di particolarmente divertente: le persone, me compreso, scelgono le parole più strane in questi casi, anzi, a voler essere sinceri, fanno molto peggio.
Digitò quindi la combinazione alfa numerica in mia presenza: notai subito l’errore, ma quasi stentavo a crederci.
Poichè la prima lettera della sua password era maiuscola, come mi aveva fatto notare lei stessa in precedenza, schiacciava giustamente l’apposito tasto sulla tastiera, ma anziché premere contemporaneamente il bottone con la ‘P’ stampata sopra, lasciava andare il primo, aspettava qualche momento e poi, con estrema cautela e altrettanta convinzione, pigiava il secondo, per poi continuare a scrivere il resto.
Quando le feci notare la cosa, cascò dalle nuvole a velocità supersonica.
La mia mente si incendiò di dubbi: dando per scontato che avesse dovuto scrivere, quanto meno, una tesi di laurea per concludere gli studi, com’era possibile che non sapesse utilizzare un comando basilare come quello?
Non indagai oltre, e feci lo sbaglio di raccontare agli altri la storia: ovviamente, grande fu lo sconcerto, così come le critiche che scoppiarono velenose. In quel caso mi sembravano giustificate, dopo l’ennesimo tentativo fallito la procedura entrava in blocco automatico per 30 minuti rendendo impossibile il log-in a tutti gli altri utenti, ma imparai rapidamente che in quelle stanze scannare verbalmente il prossimo era considerata una triste consuetudine.
*
042 - Vivevano, pur essendo tutti molto giovani, un rapporto decisamente conflittuale con qualsiasi apparecchiatura informatica e tecnologica in genere, così diventai, mio malgrado, l’esperto nel campo, pur senza esserlo realmente, cosa che mi assicurava, almeno inizialmente, una dose di rispetto minima ma sufficiente a sopravvivere in quello zoo.
Mi occupavo, tra le altre cose, del cablaggio del video proiettore, degli altoparlanti esterni del pc, della stampante, del monitor; cercavo di risolvere i problemi relativi alle caselle di posta, al sito web, e via dicendo.
Un giorno sorpresi la mia tutor indaffaratissima a sistemare in ordine alfabetico una lunghissima lista di nomi, si trattava di tutti gli invitati al Convegno, divisi per le varie circoscrizioni di appartenenza, un centinaio scarso, in un foglio Excel.
Procedeva in maniera rigidamente metodica, inserendo prima tutti quelli che iniziavano per ‘A’, per poi concentrarsi esclusivamente su quelli che iniziavano con la ‘B’, ecc.
Di tanto in tanto, le capitava di perderne qualcuno tra le righe, così era costretta ad aggiungere manualmente, in un crescendo di imprecazioni, signor ‘Rossi’ tra signor ‘Razzi’ e signor ‘Russo’, con il disordine che si impadroniva implacabilmente del documento.
Pensando di farle un piacere, provai a tirarla fuori da quell’impiccio.
– Ma scusa, non ti conviene scriverli tutti assieme e poi metterli in ordine automaticamente? Basta premere quel tastino in alto a sinistra, poi ci pensa il programma – dissi in maniera più discreta possibile.
Mi scagliò addosso un’occhiataccia, che oscillava tra il disprezzo e l’incredulità.
– Quale tasto? – replicò visibilmente stizzita dopo alcuni secondi in cui il suo cervello girava a vuoto, stordito dalla sorpresa.
Non attese risposta, ma preferì invece decapitare la questione sul nascere, giocando d’anticipo come uno stopper professionista.
– Comunque non mi interessa, preferisco continuare così, tanto ho già finito.
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043 - A volte ho paura di affogarci, in questo grande mare di inadeguatezza: siamo in balia di un esercito di potenziali sprovveduti, istruiti a dovere a sbattere sugli errori come muli ciechi, che poi tanto basta un ‘mi scusi’ per ricucire lo strappo, e chi si è visto si è visto.
Il nostro destino, la nostra vita dipende (anche) inevitabilmente da tutta una serie di individui che, se avessimo un pizzico di sale in zucca, dovremmo evitare come la peste.
Invece ci consegniamo con fiducia nelle loro mani, come tanti agnelli al macello.
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044 - Conobbi S. prima ancora che mettesse piede in ufficio: ci pensarono le sue colleghe a fornirmi una dettagliata descrizione, senza che io avessi chiesto nulla, condendo il tutto con aneddoti ricchissimi di particolari.
Obesa, paranoica, brutta e quindi inevitabilmente single dal giorno zero, ipocondriaca, stupida e bigotta, fallita, inaffidabile, probabilmente un po’ ritardata, visti i suoi scarsissimi risultati all’università.
Si frequentavano da diversi anni, anche fuori dalla dimensione lavorativa, e non capivo come potessero parlare in quel modo e di quelle cose con me, considerando soprattutto che stavo con loro da poche ore.
Non percepivo tanta cattiveria e tanta ipocrisia dai tempi del liceo: fortunatamente avevo sviluppato, a differenza del passato, gli anticorpi necessari per cavarmela in situazioni di quel tipo, così schivai agilmente quell’immensa cascata di veleno.
In realtà, S. mi fece, soprattutto all’inizio, una buona impressione: era gentile, timorosa, quasi spaventata, rispettosa forse in maniera eccessiva, come un animale che si muove per il mondo con la paura di essere azzannato da chiunque.
Arrossiva vistosamente e molto di frequente, anche dopo le battute più innocue, ed evitava accuratamente di incrociare gli sguardi dei suoi interlocutori.
Si ritagliò un piccolo spazio nella stanza affollata, incastrando una sedia in un angolo, tra due scrivanie; prese immediatamente in mano il suo quaderno degli appunti, e si mise a studiare per un esame che, mi spiegò, aveva cercato di superare invano una decina di volte.
Il fatto che la stessi ad ascoltare, tranquillamente, la aiutò probabilmente a sciogliere la tensione: mi parlava delle sue difficoltà, come se ci conoscessimo da una vita.
La sua attenzione fu poi catturata dal libro che stavo leggendo: si trattava di ‘Disturbo della quiete pubblica’ di Richard Yates; non conosceva l’autore e quindi, ovviamente, nemmeno quel romanzo, così, spinto dalla sua curiosità incalzante, le feci un piccolissimo e parziale riassunto della storia.
La sorpresa le esplose in faccia, e sembrò davvero molto interessata alle vicissitudini burrascose di John Wilder; io riuscii a raccontarle comunque poco, perchè avevo letto soltanto una cinquantina di pagine, ma questo fu sufficiente per farle esclamare, con l’eccitazione contagiosa di un bambino di fronte alle giostre: – Ho un libro che ti piacerà di sicuro, domani te lo porto.
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045 - Capisci di trovarti nella merda quando tutte le persone che ti circondano ridono abbondantemente e fragorosamente per una battuta mentre tu non riesci ad evitare, attonito, che un sorriso triste e stiracchiato ti deformi prepotentemente la faccia.
Le possibilità in questi casi di solito son due: o si stanno spudoratamente prendendo gioco di te, oppure hanno un senso dell’umorismo decisamente diverso dal tuo e, il passo è breve, dalla maggior parte degli individui che frequenti di solito.
I ragazzi delle Acli ostentavano, nei modi di fare e nel linguaggio, una presunta emancipazione rispetto al loro modello tradizionale catto-cristiano di riferimento, che ha sempre caratterizzato, in maniera molto rigida e pressoché identica da più di 50 anni, quello spicchio di mondo che peraltro conoscevo abbastanza bene visto che avevo avuto modo di frequentare, durante le prime fasi della mia adolescenza, l’oratorio del mio paese, anche se sporadicamente e comunque per un brevissimo periodo.
Era quanto cercavano di fare, per lo meno, gli elementi più giovani, a differenza di quelli più anziani che, come era lecito aspettarsi, portavano avanti ostinatamente e coerentemente, in tutto e per tutto, i loro valori, senza nessun tipo di compromesso.
Capitava quindi che usassero in abbondanza termini volgari o che si lanciassero addirittura in ‘piccanti’ provocazioni a sfondo sessuale: una di loro portava avanti una teoria, per me assolutamente inedita, secondo cui gli uomini si dividevano esclusivamente in due categorie, i ‘culisti‘ e i ‘tettisti‘, a seconda delle loro preferenze anatomiche.
Fecero un sondaggio anche con il sottoscritto, forse, azzardo, nel tentativo di mettermi in imbarazzo, ma cercai di venirne fuori con il massimo dell’eleganza possibile, d’altronde stavo con loro da troppo poco tempo per espormi in maniera sconsiderata, sostenendo che ogni donna mette in risalto, come è giusto che sia, le sue armi migliori e che, aspetto da non sottovalutare, il maschietto di turno, magari annebbiato dal consueto e sempre eccessivo sovraccarico ormonale, non può fare altro che cascare puntualmente nella perfida trappola della seduzione, perdendo tra le altre cose, oltre alla dignità, anche il lume della ragione.
La verità però era un’altra, e purtroppo rispettava perfettamente le aspettative più negative: con il passare dei giorni vennero a galla, puzzolenti come cadaveri in avanzato stato di decomposizione, gli aspetti peggiori di quel particolare modo di intendere la realtà: mi faceva uno stranissimo effetto, non poteva d’altronde essere altrimenti, sentire una ragazza di 25 anni che raccontava, con sincero e profondissimo disgusto, della prima terribile volta in cui aveva visto, in quel di Roma, due ragazze baciarsi sulla bocca; ne parlava come se avesse assistito ad un evento raro e diabolico, nonostante si trovasse immersa sino al collo, come tutti noi del resto, nel pantano della cosiddetta società globale, lobotomizzata ad arte dal web e dagli altri mezzi di comunicazione che, a velocità folli, ti vomitano quotidianamente addosso, e a domicilio, tutto quanto di immondo si trovi a disposizione nel pianeta.
Le nostre strade erano radicalmente diverse, e i punti potenziali di contrasto, perfino grave, aumentavano di numero a velocità vertiginose, così la convivenza tra noi divenne difficilissima, anche se, è giusto ammetterlo, continuavano a trattarmi con sufficiente rispetto.
Si limitavano semplicemente ad escludermi dalle loro discussioni e, più in generale, a tollerarmi così come si fa con una fastidiosa pustola nel sedere che dopo sei mesi, il contratto parlava chiaro, sarebbe sparita nel nulla senza lasciare traccia del suo passaggio.
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046 - Una mattina, all’improvviso, uno di loro, un giovane occhialuto con l’aria da tonto, prossimo alla quarantina, che occupava un incarico importante all’interno dell’organizzazione, partì all’attacco e mi fece la domanda che probabilmente tutti stavano aspettando di sentire: – Ma tu – chiese senza fronzoli – cosa ci fai qua dentro?
Risposi con naturalezza, in maniera volutamente banale: – Son qui per il tirocinio formativo – gli dissi, sforzandomi di apparire il più tranquillo possibile ma allo stesso tempo determinato, in modo da fargli capire immediatamente che, nel caso, sarei stato pronto a reggere il confronto senza nessun tipo di timore reverenziale. Sapevo in realtà dove voleva arrivare, ma non cascai nella sua provocazione.
Allegai a quella sintetica replica un altrettanto striminzito elenco delle attività a cui mi ero dedicato sino a quel momento, concentrandomi principalmente sul mio percorso di studi e, fortunatamente, mollò la presa.
Per non apparire troppo scortese, domandai a mia volta come spendesse il suo tempo: con un pizzico di strafottenza, mi mise al corrente della sua laurea in Economia Aziendale, vecchio ordinamento, specificò, per distinguerle da quelle attuali che giudicava finte ed inutili, cosa che gli aveva permesso poi, non so come, di conquistare una cattedra in una scuola media.
Entrambi ci eravamo accorti, in buona sostanza, che qualcosa nel loro usuale processo di selezione era clamorosamente andata storta: tutte le parti coinvolte avevano sottovalutato, e di parecchio, la questione, ed ormai era troppo tardi per porvi un rimedio.
Tra le altre cose, notai con enorme sorpresa quanto fosse accurata, di solito, la loro scelta: E., un ragazzone che di tanto in tanto dava saggio gratuito di tutti i suoi limiti in termini di furbizia, riceveva costantemente mille attenzioni; le varie figure di spicco che brucavano nei paraggi non perdevano occasione di informarsi sulla salute del padre o sulle attività in cui quest’ultimo era impegnato, approfittando immancabilmente per porgere i loro saluti.
Non ho mai capito esattamente di cosa si occupasse quell’uomo misterioso, ma sbirciando vigliaccamente sulle foto presenti nel profilo FB del figlio mi feci comunque un’idea sull’influenza che potesse esercitare in determinati ambienti: tra le tante, E. con Gigi Riva, E. con la chitarra, E. al mare, E. in campeggio, ce n’era una particolare: E. da bambino che bacia l’anello piscatorio di Papa Giovanni Paolo II.
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047 - La condivisione, aspetto che, al pari di molte altre cose, in questo periodo sembra non raccogliere particolari successi, è sempre stata una delle mie attività preferite: così portai a S. ‘Il sole dei morenti’ di Jean-Claude Izzo, perchè ritenevo giusto ricambiare, per quanto potevo, la sua spiazzante generosità.
Se devo essere sincero, sono convinto che tantissimi libri custodiscano, tra le loro pagine, un immenso potere terapeutico: mi auguravo quindi che le vicende vissute da Rico potessero addolcirle in qualche modo le giornate e offrirle una visione diversa della vita.
Terribilmente scottato dal brusco impatto con un mondo che si era rivelato disperatamente alieno, presi in mano con estrema diffidenza quel volume: ‘La Vita Oscena’ di Aldo Nove.
Mi dimenticai, ottenebrato dal pregiudizio, di aver già letto in passato un bellissimo racconto, pubblicato in un’antologia di scrittori italiani, del medesimo autore; ero convintissimo mi stesse rifilando un mattone mortalmente noioso: si trattava sicuramente, pensavo leggendo il retro della copertina, di qualche pseudo grido di accusa intriso di moralismo da sacrestia da parte di qualche benpensante nei confronti della società moderna.
Le dissi, sfiduciato, che non sapevo quando avrei trovato il tempo da dedicare a quel testo, perchè ne avevo moltissimi in lista d’attesa.
– Non importa, puoi tenerlo. Te lo regalo. – rispose cogliendo la palla al balzo.
Non riuscivo a capire perchè si stesse comportando così, ed ovviamente respinsi immediatamente la sua proposta: mi sembrava eccessiva, soprattutto perchè ritengo che un dono debba essere accompagnato da un significato particolare, ed escludevo categoricamente che potesse essere così nel nostro caso, visto che ci conoscevamo praticamente da due minuti.
– Non preoccuparti, a casa ho poco spazio e non so davvero dove metterlo. Credimi, prendilo pure, ora è tuo.
Mi sorpresero la sua insistenza e la sua tenacia, sbocciate così all’improvviso: ne stava facendo una questione troppo importante, così, quasi costretto, mi arresi di fronte a quel vero e proprio assalto, mettendo in pratica l’insegnamento prezioso impartitomi da mia cugina che da adolescente sosteneva, in particolar modo di fronte ai dolciumi, che fosse segno di grande maleducazione rifiutare un regalo per più di tre volte.
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048 - Fui costretto inevitabilmente a cambiare immediatamente opinione, sin dalle prime, bellissime righe; non riuscivo a crederci, era duro da accettare ma non si poteva fare altrimenti: si trattava di una delle più belle storie che mi fosse mai capitato di leggere, un giudizio che è rimasto inalterato nel tempo e che mi capita puntualmente di ribadire con estrema forza e convinzione tutte le volte che ho l’occasione di parlarne con qualcuno.
La prima parte narra, in maniera magistrale, alcune vicende, purtroppo, a me note: il tema della malattia, della sofferenza, della morte, del distacco e della solitudine, descritte abilmente adottando il punto di vista di un bambino che con spontaneità, ingenuità e sincerità si trova ad affrontare prematuramente, suo malgrado, uno dei più grandi misteri legati all’esistenza umana.
La seconda invece non è altro che una cronaca, minuziosa quanto dolorosa, di una progressiva e inarrestabile discesa negli inferi, tra demoni, orrore, violenza, droga, degrado e perdizione.
Il fatto poi che si tratti di un’autobiografia contribuisce in maniera determinante a rendere l’opera, si tratta ovviamente di un parere strettamente personale, assolutamente magnifica oltre che avvincente.
Ho incominciato a credere, le conferme a questa singolare teoria sono, giorno dopo giorno, piacevolmente sempre più numerose, che alcuni libri si materializzino magicamente nel momento più opportuno, e nei modi più strani e disparati, per illuminare con il loro messaggio quel particolare segmento del nostro cammino. Di conseguenza, il ruolo dell’autore, e quindi dell’artista in generale, assumerebbe significati ben più ricchi e preziosi rispetto a quelli che il mercato della cultura è capace, in maniera peraltro estremamente riduttivistica, nonostante le apparenze, di riservare attualmente.
L’aspetto importante è un altro: questo singolo evento è sufficiente, da solo, per farmi rivalutare in maniera positiva un’esperienza che indubbiamente, considerata nella sua totalità, è stata assai avara, uso un eufemismo, di soddisfazioni.
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049 - Era facile intuire come fossero andate le cose, e fu S. stessa a darmene conferma, saziando la mia curiosità e risolvendo così questo piccolo giallo: una sera aveva sentito alla radio un servizio su Aldo Nove e sul libro in questione; per sua sfortuna in quell’occasione si concentrarono principalmente sugli aspetti legati alla prima parte, confezionando a regola d’arte un’esca irresistibile per una ragazza fragile e disperatamente smarrita dopo la morte della mamma malata di cancro.
Non poteva sapere, e peraltro non me ne parlò apertamente, che il racconto avrebbe preso una piega inattesa e soprattutto intollerabile per i suoi canoni: immagino che il disgusto sia diventato così eccessivo da essere, nel giro di pochissimo tempo, decisamente ingestibile.
L’unica cosa che restava da fare, a quel punto, era sbarazzarsi di quell’oggetto insano, preferibilmente prima che qualcuno la sorprendesse a custodire inspiegabilmente uno scrigno pieno zeppo di peccati.
Non penso che nella sua cerchia di amicizie ci potesse essere qualcuno realmente interessato a quegli argomenti; esponendosi in tal modo, anzi, avrebbe rischiato paradossalmente di attirare su di se tutta una serie di giudizi negativi che, immagino, avrebbe evitato volentieri, considerando l’enorme mole di grattacapi con cui aveva a che fare quotidianamente in maniera gratuita.
Con il senno di poi, penso che S. abbia perso un’ottima occasione per capire che ci può essere redenzione anche nei casi più disperati.
Le fatiche dell’autore, presenti anche in quella singola riproduzione cartacea, rischiavano seriamente di finire in qualche cestino della spazzatura, o peggio ancora, irrimediabilmente rapite dalle fiamme purificatrici del fuoco. Grazie al buon senso di S. invece, bravissima a dare un significato diverso alla mia presenza in quell’ufficio, il libro si è salvato e ha continuato il suo viaggio. Ora non si trova nelle mie mani: l’ho consegnato ad un mio carissimo amico, E., raccomandandogli di trattare con cura quella preziosa reliquia e di cederla a sua volta, nella speranza che possa ancora fare del bene in questo mondo.
Jean Claude Izzo invece non fu così fortunato come il suo collega italiano e fallì miseramente: S. mi restituì il tomo una settimana dopo, spiegando che lo studio non le lasciava tempo per dedicarsi ad altro.
Spettò a C., la donzella che mal sopportava le effusioni amorose tra persone dello stesso sesso, chiudere questa vicenda insignificante nel migliore dei modi: un pomeriggio, la sua attenzione fu calamitata dalla copertina del libro, poggiato sulla mia scrivania, e non riuscì ad evitare di venire violentemente scossa da una scarica di ribrezzo incontrollabile.
– Aldo Nove? – starnazzò isterica. – Ma davvero ti piace quello schifo? Sono stata costretta a leggere un suo racconto per un esame, è inaccettabile che all’università trattino argomenti del genere. Il professore dovrebbe vergognarsi, stavo per sputargli addosso.
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050 - Durante le mie cinque ore quotidiane di lavoro, svolgevo le attività più disparate; ben presto infatti scoprii che le occasioni per fare pratica con i miei compiti di addetto stampa erano estremamente limitate, praticamente prossime allo zero: mi occupavo delle fotocopie, rispondevo al telefono, che squillava costantemente, e smistavo goffamente le varie chiamate, creando, non di rado, qualche casino che puntualmente faceva imbufalire pericolosamente la mia tutor; mi chiedevano di spostare pesanti e polverosi scatoloni da una stanza all’altra, di appendere quadri e cartine geografiche, di riordinare i vari ripostigli; dovevo inoltre occuparmi del tesseramento dei soci, prendevo gli appuntamenti per il CAF e per il servizio di assistenza legale e, come se non bastasse, ero il loro portinaio: non appena sentivo il rumore, fastidiosissimo, del campanello, schizzavo immediatamente, manco fossi schiavo di qualche riflesso condizionato, verso il citofono per premere il pulsante che azionava l’apertura del portoncino al piano terra.
Tra gli altri, le Acli avevano messo in piedi una sorta di doposcuola, riservato ai figli dei loro associati; di quell’incarico se ne occupava, sino a quel momento, una ragazza impegnata nel servizio civile che a gennaio, proprio in concomitanza con il mio arrivo, stava trascorrendo i suoi ultimi giorni in quella struttura.
Pensarono bene, quindi, di affidare la faccenda a me, convinti che, grazie ai miei studi in campo umanistico, mi sarei trovato benissimo a ricoprire quel ruolo. Un’esperienza che avrebbe potuto, tra le altre cose, arricchirmi profondamente.
R. si presentò nell’ufficio, accompagnata dal padre, in un freddissimo pomeriggio invernale: una ragazzetta minuta di quindici anni abbondanti, timida e spaventata, sprofondata in un orribile piumino marroncino chiaro.
Lo ammetto con sincerità: l’idea di poter aiutare, anche solo con i compiti, quella poverina, mi rendeva felice e dava un barlume di senso in più a quella sorta di esilio senza speranza.
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051 - Mi informarono che R. era alle prese con alcuni casini personali ed era stata affidata ad un assistente sociale, che ne seguiva, tra le altre cose, l’andamento a scuola.
Fu lei a raccontarmi personalmente tutto il resto: pochi anni dopo la sua nascita, i genitori divorziarono, così, per decisione del giudice, andò a stare con la mamma che, nel frattempo, si era fatta un’altra vita, condita da una pargola nuova di zecca, assieme ad un carabiniere sbarazzino che non vedeva assolutamente di buon occhio la figliastra.
Il clima che si respirava in quel nucleo familiare improvvisato non era dei migliori, a voler essere buoni, così R. chiese aiuto al padre, il quale ottenne l’affidamento dell’erede.
Le cose andarono un po’ meglio, ma non del tutto: il babbo infatti era immerso in un’appassionante storia d’amore con una giovane ragazza che, almeno, si era dimostrata, a differenza dello sbirro, decisamente più affettuosa, e non aveva di conseguenza molto tempo a disposizione da dedicare, tra il lavoro e mille altri impegni, al percorso formativo della nostra.
Questa veniva scaricata, spesso e volentieri, a casa della nonna, un’arzilla signora sessantenne tutta casa, chiesa e Maria De Filippi, che cercava di fare del suo meglio per tenere a bada quella piccola bomba ormonale ad orologeria in procinto di esplodere.
Non potevo neppure immaginare infatti, si trattò dell’ennesima sorpresa regalatami da quello strano mondo, che in quell’orribile piumino marroncino chiaro si nascondeva in realtà la reginetta dell’intero istituto, una delle stelle più corteggiate in quel caotico firmamento adolescenziale.
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052 - Il problema era molto, molto semplice e, se vogliamo, banale nella sua ovvietà: non era assolutamente stupida, anzi, e non aveva nemmeno dei problemi particolari di apprendimento.
Forse come molti elementi che vengono letteralmente catapultati, all’improvviso, in un sistema decisamente complesso come le scuole superiori (frequentava l’Alberghiero), rispetto almeno al pressappochismo dilagante di certe scuole medie, non riusciva a sviluppare ancora un metodo valido per approcciarsi allo studio delle varie discipline, ma, diciamocelo pure francamente, in testa aveva un ronzio di interessi ben più pressanti, pure, aspetto da non sottovalutare, sul piano fisiologico, di Geografia Astronomica e Storia.
Io non ero in grado di trasmetterle in nessun modo la voglia di concentrarsi sui suoi quaderni, non avevo ovviamente a disposizione gli strumenti coercitivi che si usano in queste occasioni; ma anche prendendo in considerazione, per assurdo, il caso contrario, il mio essere convintamente anti-autoritario mi avrebbe automaticamente impedito, comunque, di ricorrere a quei mezzi.
Non si trattava di una mia parente, ne di una mia amica; non nutrivo quindi nei suoi confronti apprensioni particolari: mi limitavo a fornirle con quanto più entusiasmo possibile il supporto necessario per assimilare quelle nozioni, sperando che ciò la potesse aiutare a raggiungere (almeno) la sufficienza nelle materie in cui incontrava le difficoltà maggiori.
La verità era un altra: R. trascorreva tutte le ore della giornata a pensare ai suoi amori, che sbocciavano continuamente, come se fosse rapita inesorabilmente, cosa peraltro tipica in quell’età, dall’ebrezza di una primavera eterna; questo quando non cadeva preda dello sconforto e della tristezza per qualche storiella naufragata prematuramente all’inferno. Era il cuore, più del cervello, a farla da padrone in quel frangente della sua vita: fortunatamente per lei, riusciva a riprendersi decisamente in fretta dalle delusioni e trovava immediatamente un nuovo oggetto per le sue attenzioni, con la stessa rapidità con cui uno spettatore annoiato fa zapping alla tv la domenica pomeriggio tra uno sbadiglio e l’altro.
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053 - In un primo momento fui felice di staccare per un po’ da quella tediosa routine a cui ero sottoposto e di allontanarmi da quella fauna bislacca con cui condividevo l’ossigeno, ma nel giro di pochi giorni mi resi conto che il rimedio si sarebbe probabilmente rivelato ben peggiore del male che intendevo trattare.
Ero imprigionato all’interno di una soap opera per deficienti, e non c’era apparentemente nessun riparo: R. mi mitragliava senza pietà con i suoi racconti rosa e, anche se io cercavo di ignorarla spudoratamente e di demoralizzarla leggendo qualche libro, non se ne curava e continuava abilmente nella sua opera incessante di demolizione.
Delle volte, esausto, giocavo a darle qualche consiglio sulla strategia comunicativa migliore da adottare su FB, a cui era perennemente connessa, nei confronti di qualche sua antagonista particolarmente antipatica; in cambio, mi faceva il piacere, secondo lei, di ripassare la struttura del sistema solare, ma dopo dieci minuti il copione si ripeteva puntuale.
Ero decisamente più simpatico, come ammise lei stessa, della ragazza che l’aveva seguita in precedenza: quest’ultima la obbligava, non so come, a scrivere su di un foglio tutte le coniugazioni di verbi pescati a caso, senza nessun tipo di criterio. Per me si trattava di una cosa stupida e improponibile, ma la mia ‘saggezza’ mi fece ottenere un premio indesiderato: il tempo da trascorrere in compagnia di R. si dilatò progressivamente, dai 60 minuti previsti inizialmente, sino ad invadere totalmente, con grande sua gioia, l’intera giornata, grazie fondamentalmente al benestare indifferente della mia tutor.
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054 - Non avevo nessuna intenzione di trasformarmi in un infame e andare a denunciare a destra e a manca che la mia ‘allieva’ preferiva concentrarsi su questioni di natura ben diversa rispetto a quanto le veniva indicato da insegnanti vari e dall’assistente sociale, anche se, per il sottoscritto, sarebbe potuta essere un’ottima via di fuga, almeno in potenza, verso il sollievo.
L’unico modo per risolvere quell’inghippo era sperare che qualcuno si accorgesse di quanto stava accadendo e prendesse dei provvedimenti, cosa che, puntualmente, accadde.
Un pomeriggio la mia responsabile, di punto in bianco, una spia le aveva sicuramente riferito qualcosa a proposito, mi chiese con aria severa come stessero andando le cose.
Non me la sentii di mentire, R. sapeva comunque che, nel caso, non lo avrei fatto, e le illustrai dettagliatamente il quadro della situazione, come un ubriaco che, vomitando, libera il proprio stomaco dal peso amaro dell’alcool e del malumore.
Organizzarono un incontro con la giovane e le diedero, ne erano convinti, una bella lezione.
Per quanto riguardava le mie mansioni invece, avrei continuato ad operare come al solito, ma in una stanza diversa, lontana dagli uffici e dalle mille distrazioni, era quello il problema secondo loro, che rendevano difficile il nostro lavoro.
Non sapevano affatto con chi avevano a che fare, perchè dopo un primissimo momento di sbigottimento, rincominciò con rinnovato entusiasmo a confidarsi senza sosta con me, facendomi vivere indirettamente una seconda, assolutamente indesiderata, adolescenza.
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055 - Mi sentivo letteralmente stremato e non facevo altro che contare i giorni che mancavano alla fine di quello che si era trasformato in un vero e proprio supplizio.
Fu grazie ad un episodio particolare che riuscimmo ad aprire una parentesi in quella mortifera monotonia che accompagnava all’obitorio dell’inutilità ogni mio singolo minuto trascorso tra quelle mura.
R. arrivò puntuale come sempre, portandosi appresso la sua solita, eccessiva dose di esuberanza, e si sedette nella sedia di fronte alla mia, appoggiando la borsa nel grande tavolo in vetro, posizionato al centro dell’ampia sala che normalmente veniva usata per le riunioni importanti.
Con mio grande stupore, al posto del cellulare, tirò fuori il quaderno con gli appunti di storia e si mise a studiare, senza dire niente.
Io la lasciai tranquilla, e continuai a leggere Irvine Welsh.
Dopo circa mezz’ora di silenzio, sono sicuro che per lei si trattò di uno sforzo immane, sentì il bisogno di farmi una confessione: – Non mi era mai successo di occuparmi di una cosa che riguarda la scuola, di mia spontanea volontà, senza che qualcuno mi obbligasse. Grazie.
Non diedi particolare peso a quelle parole, perchè sapevo che si trattava di una circostanza fortuita e nondimeno sporadica. Non c’era nulla, soprattutto, di cui andare orgogliosi: il mio atteggiamento non è frutto di una decisione ponderata, non scelgo di rapportarmi nei confronti degli altri in maniera non autoritaria, ma proprio non so comportarmi diversamente, e sono consapevole di tutti gli ‘svantaggi’ che questo spesso comporta.
Il fatto che la stessi ad ascoltare per tutto il tempo, più di quanto facessero probabilmente la nonna e il padre con la compagna messi assieme, e che la trattassi con correttezza, senza pugnalarla alle spalle alla prima occasione, la convinsero del fatto che fossimo ormai diventati amici.
Purtroppo per lei, si sbagliava, e cosa assai peggiore, per la prima volta, i nostri ruoli si ribaltarono: la parola ora spettava a me.
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056 - Uno dei problemi più grandi che affliggono i rapporti interpersonali, cosa che peraltro sfocia, spesso e volentieri, in incomprensioni anche drammatiche, è rappresentato dall’uso improprio dei termini.
Ci capita, talvolta, di sottovalutare, in un certo senso, il significato preciso, pesante, che le parole (alcune più di altre) conservano e che riescono a sprigionare; parliamo fra di noi con approssimazione, fidandoci del fatto che il nostro interlocutore riesca automaticamente a sintonizzarsi sulla nostra lunghezza d’onda e intuisca telepaticamente il senso di quanto stiamo cercando di comunicargli.
Capita di frequente, forse più di quanto si desideri, che uno dica aglio, e l’altro si butti puntualmente sulla cipolla; succede che qualcuno domandi un bacio, e l’altro risponda con uno schiaffone, convinto di aver fornito la soluzione più azzeccata a quella richiesta.
Io non so cosa sia l’amicizia per voi, e in realtà non sapevo cosa intendesse R. con quella parola; mi trovo decisamente d’accordo con quanto suggerito, ad esempio, dall’Enciclopedia on-line della Treccani, che la definisce come ‘un affetto ispirato, in genere, da affinità di sentimenti e da reciproca stima’.
Il punto, in sostanza, era proprio questo: io non provavo nessuna stima nei suoi confronti, e tra di noi non c’era nessun tipo di affinità, ne emotiva, ne di nessun’altra specie.
Avevamo una visione estremamente diversa della società, ad esempio, e del ruolo degli individui all’interno della stessa, perchè probabilmente venivamo da esperienze, in questo senso, diametralmente opposte: R. divideva il mondo in belli e brutti, e faceva dell’estetica il valore cardine di riferimento nelle sue valutazioni, trasformandolo in una vera e propria ossessione, l’unico motivo, in sostanza, per cui valesse la pena svegliarsi la mattina.
Aveva imparato velocemente ad adeguarsi a determinati canoni, e non faceva altro che deridere spudoratamente, colpendo in pieno il mio bersaglio dell’antipatia più totale, tutti coloro che magari sceglievano, o erano semplicemente costretti a farlo, di puntare su altri aspetti.
Le differenze, nei casi più fortunati, rappresentano una fonte potenziale di arricchimento: gli individui si completano a vicenda e trovano nuovi strumenti per proseguire, in un clima di rispetto reciproco, nel loro cammino.
Le differenze però, anche quelle apparentemente più insignificanti, nei casi più sfortunati sono uno dei sintomi più evidenti di un contrasto subdolo e silenzioso che nasce (inevitabilmente?) tra concezioni antitetiche della realtà.
R. in questo caso non era altro che il modello di persona con cui non ero mai andato d’accordo e con cui ancora oggi fatico a rapportarmi, giusto per smussare gli angoli della polemica: la distanza che ci divide è sempre più ampia e, di conseguenza, sempre più incolmabile.
La sua faccia perplessa non mi stupiva affatto, faceva fatica a seguire il discorso, era una questione troppo teorica per i suoi parametri; lei non pensava, non rifletteva, agiva semplicemente in quel modo, senza perdere nemmeno un secondo ad analizzare la situazione o a chiedersi se quella da lei intrapresa fosse la strada migliore.
Le raccontai alcune tappe nodali della mia vita, quelle in un certo senso che hanno contribuito a rendermi la persona che sono, ma per lei avevano lo stesso valore dei mucchi di immondizia abbandonati a bordo strada. Mi considerava un personaggio eccentrico, a metà strada tra un povero scemo e un pazzo farneticante.
Non voleva proprio accettare il fatto che in realtà non c’entrassimo nulla l’uno con l’altra; la faceva semplice, per lei si trattava soltanto di darmi una ripulita, levare la barba, cambiare abiti e scarpe; così facendo avrei avuto anche io, seppur con i limiti che purtroppo mi portavo appresso, le mie carte da giocare per entrare a far parte della sua tribù.
Le diedi l’ultima chance: appoggiai il mio Nokia preistorico affianco al suo super I-Phone fiammante che, tra le altre cose, costava più di quanto io guadagnassi in un mese per soffriggermi le palle con le sue stronzate. Venivamo da mondi opposti, in guerra tra di loro ormai da millenni, e l’unica ragione, non glielo dissi esplicitamente, per cui non le avevo ancora lanciato qualcosa di pesante addosso con l’intento di tramortirla era esclusivamente di natura legale, e non perchè non ne avvertissi l’esigenza.
Sembrò finalmente capire, ma era ostinatamente sicura che l’affetto avrebbe risolto tutto, come nelle favole: tutti potevano (con)vivere felici e contenti, compresi ovviamente io e lei.
Proprio quando stavo per concludere con le mie argomentazioni, R. si portò l’indice al naso, sgranando gli occhi: la mia tutor stava origliando la conversazione, chissà da quanto, appostata abilmente dietro la vetrata.
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057 - Ho incontrato R. due anni dopo, in una gelateria: lei ha fatto finta di non vedermi; io, conseguentemente, di non conoscerla.
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058 - L’epilogo di questa storia beffarda non poteva che essere grandioso, la ciliegina per una torta sontuosa preparata a regola d’arte nell’arco di quei sei mesi.
L’euforia generale, fastidiosissima, che si respirava letteralmente nell’ufficio cresceva a dismisura, e raggiunse puntualmente il culmine nel giorno dell’evento: tutto era pronto per il tanto atteso Congresso Provinciale delle Acli.
Il mio contributo fu, come sempre, determinante: dopo aver imbustato decine di inviti, li recapitai personalmente, presso i loro uffici, a politici ed assessori vari; scrissi una mail per sponsorizzare lo spettacolo e aiutai infine ad allestire la sala, a cablare il proiettore, unica e vera costante del mio tirocinio, e a verificare che l’impianto audio funzionasse correttamente.
Sapevo benissimo a cosa andavo incontro: se la mia avventura con loro fosse stato un video-game, quello era senza dubbio il mostro finale.
Cercai di vestirmi nella maniera più elegante possibile, ma le mie scarpe, i miei jeans, la mia maglietta e la felpa più sobria presente nel mio guardaroba non furono sufficienti: i partecipanti erano addobbati come se stessero andando al matrimonio della regina d’Inghilterra; non potevo assolutamente competere su quel campo e mi arresi sin da subito a subire le loro osservazioni, al solito spiritosissime, quasi quanto le pustole della varicella ad agosto.
Dovendo descrivere quell’esperienza in maniera sintetica non avrei dubbi nello scegliere la parola adatta: terribile.
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059 - La mia condizione era simile a quella di un talebano disarmato finito per sbaglio nel bel mezzo di una festa esclusiva per reduci di guerra americani: era impossibile anche solo pensare di riuscire a mimetizzarsi in qualche modo, per tentare di abbassare il mio altissimo livello di visibilità, d’altra parte assolutamente indesiderata. Tutti, e dico tutti, gli invitati, escluso ovviamente il sottoscritto, avevano a che fare direttamente con l’associazione: per l’occasione erano presenti ovviamente anche i grandi capi e le personalità più influenti a livello regionale, che chiedevano legittimamente, in maniera peraltro poco discreta, informazioni sul mio conto.
La partita era complicata: avrei dovuto scrivere un resoconto degli interventi più significativi, così mi piazzai in un angolo, nessuno aveva minimamente pensato di riservarmi un posto a sedere, armato con il mio fido registratore mp3, ma la scelta non fu delle più azzeccate: assomigliavo ad un dinamitardo psicopatico, pronto a premere il bottoncino del suo telecomando per far saltare in aria, da un momento all’altro, circo e pagliacci.
Fui costretto a sorbirmi ogni singola parola pronunciata in quel congresso maledetto: discutevano con enfasi sugli errori del passato e pianificavano nel dettaglio le mosse da adottare in vista del futuro prossimo; in un primo tempo ritenevo che quei pochi mesi trascorsi in cattività tra di loro fossero stati sufficienti per farmi capire realmente con chi avevo a che fare, ma è giusto fare un applauso al nemico, soprattutto quando si dimostra molto più abile di quanto sembri.
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060 - Riescono ad infiltrarsi efficacemente nei più disparati schieramenti politici, partendo dai gruppi appartenenti all’area della sinistra più moderata, passando per i conservatori di centro, un terreno fertile in cui irrobustiscono le loro radici, sino a sfociare nella destra ultra cattolica, un bacino immenso di comodi e facili appoggi.
Molti di loro occupano un posto di primo piano: la sala era piena di sindaci, consiglieri provinciali e regionali, assessori, esponenti del mondo sindacale, docenti, imprenditori. Lavorano, nonostante le differenze apparenti, ad un progetto comune e più ampio, che si spinge quindi ben oltre le singole attività personali: sono orgogliosamente figli della stessa madre, e da questa ricevono direttive ed indicazioni sugli obbiettivi da perseguire.
Cercano di aggiornare e preparare al meglio le loro risorse umane: organizzano regolarmente seminari di politica, dove si trattano temi generali (ad esempio il concetto di ‘bene comune’ nella società moderna) e si forniscono le parole chiave e le competenze basilari per rapportarsi con l’esterno, oltre a lezioni intensive di lingua inglese.
Il loro punto di forza sono i circoli sparsi capillarmente nel territorio: questi centri, che nei loro piani sono destinati a moltiplicarsi esponenzialmente, hanno il compito di proporre servizi e attività, gratuite per tutti coloro che investono 10 euro nella tessera annuale, alla comunità di appartenenza (corsi di cinema, di giornalismo, di scrittura creativa, assistenza fiscale e giuridica, formazione professionale, animazione culturale, turismo sociale, ecc.), con l’intento di avvicinare quante più persone possibile alla loro associazione, spacciando il tutto come ‘educazione ed incoraggiamento alla cittadinanza attiva’.
Si occupano prevalentemente di volontariato, concentrando le loro attenzioni, simili a piragna, sulle categorie più deboli, povere ed emarginate della società: i loro bersagli privilegiati sono immigrati, meglio se clandestini, disoccupati, pensionati.
Sono sanguisughe in giacca e cravatta, in grado di aggiudicarsi numerosi bandi europei ed internazionali di ogni sorta: ricordo che partecipai personalmente ad un incontro in cui spiegavano come compilare i vari campi dei moduli, come pianificare ad arte i preventivi e come ‘ripulire’ l’eventuale disavanzo; di norma, la regola essenziale era quella di coinvolgere nel progetto esclusivamente persone appartenenti o quantomeno vicine alla ‘famiglia’, in modo che il finanziamento potesse essere gestito più comodamente.
Tra le altre cose, spediscono i loro giovani imbecilli, smaniosi di aiutare il prossimo, almeno a parole, in giro per il mondo, inquinandolo continuamente con orde di missionari laici di dubbia affidabilità.
Ovviamente sono un associazione no-profit, animata esclusivamente, sostengono, dalla più pura carità cristiana: non inseguono il vile denaro, sterco del demonio, ma coltivano egregiamente la loro straordinaria rete di contatti per garantirsi una discreta quantità di privilegi negli ambiti più disparati.
Un incrocio straordinario tra un branco di sciacalli senza scrupoli e un esercito di sfigati, in corsa, come tanti, per una fetta sostanziosa di potere.
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061 - Durante uno dei primi colloqui con l’allora presidente, questi aprì alla possibilità che io potessi continuare la mia esperienza con loro, anche oltre il periodo previsto dal mio tirocinio formativo.
Risposi in maniera vaga e il più possibile cortese: – Il bello della vita è che è indeterminata –, mi limitai a sentenziare.
Non credevo veramente in quell’opportunità, ma mi sto abituando comunque a non escludere nulla a priori, perchè ormai ho imparato che le sorprese, belle e brutte, sono sempre dietro l’angolo; in quel caso non avevo comunque ancora raccolto tutti gli elementi che mi avrebbero permesso, come è avvenuto in seguito, di fare un esame più dettagliato della situazione.
Mi proposero immediatamente il tesseramento, mi proposero anche di allacciare dei contatti con alcune persone del mio paese che in passato gestivano un circolo, per collaborare con loro nell’intento di riportarlo in vita; mi proposero di partecipare, senza nessuna spesa a mio carico, ad alcuni seminari di politica.
Fui invitato a partecipare ad una tristissima ‘fiaccolata per il lavoro’ in un piovoso pomeriggio di febbraio.
Poi, per fortuna, si arresero ed iniziarono a trattarmi semplicemente come un corpo estraneo.
Per il mio ultimo giorno di lavoro, cercarono una scusa e non si presentarono in ufficio: una cosa che apprezzai, visto che ci liberava dal peso dell’imbarazzo derivato da saluti fastidiosamente finti.
E’ inutile piangere sul latte versato, ma sono costretto ad ammettere che, in definitiva, si sia trattato di una delle scelte più scellerate e sconsiderate che abbia mai preso.
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062 - La macchina non si stanca mai, mantiene in maniera costante e dittatoriale il suo ritmo, non si ferma, non sbuffa, non si lamenta, non prova nessuna pietà e se ne infischia se sei esausto.
Spettava proprio a noi regalarle puntualmente la vita, ogni mattina: ci presentavamo nell’enorme capannone alle 6 e 30 spaccate, mentre il sole stava ancora al riparo, beatamente trincerato nel buio della notte precedente, e davamo il via al processo, semplicemente premendo un interruttore rosso.
Un forte rumore esplodeva immediatamente nel cranio, agevolato nel suo dilagare dal fatto che non usavamo, soprattutto perchè non ci veniva fornito, alcun tipo di protezione per l’udito: un lamento di catene grosse e arrugginite e di pesanti parti di metallo che, sbattendo tra di loro, scandivano disumanamente il tempo ad intervalli brevi, regolari, ripetuti all’infinito.
Il mio compito era piuttosto semplice: assieme a S., posti uno di fronte all’altro, dovevamo sistemare una grata in ferro sottile, incorniciata da un pesante telaio in legno, sopra una coppia di braccia semoventi che, grazie ad un sistema ad aria compressa, ribaltavano il tutto facendo cadere il contenuto, in questo caso si trattava di prugne essiccate, sopra dei nastri trasportatori.
Condannati a ripetere lo stesso identico movimento ogni 6-7 secondi, per 12 ore di fila, ad eccezione di una pausa di mezz’ora per mangiare qualcosa, bere e riprendere fiato.
Gli unici imprevisti, in grado di scalfire, seppur in parte, quell’oceano imperturbabile di monotonia, erano rappresentati dai problemi tecnici dell’apparecchiatura, che dovevamo peraltro risolvere da soli rischiando paradossalmente, accadde in più di un’occasione, di devolvere alla causa qualche falange, senza essere, aspetto grottesco ma tristemente diffuso, nemmeno assicurati contro gli eventuali incidenti.
Eravamo soltanto una triste accozzaglia di operai improvvisati agli ordini di un capofabbrica intelligente quanto subdolo, che cercava semplicemente di ottenere il massimo al costo minore: personalmente mi colpì il fatto che, almeno il primo anno, si rapportasse nei nostri confronti con grandissima cortesia, soprattutto quando ci proponeva, si trattava in realtà della più classica delle domande retoriche, di trattenerci ulteriormente a lavoro oltre l’orario prestabilito; o come quando ci chiedeva di aumentare l’intensità del nostro sforzo per procedere più velocemente.
Condiva la faccenda in maniera magistrale, dandoci l’impressione anche solo per un attimo, sufficiente comunque a far schizzare alle stelle il nostro stupido entusiasmo, di far parte di un progetto di cui rappresentavamo il tassello insostituibile.
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063 - Rientravo a casa soltanto nel tardissimo pomeriggio, intrappolato in una rete capillarmente diffusa di dolori e fitte varie, che dai piedi si arrampicavano su fino al collo, senza risparmiare nemmeno un centimetro quadrato del mio corpo: sentivo le braccia pesantissime, quasi assenti; le gambe estremamente rigide, così come le spalle.
Il disagio non si limitava al fisico, ma banchettava soprattutto con la carne molliccia del cervello: i pensieri erano totalmente annullati, estinti; dormire, o anche solo rilassarsi, era una vera e propria impresa, perchè non c’era modo di scollarsi di dosso quei rumori e quei fotogrammi che continuavano a monopolizzare maledettamente la mia attenzione anche dopo la fine del turno, con i nervi elettrizzati da una tensione velenosa e perenne.
Avevo giusto il tempo per mangiare qualcosa di caldo, poi scappavo verso il mio letto, cercando di strappare alla sveglia, in una lotta senza senso, qualche minuto di riposo in più che, in quelle condizioni, mi sembrava vitale.
Molti ragazzi abbandonavano la fabbrica dopo pochi giorni; io invece non mollai, in questo senso fu determinante il mio orgoglio, assaporando sino all’ultimo boccone un’attività sicuramente dura ma identica, nei suoi aspetti negativi, a mille altre. Feci esperienza diretta con una stanchezza a me sconosciuta sino a quel momento; una sensazione nitida e precisa che mi accomunava magicamente, anche se per un tempo limitato, considerando che la stagione durava soltanto alcune settimane, a miliardi di persone sparse per il globo.
Sono convinto si tratti, ancora una volta, principalmente di una questione di abitudine: in tanti infatti riescono a sopportare in maniera apparentemente agevole il peso dei lavori più gravosi, anche se sono altrettanto convinto che nessuno può, o almeno non dovrebbe, mai abituarsi sino in fondo a lavorare in condizioni estremamente degradanti.
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064 - Ci davano 6 euro in cambio di un’ora della nostra vita, ovviamente in nero, cifra che saliva del 30% per lo straordinario; non so perchè gli altri lo facessero, ma probabilmente la loro motivazione era simile alla mia: si trattava semplicemente di mettere da parte giusto qualche spicciolo, per poi spenderlo nello sterminato mercato globale a nostra disposizione.
Il primo anno, con il frutto del mio sudore, mi comprai una decina di libri da IBS, conservando il resto; il secondo e ultimo anno mi pagai uno dei viaggi più belli di sempre, era questa in realtà la carota che inseguivo disperatamente e che contribuiva a tenermi stoicamente in piedi durante quegli estenuanti turni di lavoro, complicati notevolmente dal cambio radicale di atteggiamento del capo fabbrica, trasformatosi improvvisamente, e senza nessun buon motivo apparente, in uno stronzo antipatico e scorbutico.
Pare che i soldi siano il dolcificante migliore per mandar giù qualsiasi tipo di boccone indigesto e amaro, ma a volte la realtà riesce ad evadere dalla gabbia di finzione e banconote in cui viene rinchiusa e ti sbatte forte in faccia con tutta la sua nitida, accecante e violenta verità.
Una mattina come tante altre la sveglia del mio cellulare non fece il suo dovere, così mi liberai, in maniera fortuita e rocambolesca, dall’abbraccio caldo e sensuale di Morfeo in notevole ritardo rispetto alla mia usuale e ferrea tabella di marcia.
Il risultato di questo contrattempo fu, per alcuni aspetti, drammatico: non potevo permettermi nessun tipo di indugio, anche perchè in macchina con me c’erano altri tre colleghi, e mi trovavo costretto a condensare in un unico atto il momento necessario della colazione con quello altrettanto importante e urgente dedicato all’espulsione delle feci fuori dal mio organismo.
Mangiai la mia solita banana, il potassio era un elemento formidabile, a livello energetico, seduto su un comodo trono in ceramica bianca: morso dopo morso, sentivo crescere dentro di me una sensazione inedita, una forma di imbarazzo particolare, che non derivava però, come spesso capita, dal giudizio altrui, non c’erano occhi indiscreti ovviamente a registrare la scena, ma che nasceva, pura e spontanea, dal profondo: avevo appena sfondato, in maniera spudoratamente semplice, il limite della decenza e della dignità animale, in cambio di qualche moneta.
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065 - La storia dell’uomo dentro il barattolo (10\12\2005)
Evadere da un barattolo di vetro, tipo quelli che si usavano un tempo per mettere le confetture, prima che arrivassero i contenitori in plastica mono porzione a monopolizzare il mercato.
Forse evadere dai piccoli contenitori in plastica monoporzione doveva essere un po’ più facile. Era solo una supposizione, una delle tante a non poter godere di una confutazione sperimentale, però la conformazione tipica del barattolo in vetro in cui si trovava adesso gli suggeriva che era davvero un dannatissimo problema. Le pareti liscie………..e basta. Nient’altro se non un po’ di spazio, e un po’ d’aria. Sufficiente per un po’ di tempo, non sapeva quanto esattamente, giusto un po’.
Era chiuso dentro il suo barattolo, appoggiato ad una vetrina di una via nel centro. Un mese freddo come un altro, non si ricordava bene quale, tanto tutti i mesi stavano diventando via via sempre più freddi, e uguali.
Così, seduto a gambe incrociate, nel centro del suo barattolone in vetro, studiava attento la situazione in cui si trovava. Non che ci volesse molto, per carità, vista la scarsità di dettagli e di oggetti presenti attorno a lui.
“Se non fosse per quel tappo chiuso ermeticamente…………..”, si ripeteva. Nei lunghi e noiosi mesi precedenti aveva provato a svitarlo, dal di dentro. Ma come si fa a svitare una cosa dal di dentro?
Semplicemente, non si può. C’erano giorni in cui, confusissimo per la troppa collera accumulata, provava a sfondare la sua gabbia trasparente a calci, ma era inutile. Quel vecchio vetro spessissimo tipico dei barattoli per le confetture era una garanzia. Difficile da rompere. Sicuro.
Altre volte, invece, preso dallo sconforto, passava le sere a leccare le pareti asettiche del suo personalissimo monolocale. E magari ci sentiva dentro antichi sapori: pesche sciroppate, marmellate di albicocche e prugne, creme al cioccolato, frutta candita.
E questo a volte bastava per portarlo lontano, via da quelle pareti avvolte attorno a lui.
Chissà quanta aria c’era, si chiedeva. Chissà quanta aria c’era ancora dentro. E chissà quanta ce n’era fuori.
Lui era solo, li dentro, ma fuori, fuori dicevano che ci fossero più di sei miliardi di persone. Sei miliardi; cifre astronomiche. Lui non le avrebbe sicuramente mai viste, sei miliardi di persone messe tutte assieme.
Chissà poi se basterà, l’aria, per tutte quelle persone li fuori.
Non riusciva neppure ad immaginarsele. Eppure dicevano che alla fine del mondo sarebbero state raggruppate tutte assieme in un posto fantastico. Almeno, le persone buone. Le altre destinate in un brutto posto, brutto quasi come un barattolo di vetro appoggiato ad una vetrina di una strada nel centro. Solo un po’ più caldo. Non sapeva quanto. Giusto un po’.
E passava le sue giornate proprio così, a guardarsi attorno, e a farsi tante domande. Aveva smesso di mangiare da moltissimo, ma non facendo nessun tipo di movimento era sufficiente inghiottire un po’ di saliva, magari qualche lacrima. Ed era più che appostissimo.
Dormiva molto, a dire il vero, ma i sogni non erano un granchè. Il barattolo amplificava tutti i rumori che venivano dalle strade della città, così lui era costretto a dormire a pezzi. Piccoli singhiozzi di sonno, irregolari. Dormiva a tratti, proprio come una linea dispettosa. Però dormiva molto. Non avendo chiaramente nulla da fare, si addormentava appena faceva buio, proprio quando tutto diventava nero e proprio quando lui non riusciva a vedere nemmeno le sue mani a cinque centimetri dal naso.
E si svegliava non appena sorgeva il sole, perchè la luce era troppa, così tanta che gli trapassava le palpebre chiuse, e volente o nolente arrivava ai suoi occhi e fino alla sua testa.
Ma c’era un giorno, un giorno particolare che si ripeteva di tanto in tanto, in cui accadeva qualcosa di strano.
Succedeva che, un giorno ogni tanto qualcuno svitasse il tappo, proprio mentre lui dormiva profondamente, senza sognare, e ci buttasse dentro uno spicciolo giallognolo.
Succedeva ogni tanto, ma ogni tanto succedeva sempre!
Ormai era abituato a trovare quello spicciolo giallo, simpatico e così perfettamente tondo.
Dopo un paio di volte che questo strano evento si verificò, perse pure la sorpresa iniziale che lo accompagnava in quei risvegli così particolari.
Che strano, e che farsene poi di uno spicciolo.
A cosa gli serviva?
Lui, che viveva ormai da troppo tempo dentro ad un barattolone di vetro per confetture, che neppure mangiava più se non un po’ di saliva e qualche lacrima, che nemmeno dormiva più bene.
La risposta a quel piccolo dubbio si trasformò in consuetudine, regolare e piacevole.
Cosa se ne poteva fare infatti, di quel piccolissimo spicciolo tondo, se non ficcarselo su per il culo?
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066 - Sapevo che non sarebbe stato facile trovare un’occupazione dignitosa, e il parametro determinante, in questo senso, non è sicuramente il compenso percepito; lo avevo capito nelle poche ma significative esperienze precedenti, e la lezione era stata dura e allo stesso tempo importante. Mi trovavo a fare i conti con una poltiglia informe, un miscuglio gelatinoso di sconforto e apatia, condito da qualche accenno di sano terrore che non guasta mai e contribuisce a far battere in maniera più convinta, anche solo per un attimo, il nostro povero, incolpevole, malandato cuore.
Affrontavo con affanno spensierato l’ennesima ripida salita incontrata nell’ennesima escursione, durante il mio soggiorno a Ceresole Reale, poche, graziosissime case incastonate nel bel mezzo del Parco del Gran Paradiso; una parentesi rinvigorente farcita, sino a scoppiare, di aria buona e fresca; l’ultimo momento di calma assoluta prima della tempesta.
Fu in quell’istante che pensai, con le montagne e il cielo azzurro a fare da testimoni alla mia implicita richiesta, che guadagnarmi il pane con la scrittura non sarebbe stato poi così male.
Meno di due mesi dopo, si materializzò concretamente la possibilità di raggranellare qualche soldo curando degli articoli per un quotidiano on-line che si occupa di calcio dilettantistico.
Iniziai questa nuova avventura con il pieno di entusiasmo, ma imparai presto sulla mia pelle che il vecchio detto ‘Scegli un lavoro che ti piace e non lavorerai mai’ non è altro che una bugia, ancora buona solo per i creduloni più incalliti e sfortunati.
Anche la più deliziosa delle attività perde il suo fascino sotto il peso spietato della costrizione, incanalata rigidamente in uno schema asettico di orari, giorni ed impegni improrogabili, a cui si somma puntuale lo sciame fastidiosissimo di rotture di coglioni varie ed eventuali che tormentano questo mondo e la gran parte di coloro che sono costretti a viverci sopra.La situazione spesso va analizzata con un brutale confronto tra i pro e i contro: la stanchezza che si prova nello svolgere una determinata mansione è uno dei primi aspetti da prendere in considerazione, e in questo caso devo ammettere che pigiare dei tastini su una tastiera non è stressante quanto strappare dalla pancia più buia della terra delle grosse pepite di carbone al fine di nutrire la fame insaziabile di un milione di fabbriche.
Ma questo non basta, purtroppo.
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067 - Lentamente gli aspetti negativi emersero in tutta la loro fastidiosa evidenza: in primis, la monotonia di un compito sempre uguale a se stesso, sfortuna ampiamente condivisa, che rivive puntuale in tutta la sua inutilità ogni lunedì mattina e ti accompagna, subdolo e strisciante, giorno dopo giorno, verso l’ennesimo fine settimana in cui la giostra ripartirà rumorosa e pacchiana per poi partorire un altro lunedì mattina identico, avvelenato già dalla nascita e pronto a rosicchiarti il buon umore, brandello dopo brandello.
Per molto tempo, lo spazio dedicato alla scrittura rappresentava per me un episodio quasi magico; all’improvviso è diventata una vera e propria maledizione. Ho dovuto imparare in fretta a fare i conti con un dizionario sempre più anoressico, composto ormai da pochi termini: cross, tiro, portiere, vittoria, sconfitta, gol, classifica, campionato. In loop, all’infinito.
Ho imparato a provare disprezzo per un mondo, quello del pallone, che avevo sempre considerato, per diversi motivi, un’oasi di divertimento ma che si è trasformato in pochi mesi in un recinto asfissiante, il centro unico dei miei pensieri. Sino allo spossamento.
Scegli di fare della tua passione una professione, e inizierai a parlare della tua passione usando esclusivamente il passato remoto.
Probabilmente io sono stato particolarmente sfortunato, ma non so se, avendo la possibilità di occuparmi, sette giorni su sette, della vita e delle opere di Rousseau, ad esempio, il risultato sarebbe stato più soddisfacente.
Così, per capirne di più, ogni qual volta ne ho l’occasione, chiedo alle persone: – Qual è la cosa che odi di più del tuo lavoro?
Se mi rispondono ‘niente’, mentono, oppure, forse, non ci hanno ancora riflettuto adeguatamente.
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068 - Il mio problema più grande ha una natura ben definita: un articolo ogni 30 minuti, dal lunedì al venerdì, per otto ore al giorno circa, sotto la dittatura di un orologio: è lui che scandisce il ritmo questa volta, ha sempre i miei occhi appiccicati addosso, e non una macchina, ma il risultato è il medesimo.
Una storia già vista, che a questo giro coinvolge solamente le mie dita e il mio cervello, graziando apparentemente il resto del corpo, che per solidarietà si unisce ugualmente al coro del malessere: crampi muscolari, dolori alle articolazioni, ansia, tensione negativa diffusa, voglia di esplodere e volare lontano, sparpagliandomi per aria in mille pezzetti diversi.
Non so nemmeno perchè mi ostinassi, in un primo tempo, ad andare così veloce: il primo sbaglio fu accettare quell’enorme mole di lavoro, da sbrigare da solo; seguire contemporaneamente 126 partite alla settimana per trenta settimane. E’ inutile che stia qui a spiegarvi come si fa, so solo che è possibile; ciò che conta, in sostanza, è che gli interessati leggono quello che propongo, probabilmente perchè la concorrenza, spendendo 10 volte in più rispetto a quanto i miei responsabili si possano permettere con me, riesce paradossalmente a fare peggio. E’ una questione di metodo: si tratta semplicemente di riuscire a svilupparne uno abbastanza valido per le tue faccende, in fondo sono stato addestrato per questo, tenendo conto del fatto che le questioni legate ad un pallone sono decisamente meno complesse, ad esempio, della fenomenologia dello spirito hegeliana.
Mi devo solo limitare a raccontare quello che altri raccontano già, in maniera più carina, più curata di quello che il convento passa abitualmente.
Questo per quanto riguarda i primi due giorni della settimana.
Poi si passa alle interviste: un bacino di utenti potenzialmente infiniti che non vedono l’ora di parlare con me, piuttosto che con le loro mamme, le loro mogli, i loro figli, le loro ragazze, i loro amici; si confessano, mi descrivono nel dettaglio i loro gesti tecnici epici e fantastici, le loro sensazioni, l’emozione dopo un gol o l’onta di una sconfitta subita immeritatamente all’ultimo secondo su di un campo polveroso di qualche periferia dimenticata dall’uomo e dalla civiltà.
Ho coccole per tutti, per ognuno di loro: li tratto come se fossero guerrieri al ritorno da una battaglia, e pubblico il pezzo a velocità supersonica, così possono andare immediatamente a leggerselo con le loro mamme, le loro mogli, i loro figli, le loro ragazze, e lo condividono sulle bacheche virtuali dei loro amici. Hanno un sacco pieno zeppo di storie da raccontare, ed io sono li apposta per ascoltarli. Il loro confessore di fiducia.
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069 - L’istinto gioca un ruolo determinante, credo: dopo che trascorri la tua giornata a pigiare tasti di fronte ad uno schermo, l’ultima cosa che ti viene in mente per rilassarti è quella di scrivere al computer. Provi ribrezzo, e non puoi fare altro che assecondare quell’irrefrenabile impulso che ti spinge lontano dalla scrivania.
Tutto il resto è una conseguenza: per tre anni, se si escludono sporadiche eccezioni che sostanzialmente non fanno testo, non ho più trattato nessun argomento che non riguardasse il mio lavoro.
Mi sono praticamente dimenticato della filosofia, come di tutti gli altri miei interessi: leggere, a fine serata, più di tre pagine di un libro qualsiasi era una scommessa già persa in partenza; il sonno e la stanchezza diventavano nemici invincibili; il divano, invece, una comoda bara in cui attendere l’arrivo di un altro giorno sempre uguale.
Ma c’è un aspetto, se si vuole, ben peggiore: le parole diventano sterili, perdono il loro potere evocativo, si appiattiscono, si trasformano in una melma flaccida, senza peso, senza sapore, senza odore; se l’insieme delle mie attività perde senso, automaticamente, anche al mondo chiuso fuori dalla mia stanza spetta una sorte identica.
Ho sempre sentito dire che le prostitute tentano, non so in realtà quanto ci riescano, di scollegare il loro cervello dal corpo quando intrattengono un cliente: fisicamente sono rinchiuse in una stanza, o nell’abitacolo di una macchina, ma con la mente probabilmente sono altrove, in attesa che l’altrui desiderio si assopisca.
A me capita una cosa simile quando mi occupo di calcio: il cuore e la pancia non partecipano al processo, semplicemente perchè non c’è spazio per la creatività, tanto meno per un minuscolo accenno di poesia. Schiavo di un’azione meccanica e ripetitiva; una sanguisuga pesante 10 tonnellate, da cullare amorevolmente, nel frattempo che le mie energie finiscono dritte nelle sue viscere, fino a che morte non ci separi.
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070 - Da un certo punto di vista, mi considero un privilegiato: sin dai primi esercizi alle elementari, la scrittura è sempre stata un’attività evasiva, che mi permette di abbandonare la realtà ordinaria, con i suoi rigidi schemi spazio\temporali, in favore di una dimensione decisamente più plastica, in cui la fantasia non ha vincoli di nessun tipo. Un temporale pomeridiano si trasformò all’improvviso in un campo di battaglia: i tuoni e i fulmini non erano altro che esplosioni e bagliori di bombe e cannoni, e le gocce sul vetro della finestra diventarono soldati, riuscivo a vederli, che strisciavano tra le trincee nemiche per conquistare centimetri essenziali di terreno. La maestra rimase piacevolmente impressionata da quel tema, tanto che lo fece leggere a tutte le sue colleghe, oltre che ai miei genitori, i quali raccontarono l’avvenimento, manco si trattasse di un miracolo, per diversi anni, senza preoccuparsi minimamente di correre il rischio, peraltro altissimo, di annoiare gli sfortunati interlocutori. Ho avuto la possibilità, sarebbe meglio definirla un’immensa fortuna, considerando quanto in fin dei conti mi ha dato in cambio, di associare il potere ben noto della parola con quello altrettanto incredibile legato alla musica: l’unione dei due elementi ha dato magicamente vita ad una storia nella storia, che merita di essere raccontata quasi esclusivamente per il ruolo fondamentale che due suoi grandissimi protagonisti hanno rivestito e ancora rivestono nella mia esistenza e, sono sicuro di non sbagliarmi, in quella di tantissimi altri. A loro, con tutta l’umiltà e la gratitudine di cui sono capace, dedico queste righe: saranno gli unici, tra le altre cose, a figurare in questo documento con i nomi scritti per esteso. Ritengo sia doveroso, prima di immergermi dolorosamente nella narrazione, fare una precisazione: ho già avuto modo di riportare la gran parte di questi avvenimenti in un’altra sede; parecchi mesi fa, infatti, R. U. mi propose un’intervista per una web radio, ma per motivi che ignoro non è stata mai mandata in onda. In realtà, R. U. mi ha fatto uno dei regali più preziosi che ho mai ricevuto: grazie a quella chiacchierata, ho capito, per la prima volta, in che misura questa avventura sia stata carica di senso e di significati. Forse anche più di quanto, in realtà, avrei voluto.
Non ci sono storie senza senso. E io sono uno di quegli uomini che sanno trovarlo anche là dove gli altri non lo vedono. Dopo di che la storia diventa il libro dei viventi, come una tromba squillante che fa risorgere dal sepolcro coloro che erano polvere da secoli’
Umberto Eco – Baudolino
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071 - Non ho mai indagato a sufficienza le ragioni che consentono alla musica di diventare un elemento così importante nella vita di un uomo, così mi devo accontentare di analisi parziali, deboli e superficiali. Una mattina la mia relatrice mi disse che per lei era un veicolo per andare ‘altrove‘; un’affermazione che mi trova peraltro d’accordo, ma che tuttavia rischia di essere riduttiva, almeno per quanto riguarda la mia esperienza. Sin da piccolo, ho accompagnato la quasi totalità delle mie attività quotidiane con i brani più disparati: è stata la mia fedele compagna in ogni viaggio, sempre presente, in maniera quasi ossessiva, anche per quelli più brevi; è stata spesso la mia unica consolazione, un vero e proprio rifugio nei momenti difficili, ma anche la testimone fedele, gentile e discreta delle circostanze più liete. E’ stata un’incredibile valvola di sfogo, sia a livello fisico che mentale; un eccellente amplificatore, capace di enfatizzare all’inverosimile ogni più piccola emozione; è stato un balsamo preziosissimo per le mie ferite, il più dolce dei nettari, ma anche la più crudele delle droghe; uno dei primi pensieri al mattino e uno degli ultimi alla sera, corsia preferenziale per atterrare rapidamente tra le braccia di Morfeo. La musica è come un tassello che si incastra perfettamente con il mosaico della tua psiche. E’ una lente colorata: può influenzare e talvolta addirittura alterare profondamente le tue convinzioni e le tue interpretazioni sul mondo che ti scorre davanti agli occhi, in maniera terribilmente efficace quanto subdola, soprattutto se la sua preda è un adolescente confuso.
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072 - Se consideriamo, a ragione, l’arte e quindi la musica come uno dei tanti cibi di cui la nostra anima si nutre, la nascita, lo sviluppo e la progressiva diffusione dell’mp3 possono rivestire un’importanza simile a quella riservata, all’interno della complessa economia dell’alimentazione umana, all’agricoltura o all’allevamento. Spesso accade che le più disparate evoluzioni tecnologiche o scientifiche producano, parallelamente ai benefici, aberranti degenerazioni. Non è sicuramente questa la sede più opportuna per inoltrarsi in analisi di questo tipo, ma ritengo giusto almeno accennare alle principali critiche che vengono mosse contro questo fenomeno: in primis c’è il brutale appiattimento, in termini puramente qualitativi, di un bene che, nell’era del digitale, a differenza di quanto succedeva in passato con i metodi analogici di registrazione e riproduzione, offre inevitabilmente all’orecchio una gamma di frequenze sensibilmente ridotta; vengono a mancare, per definizione, la maggior parte delle vibrazioni sonore che caratterizzavano una produzione rispetto ad un’altra e, in definitiva, ne costituivano l’essenza pulsante. La saturazione del mercato, chiunque attualmente è in grado di pubblicare con pochi euro di investimento la propria proposta avvicinandosi notevolmente agli standard professionali, e in misura maggiore la facilità disarmante di accedere in maniera immediata oltre che gratuita, e dunque illegale, alla totalità dei brani in circolazione, ha contribuito a trasformare questi ultimi, che godevano, tra le altre cose, di una sacralità impenetrabile, in anonimi pacchetti di megabyte che vanno a morire inevitabilmente, in massa, nelle sterminate distese virtuali, grandi cimiteri silenziosi, dei nostri hard disk. Nel mio caso, semplicemente, gli mp3 hanno messo definitivamente il punto ad un digiuno culturale forzato e dolorosissimo.
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073 - Per quanto mi riguarda, ho la sensazione di aver assistito ad un cambiamento epocale. C’è stato un periodo in cui la varietà di musica a mia disposizione era estremamente limitata, perchè la distribuzione al dettaglio, una delle prime fonti a cui ho avuto accesso da adolescente, trascurava, sino ad escluderli sistematicamente del tutto, gran parte dei sottogeneri di nicchia, verso i quali nutrivo gli interessi maggiori, per concentrarsi principalmente sulle grosse tendenze commerciali, rendendo decisamente difficoltosa la reperibilità di prodotti specifici. Con la comparsa dei grandi rivenditori, in genere si trattava di mail-order, mi è stato possibile accedere ad un catalogo esponenzialmente più vasto, ma il problema maggiore era legato ai prezzi: non so bene le cause, probabilmente la SIAE gioca un ruolo basilare, ma in Italia un compact disc di recente pubblicazione poteva arrivare a costare anche 45.000 lire, una cifra esorbitante per uno studente, cosa che riduceva sensibilmente, aspetto da non sottovalutare, la possibilità di allargare il proprio campo di interessi; in linea di massima, non si poteva rischiare di puntare su un prodotto totalmente sconosciuto, con l’altissima probabilità dunque di rimanere pesantemente insoddisfatti; una cosa inaccettabile considerando soprattutto che in un anno gli acquisti non superavano, di numero, le dita di due mani. Non potendo avere, inoltre, un’anteprima dei brani, per la scelta ci si doveva affidare alle recensioni delle riviste specializzate, che risultavano spesso capziose e finalizzate a promuovere un nome a discapito di un altro. Questa situazione, che si è tristemente protratta per diversi anni, ha provocato effetti assolutamente grotteschi: partendo da queste premesse, non è difficile capire perchè un gruppo di diciottenni, durante il primo viaggio in Europa, abbia preferito rinchiudersi nell’ennesimo, enorme negozio di dischi incontrato sulla propria strada, piuttosto che godersi uno spettacolo unico ed irripetibile come l’Aurora Boreale.
Non so se sia possibile riscattarsi da una caduta di questo tipo, ma provo comunque a spezzare una lancia in nostro favore: la catena della Saturn, diffusa capillarmente in molti stati del vecchio continente, era comunque qualcosa di assolutamente incredibile per la vastità del proprio assortimento e per gli importi, inferiori spesso anche più del 50% rispetto al nostro mercato abituale, e permetteva tra le altre cose l’ascolto integrale degli album prima dell’acquisto, un vantaggio incommensurabile, che divorava senza pietà il tempo delle nostre giornate più sfortunate. Come darci torto? In fondo eravamo simili a dei sopravvissuti ad una carestia millenaria che di colpo si imbattevano in un ristornate cinese ‘All you can eat’.
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074 - Prima del dilagare dei programmi p2p, quelli che in sostanza permettono la condivisione dei file mp3, e degli abbonamenti economici per le connessioni internet, un periodo l’accesso alla rete era un privilegio riservato a pochi, la musica si spostava soprattutto attraverso gli individui. Conoscere una persona significava anche, tra le altre cose, accedere al suo archivio personale di dischi. E’ difficile far capire a chi non ha vissuto quel periodo, il valore quasi epico che accompagnava quelle ricerche: attualmente è praticamente impossibile che due ragazzini decidano di farsi 12 kilometri su di un motorino, scortati da nuvoloni neri, inquietanti e pronti ad esplodere in pioggia, per andare a recuperare un nastro con sopra ‘Pura Lana Vergine’ dei Fluxus, in versione non originale, ovviamente. Napster ha aperto una nuova strada, con un click riesci ad ottenere tutto quello che desideri, ma, è vero, in un certo senso è l’ennesimo fattore che tende ad impoverire le nostre esistenze. La prova più convincente che ho a disposizione è il fatto che gli eventi che mi appresto a narrare, probabilmente oggi non si sarebbero sviluppati con queste dinamiche che, in definitiva, sono uno degli elementi che contribuiscono a distinguere una storia da un’altra.
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075 - Mi sono sempre chiesto che criterio usino gli addetti ai lavori per la composizione delle varie classi nelle varie scuole: non so se seguano l’ordine alfabetico, se si basino sul paese o sulla zona di provenienza dei singoli alunni, se si concentrino sui risultati ottenuti nelle esperienze precedenti o, più semplicemente, si affidino al caso. Prendendo per buono l’ultimo punto, il destino ha voluto che tra i venti e passa compagni che iniziarono con me il percorso delle superiori, ci fosse anche G. Non uscivo mai di casa senza il mio walkman, una pratica che accomunava entrambi e che probabilmente fece scattare la prima scintilla: io all’epoca ascoltavo quasi esclusivamente i Guns N’ Roses, l’intera discografia mi era stata fornita da quella strega di mia cugina, è sempre stata un punto di riferimento per me, la quale una sera di tanti anni prima mi parlò con così tanta enfasi di Slash e compagni che mi convinse, sul serio, che si trattasse del gruppo migliore sul pianeta terra. Non avevo molta altra scelta, se si esclude un gratest hits di Brian Adamas, uno dei Queen, il cd di ‘In Utero’ dei Nirvana e due audiocassette non originali di Offspring e Green Day; chi conosce, anche solo a grandi linee, il mio paese natale, sa benissimo che una costante, ormai da decenni, è rappresentata dai gusti musicali dei suoi giovani abitanti, ossequiosamente devoti al punk più melodico. Io avevo quindi ben poco da offrire, G. invece aveva un centinaio abbondante di titoli, che coprivano i generi più disparati, su cui mi fiondai con vera e propria, animalesca ingordigia. Come un raffinato sommelier, si preoccupava di aggiornarmi sulle ultime uscite, che gli venivano puntualmente fornite da un’ampia cerchia di amici altrettanto appassionati alla materia, e cercava soprattutto di consigliarmi gli artisti che potessero soddisfare i miei gusti.
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076 - Le mie orecchie in quegli anni erano piuttosto fragili: quando mi capitava di imbattermi nei primi video dei Pantera, qualcosa incominciava ad apparire anche su Video Music, giuravo a me stesso che mai e poi mai avrei ascoltato una roba così cacofonica, e il mio giudizio si riferiva soprattutto al cantato. Come spesso è accaduto nel corso di questa vita, e come probabilmente continuerà a succedere, mi sbagliavo. Uno dei primi punti di rottura, in questo senso, fu rappresentato da ‘Cereal Killer’ dei Green Jelly: una band demenziale che mischiava alcune cose dell’heavy metal, con uno stile vocale decisamente aggressivo, ad altre più tipicamente punk. All’epoca c’era la bella abitudine, mi sento di definirla tale soprattutto se paragonata allo stato di isolamento totale che al momento affligge l’essere umano, di ascoltare lo stesso brano contemporaneamente, un’auricolare a testa, e di commentare in tempo reale i vari passaggi: io e G. passavamo molto del nostro tempo a discutere di musica, e fu così, probabilmente, che diventammo buoni amici. Oltre ai miei gusti, stavano mutando, ancora più rapidamente, le mie sensazioni, le mie emozioni e le mie convinzioni: come ho già avuto modo di analizzare in precedenza, non riuscivo a calarmi adeguatamente in quella nuova e strana dimensione, non riuscivo a legare con molti miei compagni in maniera spontanea, al contrario di quanto invece mi aspettavo; erano troppe le differenze, a livello sociale e comportamentale, che ci dividevano. Ero spaventato, smarrito: gli atteggiamenti degli altri mi ferivano mortalmente, non avevo mai provato un dolore così grande prima di allora.
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077 - Fu una reazione inevitabile: cambiai il modo di stare assieme alle persone, mi chiusi a riccio, e sprofondai dentro me stesso. Il mio personalissimo dj si adeguò in un batter d’occhio, rivoluzionando la colonna sonora: tutte le melodie che mi avevano fatto compagnia sino ad allora risultavano inadeguate, nel migliore dei casi, se non addirittura fastidiose: raccontavano di una persona che non esisteva più, scartavetrata dalla scena senza pietà, nell’indifferenza generale, senza nessun tipo di riguardo. Successe nel viaggio di ritorno della prima ‘gita di classe’ che facemmo: la stanchezza, mista ad una sensazione di apatia e disagio diffuso, mi portarono a sedermi da solo, con le piccole cuffie rotonde conficcate nelle orecchie e la faccia spiaccicata sull’ampio finestrino del pullman. Fuori pioveva, tutt’attorno una festa che sembrava ineluttabilmente inutile, al quale comunque io non mi sentivo invitato. Dentro di me, un’ostilità nera, viva, profonda, appiccicosa, terribile, seducente; verso tutto e soprattutto verso tutti. Nel walkman, ‘Clandestin’ degli Entombed. Quella musica riusciva a dare magnificamente un senso alla situazione, a ciò che provavo in quel momento. Era l’unico modo a disposizione, anche se povero, per trasferire l’odio dal centro dello stomaco all’esterno. Senza quello stratagemma, ne sono sicuro, sarei impazzito, imploso, morto annegato in quel mare in tempesta. Iniziai ad ascoltare generi sempre più estremi e violenti, anche a livello concettuale. Il definitivo e rabbioso distacco dai valori cristiani, che in famiglia mi avevano somministrato abbondantemente in tutti quegli anni, e che iniziavo a considerare al pari di una sporca menzogna, perchè non si conciliavano minimamente con l’universo indecifrabile in cui ero stato catapultato, rappresentò la svolta decisiva: fui letteralmente travolto da un’ondata immane di satanismo da circo e paganesimo più o meno approssimativo, farcita da chili di misantropia usa e getta. Bevevo tutto, senza fare troppe domande, sino all’ultimo sorso. Un circolo vizioso: dipendevo disperatamente da quella stessa materia oscura che alimentava e fomentava il mostro in cui mi ero trasformato.
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078 - Nell’armadio custodivo il regalo che i miei mi fecero per festeggiare il passaggio dalla terza media alla prima superiore. In un primo tempo doveva essere un viaggio a Torino per assistere ad una gara casalinga della Juventus, una delle più grandi passioni che mio padre è riuscito a trasmettermi, e da cui sto riuscendo comunque, faticosamente, a disintossicarmi. Si trattava di un pezzo di legno poco pregiato, con 6 fili metallici montati sopra, che si poteva collegare ad una specie di amplificatore in miniatura, dal quale uscivano suoni più o meno gradevoli. Assieme allo strumento, scelto nella più totale, cieca e profonda inconsapevolezza, esclusivamente in base alla forma, al colore e, non ultimo, al prezzo, il rivenditore allegò anche un manuale per principianti assoluti. Non so che cosa intendesse con questo termine l’autore del volumetto in questione; sicuramente, in una scala da 0 a 10, occupavo senza dubbio il gradino più basso, considerando che le mie uniche competenze pratiche in ambito musicale si riducevano ad un’esperienza triennale con il flauto dolce. Era tutto troppo difficile: le dita non ne volevano sapere di mettersi in quelle posizioni strane, e poi, dopo pochi minuti di esercizi, mi facevano subito male i polpastrelli, troppo morbidi e poco allenati per quell’attività. Non sopportavo, aspetto ancora più importante, di dover trascorrere delle ore ad imparare a memoria i vari giri, mi sembrava inutile, uno spreco di tempo. Stavo tuttavia trascurando un dettaglio capitale. Fu G. a svelarmi il segreto, dopo diversi mesi passati a commettere lo stesso terribile errore, con la candida naturalezza di un bambino che si trova nell’inedito ruolo di dover spiegare un fatto ovvio ad un adulto: tutti sanno che gli accordi, nelle tablature, sono riportati in verso opposto; la prima linea sul foglio dunque corrisponde in realtà alla corda posizionata più in basso. E’ una cosa che sanno tutti, ad eccezione di quelli che non lo sanno.
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079 - G. mi invitò a casa sua per vedere e sentire la sua nuova chitarra, provarla risultava ovviamente impossibile: capii immediatamente che la sua preparazione e il suo livello di abilità erano esponenzialmente più alti del mio; non che ci volesse molto, a dirla tutta. Puntavo tutto sull’ultima carta a mia disposizione, quella dei bicordi, ma la definitiva resa era ormai prossima. Lo presi come un gioco: M. aveva imparato da suo cugino a suonare la batteria, D. se la cavava con le tastiere. Nella sala in cui andavamo due volte al mese, mettevano a disposizione, compresa nel prezzo, tutta la strumentazione, incluso un basso, pesante e scomodo, che capitava spesso nelle mie mani. Tentavo di suonarlo, a posteriori posso dire che forse mi sarebbe piaciuto realmente riuscirci, incattivendomi prevalentemente sulla corda più grossa, senza nessun tipo di criterio e dunque, di risultato apprezzabile. Le bolle che comparivano puntualmente sui polpastrelli mi invitavano comunque, in maniera decisa, a lasciar perdere. Potevo soltanto concentrare le mie attenzioni sul microfono, nonostante avessi, da sempre, notevoli problemi con le intonazioni e le varie modulazioni della voce. Passavo il tempo a sbraitare assurdità contro la figlia della nostra professoressa di lettere, almeno fino a quando non diventavo afono.
Nel nostro repertorio, se così si può definire, inserivamo alcuni brani di gruppi decisamente più pesanti di Queen e simili, i quali erano comunque improponibili per il sottoscritto a causa dei succitati limiti tecnici. Questa scelta mi sollevava da un impiccio: si trattava dell’unico genere per il quale non serviva saper ‘realmente‘ cantare.
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080 - La gola saltava letteralmente in aria, faceva malissimo, sembrava quasi che qualcuno mi stesse strappando le corde vocali con un rastrello. Lentamente però capivo come gestire lo sforzo e, ostinatamente, andavo avanti, incoraggiato da quei piccolissimi progressi. Con il tempo, iniziai a sentire una fitta acutissima alla bocca dello stomaco; il dolore mi costringeva a piegarmi letteralmente in due. A mia insaputa, stavo imparando ad usare il diaframma toracico, un argomento che, in futuro, avrebbe riscosso notevole successo tra tutti i giovani urlatori della città. Molte band, anche tra le più famose, si sono formate tra i banchi di scuole ed università. Il nostro esperimento durò pochissimi mesi: a D. non interessava trascorrere il tempo libero in quel modo, preferiva di gran lunga il calcio; M. invece voleva invece concentrarsi su altri stili: ha coltivato bene le sue capacità vocali, attualmente fa parte, già da diversi anni, di un rispettatissimo gruppo reggae. Prima di allontanarsi, a causa di diversi fattori, M. lasciò cadere un semino basilare per il proseguo degli eventi: fu lui a presentarmi B., suo cugino, che mi colpì subito per i modi pacati ed estremamente gentili. Viaggiamo spesso assieme in treno, e capitava di discutere di musica, sebbene i nostri gusti fossero all’epoca sostanzialmente distanti.
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081 - Io invece, iniziai a giocare con i riff di G. Spendevamo diversi pomeriggi della settimana nella sua soffitta: mi limitavo ad ascoltare i pezzi, non avendo la possibilità di intervenire in nessun modo. Suggerivo giusto alcune variazioni, esprimevo la mia opinione, cercando di mettere in gioco la fantasia, l’unico attrezzo che padroneggiavo in maniera sufficientemente adeguata. Dalla seconda media in poi, con l’arrivo del primo impianto hi-fi, avevo preso l’abitudine di studiare con la musica in sottofondo: riuscivo a concentrarmi meglio, facendomi trasportare dal ritmo, e di conseguenza la fatica mi sembrava decisamente minore. I vantaggi più significativi però li avevo in fase di elaborazione: si trattava unicamente di sintonizzarsi con gli umori del brano, il quale influenzava spontaneamente il processo creativo e lo arricchiva, al pari di un miracoloso fertilizzante. Capitava dunque di scrivere qualcosa su quella cascata di note distorte, ma raramente le facevo leggere a qualcuno. Entrambi sognavamo di incontrare altre persone con cui formare un gruppo, e se uno sogna con la giusta convinzione e agisce di conseguenza, presto o tardi i progetti si concretizzano.
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082 - Vivevo per collezionare materiale nuovo, non bastava mai: scambiavo le musicassette con chi mi capitava a tiro, ma alcuni lavori risultavano praticamente irreperibili. Chi critica l’Mp3 per la sua qualità audio scadente, probabilmente non sa cosa significa innamorarsi di un nastro rovinato: spesso il fruscio era così eccessivo che alcune melodie potevi soltanto intuirle, sognarle; quelle canzoni ti piacevano comunque così tanto che l’orecchio era costretto ad arrendersi alla necessità. Il supplizio finiva quando capitava di trovare una sorgente migliore, magari abbandonata mestamente sugli scaffali della camera da letto di qualcuno incontrato per caso. La rete dei miei contatti si sviluppava fondamentalmente seguendo questa dinamica: ho conosciuto diverse persone, molte di loro non hanno praticamente lasciato traccia; altri, pochi per la verità, un segno indelebile. M. aveva un vero e proprio baule, pieno zeppo, fino a scoppiare, di audiocassette, piratate, ma dalla qualità eccellente: si riforniva da C., un professionista nel campo che piazzava il suo banchetto al mercatino domenicale delle pulci, conosciutissimo proprio per la sua ricca proposta. C’erano custodie vuote dappertutto: sul letto, sulla scrivania, in bilico sui mobili. Sul pavimento, un vecchio mangianastri analogico, perennemente in funzione. La mamma cercava di mettere la museruola a tutto quel gioioso disordine, regalandoci più di un siparietto esilarante, ma si trattava di un’impresa disperata.
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083 - Si dimostrò immediatamente una bellissima persona: disponibile, corretto, semplice, altruista, sincero.
Studiava il violino, ma aveva a disposizione anche un pianoforte, oltre ad una chitarra elettrica di un verdolino insolito. Con G. si intendeva alla perfezione, sia per quanto riguarda i gusti musicali che sul piano tecnico. M. soffriva solo di un piccolissimo difetto: quando si sbronzava, perdeva totalmente il controllo trasformandosi in un’altra persona, e incominciava a delirare in francese, la sua lingua madre. Guardandoci con aria folle, accentuata dai lunghi capelli neri che gli cascavano ai lati del viso, ripeteva ossessivamente che ci avrebbe ammazzati tutti, un giorno o l’altro. La prima notte che io e G. passammo da lui, fummo costretti a chiudere a chiave la porta della stanza dove dormivamo. Capimmo ben presto che era innocuo: dovevamo semplicemente evitare che si facesse troppo del male, perchè aveva la tendenza a dimenarsi violentemente sul pavimento, o a prendersela, in alternativa, con porte e muri.
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084 - Viaggiavamo a due velocità diverse, e in più di un’occasione ho avuto la netta sensazione che lui stesso fosse vittima della sua creatività ipercinetica. Nella memoria del pc conservava decine di files: sovra incisioni varie di chitarra, pianoforte, violino, rumori assortiti, campionamenti; tutti registrati e mixati con buon gusto ed estrema cura. Ero probabilmente l’unico utente per quelle produzioni, una cosa che mi rendeva orgoglioso, ma anche il testimone solitario dei suoi cambi repentini di umore: quello che in un primo momento reputava sufficientemente valido, si trasformava nel giro di poche ore, con mio grandissimo stupore, in materiale obsoleto, inutile. A nulla servivano i complimenti più sinceri; era un campione assoluto nel voltare pagina, e in quei casi non c’era nulla che potesse fargli cambiare idea. Ascoltava musica con singolare voracità: a differenza del sottoscritto, si affezionava di rado ad un genere particolare, o ad uno stile. E’ anche e soprattutto grazie a lui se sono riuscito nell’impresa di allontanarmi, progressivamente, da quell’oceano musicale monocolore in cui navigavo, anche se devo ammettere che ci sono voluti anni per dare un minimo di ordine al bombardamento a cui mi sottopose. Si comportava come una guida inspiegabilmente frettolosa: immaginate di visitare un museo in cinque minuti netti, e avrete un’idea abbastanza precisa della faccenda. Fu lui che mi fece apprezzare la ferocia positiva dell’hard core, ma dopo poche settimane, stava già accompagnando i nostri frequenti pellegrinaggi alcolici con lo stoner dei Kyuss. Inutile stargli dietro. – Senti quanti suoni infila dentro questo qui -, diceva a proposito di ‘Bone Machine’ di Tom Waits. Ci mettevo un bel po’, e che fatica, a prendere confidenza con tutte quelle novità, ma quando finalmente ciò accadeva, seppur in maniera approssimativa, era già volato via lontano, metaforicamente si intende, a Bristol per la precisione, fluttuando nella malinconia del trip-hop dei Portishead. Connettermi con le strutture tipiche dell’elettronica non fu affatto semplice, un processo lento e graduale, ma nel frattempo M. si era già abbondantemente rotto le palle un po’ di tutto, approdando alla ‘world music’. Fu in quel preciso momento che sventolai bandiera bianca: avevo bisogno di un pizzico di calma, mi sentivo leggermente confuso; lo lasciai fuggire, come uno sbirro troppo grasso che all’improvviso si rende conto che non acciufferà mai un ladro più giovane, atletico e veloce.
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085 - In principio ci dedicammo al death-metal ultra melodico di stampo svedese: G. e M. avevano composto in breve tempo alcuni pezzi, articolatissimi. Registravano le loro parti, come al solito, nel vecchio computer di M., ma una sera qualcosa andò storto e il lavoro di quei lunghi mesi svanì nel nulla, cancellato per sempre. Avevo scritto diverse righe, aspettando pazientemente il mio turno, ma risultò inutile. L’inizio fu simile ad una scommessa: nel mio istituto annualmente organizzavano un’assemblea musicale, un evento rivolto principalmente ai gruppi emergenti composti da studenti, ma il livello medio delle proposte era decisamente discreto.
Trovammo, più per disperazione che per reale affinità, un bassista, A., un ragazzo più grande di noi di un anno, che aveva incominciato ad interessarsi, chissà perchè, alle 4 corde da pochissimo tempo. S., un mio compagno di classe fissato con il rap, divideva le parti vocali con me; aveva un amico, M., che se la cavava discretamente con la batteria: ingaggiammo entrambi, e nel giro di poche settimane scrivemmo i primi due brani, abbastanza semplici, sfruttando al massimo le intuizioni dei due chitarristi.
Ci mancava soltanto il nome.
Un pomeriggio, mentre ci dirigevamo verso la sala prove, ricavata in un vecchio bunker risalente alla seconda guerra mondiale incastonato dentro ad una collina rocciosa, con G. e gli altri ironizzavamo sulla moda bizzarra, tipica dei gruppi metal più estremi, di pescare a piene mani, per i titoli delle canzoni, le liriche e quant’altro, dalla medicina e in particolare dall’universo della patologia.
In preda all’idiozia più assoluta, scegliemmo il cognome di uno psichiatra tedesco, famoso per le sue ricerche su una delle forme più comuni di demenza degenerativa.
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086 - 20 marzo 1999: una data che probabilmente non scorderò mai.
Ho riflettuto a lungo sulle emozioni provate quel pomeriggio, tanto da costruirci sopra, in seguito, un testo.
Un’energia nuova, di eccezionale e spaventosa intensità, mi attraversò completamente il corpo; non sapevo di cosa si trattasse: una scossa violenta ma, allo stesso tempo, dolce ed estremamente piacevole. La tensione mi dilaniava lo stomaco, il cuore batteva all’impazzata, le gambe tremavano, così come le mani. Non c’era posto, in quel marasma, per l’ordine logico e razionale dei pensieri; la mente era finalmente libera di vagare in una dimensione inesplorata.
Il mio compito era semplice: non dovevo far altro che gridare, con quanto fiato avessi in corpo, delle semplici parole, che magicamente si portavano appresso, indissolubilmente, tutte le frustrazioni, le paure, le ossessioni collezionate meticolosamente in quel periodo.
La primissima esibizione dal vivo, in pubblico, durò a malapena 10 minuti, giusto il tempo di suonare due pezzi: ‘Stranger in a strange land’ e ‘Room 48’.
Una singola goccia di quel veleno, caduta accidentalmente sulla punta della lingua, fu sufficiente per influenzare sensibilmente i successivi quindici anni: una delle più deliziose torture a cui sia mai stato sottoposto.
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087 - Familiarizzai immediatamente con quel fenomeno diabolico; il processo si divideva sostanzialmente in due parti: nella prima, riversavo su di un foglio bianco le mie inquietudini; nel secondo, attraverso le urla e il conseguente coinvolgimento fisico, rievocavo quei demoni, andavo a prenderli ad uno ad uno, sfidando le ombre del mio inconscio, per poi vomitarli, materia nera e densa, all’esterno.
In origine scelsi la lingua inglese, anche se non la padroneggiavo molto bene: mi sembrava il modo migliore per evitare di mettermi totalmente a nudo di fronte agli altri, cosa che non riuscivo nemmeno a concepire.
Mi resi presto conto però che l’italiano poteva risultare, in fondo si trattava di una mera questione tecnica, altrettanto ermetico e, aspetto da non sottovalutare, custodiva una musicalità eccezionale, anche associata ad un genere particolarmente brutale come il nostro.
Mi sentivo come se riuscissi a svuotare letteralmente la mia scatola cranica; mi ripulivo in maniera incredibilmente efficace delle tensioni nervose negative, una seduta di psicoterapia fai da te.
Divenne rapidamente un’esigenza, una priorità a livello fisiologico, una componente essenziale per il mio equilibrio interiore.
Il buon senso mi suggerisce di non avventurarmi in paralleli azzardati, ma sono intimamente convinto di essermi avvicinato, con tutti i limiti del caso, in maniera diretta, a quella che sui libri viene definita ‘esperienza catartica’.
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088 - Bisognava soltanto trovare l’assetto definitivo, una formazione stabile: nei corridoi della scuola ci imbattemmo in uno spilungone, D., un batterista che si dimostrò interessato alle nostre cose; M. invece entrò in contatto con O., che sostituì A. al basso: il quadro era completo, ma alcuni contrattempi complicarono i nostri piani.
Quello stesso anno D. si ritirò dagli studi, e fu costretto a sospendere con la musica.
Durante l’estate, anche M. decise di abbandonare il gruppo: a niente servirono le mie preghiere, si dimostrò irremovibile, come sempre.
Fu come se di colpo mi avessero proibito di respirare, mi mancavano terribilmente anche solo le prove: si trattava del momento più atteso della settimana, ne avevo bisogno, in maniera disperata, non riuscivo a pensare ad altro, mi sentivo irrimediabilmente incompleto, sofferente; un malessere difficilmente comunicabile, se non a qualcuno che viaggia sulla tua stessa lunghezza d’onda.
Ricordo ancora, nei particolari, quel momento: attribuisco a quel gesto un valore immenso, sia per la spontaneità con cui nacque, e sia per l’importanza che ebbe all’epoca.
Parlavo con B., durante la ricreazione, in una giornata assolata: aveva appena messo in piedi un progetto con C., B. e C., gli stessi con cui ancora oggi lotta con passione ed ostinazione.
– Perchè non vieni a cantare assieme a noi?
Schietto e semplice, come sempre; e sincero. Aveva capito la mia situazione, mi tendeva la mano, come un amico vero.
Accettai volentieri, e suonai con loro per qualche mese.
Con l’inizio del nuovo anno scolastico, D. sistemò le sue faccende, e tornai così ad occuparmi esclusivamente della nostra piccola creatura.
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089 - Il nome scelto non ci convinceva appieno, tant’è che ad un’assemblea musicale ci presentammo come ‘Don’t open before‘, prendendo spunto dall’avviso stampato sugli adesivi appiccicati alle porte dei treni; non una grandissima idea, a dirla tutta.
Prima di noi si esibiva B. che con alcuni amici strimpellava alcune cover: pensò bene di annunciarci utilizzando il solito moniker, non poteva certo conoscere le nostre intenzioni; lo prendemmo come un segno del destino, abbandonando definitivamente ogni sorta di dubbio in proposito.
Con il passare del tempo, capii che a livello concettuale poteva favorire diversi spunti interessanti, che ben si accordavano con le atmosfere cupe delle melodie: solo la morte, forse, è più terribile per un uomo, della perdita totale di tutti i ricordi legati alla propria vita.
Gli eventi legittimarono l’intervento inconsapevole di B: d’altronde non aveva fatto altro che esprimere la legittima opinione su una questione fondamentale che riguardava il suo futuro gruppo.
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090 - La mia personalissima cura dava i suoi frutti in maniera evidente e più rapidamente del previsto: fu il buon vecchio C. ad accorgersi per primo, me lo raccontò lui stesso, che qualcosa stava cambiando, notando perspicacemente che mi aggiravo per la scuola con addosso una felpa di un azzurrino atipico, almeno per i miei standard, considerando che il mio guardaroba era monopolizzato da un esercito di maglie nere.
Iniziai a sbarazzarmi, per quanto potevo, di quell’inutile fardello di tristezza e angoscia ostentata, sebbene sia sempre più convinto che comunque una buona dose di malinconia sia fatalmente radicata tra le mie caratteristiche più profonde.
Il dj, per l’ennesima volta, si adeguò a quel mutamento: allargai, ancora oggi la considero una vera e propria fortuna, la gamma dei miei ascolti, iniziando a medicare le mie orecchie con suoni decisamente più gentili, alternandoli a quelle frequenze ossessive che per anni avevano fatto da sottofondo ad ogni momento delle mie giornate.
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091 - Non so bene quale sia il criterio con cui si distinguono gli eventi veramente importanti dalla molteplicità informe rappresentata dagli episodi poveri di significato che soffocano il quotidiano.
Per quanto banale possa essere, se paragonata alle migliaia di tragedie che costellano la Storia, anche una tracklist può avere il suo peso specifico nell’economia relativamente semplice di una vita.
Clima morfosi \ Illusione e delusione \ Come me \ Mastice \ Acre sapore di \ Condannato al contatto \ Sipario \ 2 febbraio ’95 \ E-10 \ Ormai non ho più niente da darvi
Ascoltai quei brani decine di volte: rappresentarono per me una vera e propria rivoluzione, non solo sul piano musicale, ma soprattutto ad un livello più intimo.
Condividevo ogni singola parola di quei testi: fotografavano alla perfezione la mia condizione; riflessioni semplici e sofferte, vivide, affrancate però da quella negatività gratuita da cui cercavo di prendere le distanze.
Una diversa chiave di lettura, che mi aiutò a focalizzare, meglio di qualsiasi altro discorso o lezione, i miei problemi e contemporaneamente le dinamiche sociali in cui ero immerso: si parlava ancora di solitudine, ma non di misantropia; la rabbia trovava percorsi nuovi, significati diversi, rispetto al passato.
Non sparavo più sulla massa, indistintamente; mi veniva più semplice individuare il bersaglio.
La dimostrazione tangibile che l’arte, in tutte le sue forme, ha il potere, tra gli altri, di modificare le nostre convinzioni con energica semplicità.
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092 - Cercavo ‘Così distante’, il secondo album dei Sottopressione, senza successo.
Salito sul treno, trovai un posto di fronte a B., che quel giorno viaggiava assieme ad una persona che conoscevo soltanto di vista: occhialoni con una grossa montatura nera e grugno da pitt-bull incazzoso.
– Lui può aiutarti, ha il disco che volevi -, disse B. prima ancora di presentarci.
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093 - Il copione era sempre lo stesso: aspettavo Mauro in stazione, manco si trattasse della ragazza più bella della zona, per scambiarci delle grosse buste piene di compact disc; ognuno poi andava verso il proprio istituto, soddisfatto del bottino.
Gli parlai degli A., e alcuni giorni dopo venne a curiosare: rimase piacevolmente colpito dallo stile di D., e dai giri di chitarra di G.
La nostra collaborazione nacque con immediata spontaneità: preparammo un intro, combinando le voci, per i tre pezzi con cui ci presentavamo, senza grosse pretese, ad un noto concorso per band emergenti. Venne a cantare per la serata finale, ma anziché limitarsi alla prima canzone, come programmato, rimase sul palco sino alla fine, una decisione presa al momento, improvvisando le sue parti.
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094 - Probabilmente dipende dalla grande quantità di tempo che trascorri assieme a quelle persone; più romanticamente, direi che un ruolo fondamentale lo giocano il sudore, le emozioni e le storie che condividi.
Diventarono, non esagero, la mia seconda famiglia, per molti aspetti nettamente più importante rispetto a quella naturale.
Il centro dell’universo, un regalo preziosissimo, i fratelli che non ho mai avuto.
Se me lo avessero chiesto, sarei stato prontissimo, senza esitare neppure un istante, ad abbandonare tutto, affetti compresi, anche per andare all’inferno, assieme a loro.
Non c’era nulla che potesse reggere il confronto, nonostante in quel periodo mi fossi appena imbattuto in un’oasi di bellezza così meravigliosa e pura, che per apprezzarla a sufficienza non basterebbero altre mille vite.
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095 - Trasferire i propri pensieri sopra un foglio bianco è affascinante; scrivere un testo assieme ad un’altra persona va oltre, è quasi indescrivibile: la carta diventa un testimone silenzioso, capace di regalare l’eternità alle timorose e reciproche confessioni di due sconosciuti, che ben presto diventano, volenti o nolenti, l’uno parte dell’altro, segmenti che si intersecano, frammenti che si completano.
Per più di dieci anni, Mauro mi è stato affianco: in primis, necessariamente, mentre cantavamo, e poi, una conseguenza non scontata, in moltissime altre circostanze, tappe fondamentali di questo incerto cammino.
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096 - Gran parte delle persone che conosco e che tutt’ora ancora stimo, le ho incontrate grazie alle attività legate alla musica: con Cristian i primi tempi non correva buon sangue, o meglio, entrambi eravamo assolutamente convinti che tra di noi ci fosse una vastità di antipatia reciproca a dividerci; una situazione di stallo per cui sembrava non esistesse soluzione.
In sostanza, lui era esattamente quello che non riuscivo ad essere: sicuro di se stesso, spavaldo, forte, determinato.
Io ero condizionato dal peso della mia timidezza e delle mie insicurezze croniche, esibirmi di fronte a qualcuno non risultava per nulla facile, anzi, dovevo puntualmente intraprendere una sanguinosa lotta interiore.
Cristian al contrario sembrava nato per calamitare a se e reggere con sfrontata disinvoltura tutti gli sguardi: un animale da palco, si dice in questi casi.
Due mondi opposti che, in teoria, non si sarebbero mai dovuti incontrare.
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097 - Un vero e proprio viaggio, impossibile da dimenticare, soprattutto per quanto mi ha lasciato in cambio: un’esperienza che tutt’oggi influisce sulle mie analisi e le conseguenti decisioni.
Ho sempre scritto, e cantato, in primo luogo per me stesso: un’ottima premessa per iniziare a liberarsi da quella zavorra rappresentata dal giudizio degli altri.
La gradevolezza tipica dei complimenti non mi ha mai ammaliato, come se dentro di me scattasse un meccanismo automatico, come se il fisico secernesse degli anticorpi finalizzati a cancellare sul nascere il virus del compiacimento.
Ritenevo impossibile che il grezzo prodotto della mia creatività potesse realmente coinvolgere qualcun altro; in alcuni casi mi sono dovuto impegnare per non risultare scortese di fronte a manifestazioni di entusiasmo che mi apparivano spropositate, a cui non riuscivo proprio a credere, mettendo antipaticamente quasi in discussione la buona fede del mio interlocutore.
Preferisco, da sempre, le critiche, soprattutto se costruttive: le considero lo stimolo più genuino per continuare a migliorarsi.
Questo atteggiamento, l’eccesso di umiltà può diventare un problema al pari, o addirittura peggio, della superbia straripante, ha provocato talvolta alcuni contrasti con gli altri componenti del gruppo: non ne faccio una questione di orgoglio, sono fiero e morbosamente affezionato ad ogni singola parola che è finita all’interno di un brano, quanto di atteggiamento: probabilmente sarei un pessimo venditore, poiché tendo a svalutare la mia offerta, a sminuirne il valore; non è il massimo, me ne rendo conto, soprattutto in un mondo in cui anche lo sterco trova un posto in vetrina e solo per questo viene ceduto a prezzo d’oro.
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098 - Bastava semplicemente chiudere gli occhi, e immediatamente avevo a disposizione, in esclusiva, uno schermo dove riprodurre ricordi e fantasie, dettate dal flusso della musica. Altre volte, invece, giocavo a perdermi nei dettagli degli oggetti che mi circondavano: le assi in legno di un palco, la luce intensa di una lampadina. In quei momenti, gli altri non esistevano: le uniche cose che avevano un senso erano la mia voce, il mio respiro, le varie scariche di dolore e adrenalina che dal centro del mio stomaco deflagravano dentro ai bulbi oculari. La quantità di gente presente di fronte a me non ha mai rivestito nessuna importanza; contava il tipo di atmosfera che si veniva a creare e, egoisticamente, le emozioni che io in primis riuscivo a provare e forse, chissà, a trasmettere. Non lo consideravo uno di quelli spettacoli in cui c’è una netta divisione tra artista e spettatore, ma più una sorta di rito collettivo in cui ciascuno mette in compartecipazione con gli altri le proprie energie. È abbastanza normale tentare di migliorare, come è normale essere soddisfatti se si riesce a coinvolgere un numero sempre maggiore di persone, ma sono tutt’ora convinto che un singolo individuo che assiste interessato alla tua proposta sia degno della stessa considerazione che si concede, forse più facilmente, ad un gregge delirante di fans.
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099 - Come i vari tasselli compongono un mosaico, così i componenti delle varie band danno vita ad una scena, ad un movimento, accomunati da interessi in comune e dal rispetto reciproco che frequentemente si trasforma in affetto. Per me si trattava di una novità a dir poco meravigliosa: ci si aiutava a vicenda, anche senza conoscersi a fondo; una disponibilità disinteressata che prima di allora ritenevo impossibile. Capitava che qualcuno ti prestasse la sua strumentazione in cambio di un semplice grazie, o che qualcun altro mettesse a disposizione la propria macchina per trasportare pesanti ed ingombranti amplificatori in giro per la regione. Le generazioni più vecchie sono sempre irrimediabilmente troppo critiche nei confronti delle nuove, ma è un triste dato di fatto che certi gesti risultino definitivamente estinti: pratiche obsolete, buone solo per le chiacchiere dei nostalgici. – Prova a spiegare a qualche ragazzo più giovane di te di dieci anni cosa significhi scambiare il tuo disco con quello di un amico: secondo me non lo capiranno mai. È quanto ho detto ad A., mentre lo abbracciavo, prima di ricevere una copia di ‘Finisterrae‘: quel pezzo di plastica è una delle più belle conferme sul fatto che ciò in cui ho creduto non è stata soltanto un’illusione collettiva, ma una pagina bella quanto reale.
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100 - Pensavo si trattasse di uno scherzo, uno dei tanti, l’ennesimo, a cui ci aveva abituato. Sul viso un’espressione quasi estasiata, gli occhi spalancati a fissare chissà cosa nel muro alla nostra destra. Quando cadde pesantemente in ginocchio, ero convinto stesse imitando gli atteggiamenti di chi assiste all’apparizione di qualche entità sovrannaturale: dalla bocca gli usciva un suono basso, intermittente, poi si accasciò vicino a me, facendo cadere pesantemente il microfono in terra, in preda alle convulsioni. L’aria della piccola stanza in cui provavamo divenne di colpo gelata. Ci mise diversi minuti per riprendersi del tutto; il suo spavento si sommava al nostro, marchiando a fuoco quegli attimi. Da quel giorno, ho incominciato a riflettere sul ruolo del caso: siamo nel bel mezzo di una guerra, un cecchino, dal suo nascondiglio, prende la mira, spara ma ti manca per un soffio, colpendo qualcun altro. Si è trattato di un errore? Perchè non me? Perchè non me?
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101 - Tensione e agitazione furono due clienti difficili da tenere a bada. Entrai, per pura coincidenza, in una stanza della chat di Tiscali riservata, così pareva, ai neurologi. Trovai anche qualcuno che mi aiutò a capire meglio cosa fosse successo, facendomi delle domande dettagliatissime sulla dinamica dell’accaduto. Usò parole garbate, appropriate; cercò di infondermi un po’ di coraggio, ma alcuni aspetti non lo convincevano del tutto, e non lo nascose. Ci sentimmo in seguito, mi aveva chiesto di aggiornarlo sugli esiti degli accertamenti, e cosi feci: non so minimamente con chi ho avuto a che fare, ma si sforzò di regalarmi un briciolo di speranza, paragonandola ad un fuoco acceso dentro ad un camino che soprattutto in questi casi siamo chiamati a mantenere vivo.
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102 - Il problema era molto più grave di quanto si temesse. Fu Mauro a parlarmene, trattenendo a stento il terrore: — Ho 22 anni, non sono finito — mi disse parafrasando un pezzo dei Sottopressione.
Ci sono tantissime cose che a scuola solitamente nessuno ti insegna e che devi sforzarti di apprendere seguendo altre strade: una di queste è il modo in cui ci si comporta quando il tuo migliore amico ha una pallina di merda conficcata nella polpa del cervello.
Cercammo di sdrammatizzare, andando a farci un giro in un grosso centro commerciale: passammo la serata a misurarci giacche e giubbotti giganteschi, le risate non furono tantissime, ma le immagini che apparivano sugli specchi ci strapparono, di tanto in tanto, qualche sorriso stentato.
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103 - Decise di continuare ad esibirsi dal vivo e, nel limite del possibile, con le prove, nonostante lo sforzo gli procurasse, puntualmente, delle crisi che con il passare dei giorni risultavano sempre più violente. L’amore per la musica: era questo che lo spingeva, ne sono sicuro, ad esporsi in maniera così plateale nel momento di maggior fragilità, come una preda indifesa. Si recò a Verona, da uno dei massimi specialisti in quel campo. Arrivammo in città la sera prima dell’intervento, senza dirgli nulla: io lo conoscevo tutto sommato da pochi anni, con S. invece erano amici sin dall’adolescenza, ma si trattava di un gesto che mi sentivo assolutamente in dovere di fare, il minimo.
Lo chiamammo da un telefono pubblico, poiché l’orario delle visite pomeridiane era ormai già passato, ma non riuscivamo a convincerlo del fatto che fossimo davvero a pochi chilometri da lui. Fermammo un passante, un giovane ragazzo decisamente disponibile per gli standard del luogo, e gli passammo la cornetta.
– Un nostro amico è ricoverato all’ospedale di Borgo Trento, fagli capire che siamo in città. L’accento, inconfondibile, fu una prova sufficiente: non potevamo vederlo, ma Mauro ci confessò, con un pizzico di imbarazzo, che dai suoi occhi stava incominciando ad uscire qualche lacrima.
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104 - La riabilitazione fu difficile, ma Mauro si riprese tutto sommato abbastanza in fretta. Nonostante non fosse al massimo della forma, trascinato dalla sua solita ostinazione, salì sul palco del Meeting di Ruinas. Suonammo per primi, alle 18 di un pomeriggio foderato insopportabilmente da un doppio strato di afa soffocante e appiccicosa: non erano sicuramente le condizioni ottimali per lui, ma fortunatamente andò tutto per il verso giusto. Si trattò, in sostanza, del primo live della sua nuova vita, e la cicatrice che brillava sulla testa rasata a pelle raccontava la storia di un guerriero ritornato vittorioso da una delle battaglie più dure di sempre. Il destino spesso si rivela un romanziere cinico e beffardo: nasconde i suoi significati più profondi tra lo scorrere impetuoso degli eventi, per poi farli affiorare, all’improvviso, violentemente. – Bisogna avere le spalle larghe, e mantenere la testa ben alta quando si affrontano certe prove – mi rispose Cristian, dopo essersi sincerato sulle condizioni di salute di Mauro, pochi minuti dopo la fine della nostra esibizione. Per la prima volta ci rivolgevamo davvero la parola, al centro di una piazza che con il tempo sarebbe diventata il teatro per innumerevoli altre storie: nessuno dei due poteva anche solo immaginare cosa sarebbe accaduto in seguito.
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105 - E’ come se qualcosa dentro te iniziasse a marcire, anche se in un primo momento non lo accetti; ti affanni disperatamente per rimanere a galla, facendo più di quanto in realtà saresti in grado: lotti disperatamente, quasi fossi immerso, all’improvviso, dentro alle sabbie mobili.
Sulla superficie del muro appaiono le prime crepe, poi inizia a sgretolarsi: un processo lento, ma costante e irreversibile.
Avere a che fare assiduamente con altri cinque individui implica automaticamente assorbire la totalità dei loro problemi irrisolti, che si ripercuotono non solo sul progetto in comune ma sulla tua stessa vita.
Se il batterista fa un lavoro ad orari impossibili, anche tu devi fare i conti con i suoi vincoli.
Se il chitarrista ha una ragazza che spacca le palle, anche tu devi sorbirti, di riflesso, una buona dose di quelle tensioni.
Per quanto mi riguarda, ho sempre dato tutto me stesso, mettendo da parte, senza esitazioni, il resto: studio, lavoro, interessi vari; una lista infinita di aspetti che ho sempre ritenuto secondari.
Ognuno fa quel che può, si dice spesso, ma un gruppo musicale è un essere vivente che succhia energie a ciascuna delle parti che lo compongono.
Se qualcuna viene a mancare, o non può fornire quanto gli viene chiesto, il peso si ripercuote inevitabilmente sugli altri, che si trovano davanti ad una semplicissima decisione: far morire la creatura, o sacrificarsi per farla respirare ancora.
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106 - Ci sono situazioni che risultano incomprensibili, anche a distanza di tempo: mi sono sempre domandato con che coraggio si possa venir meno ad un impegno preso, ad una parola data, con la stessa semplicità con cui si spegne la luce nella propria stanza, la notte, prima di addormentarsi.
La nostra scatola cranica è un frullatore, un buco nerissimo, affollato di grilli e fantasmi; razionalità e buon senso spesso non bastano per illuminare il nostro cammino, ma siamo bravissimi a giustificare in ogni modo, con acrobazie dialettiche spericolate, le nostre azioni, comprese, ci mancherebbe, quelle più spudoratamente stupide.
Probabilmente è una questione di mancanza di rispetto, o forse si fa troppo affidamento, nella maniera peggiore, sul prossimo: egli, secondo una concezione decisamente distorta delle cose dev’essere sempre pronto e disponibile a coprire le eventuali falle; è il suo compito, per l’eternità, e verrà risarcito con una dose sempre più massiccia di delusioni.
Ho assistito, mio malgrado, alla sfilata delle scuse più patetiche; forse non ce n’era realmente bisogno, poichè capita a tutti di dover saltare una prova per cause di forza maggiore, costretti a dedicarsi ad un impegno improvviso o ad un impulso fisiologico impellente.
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107 - Avere a disposizione, in esclusiva, la casa, è una fortuna che, a differenza di molti altri, mi è capitata piuttosto raramente in passato.
Ricordo ancora quando i miei genitori partirono a Parigi per alcuni giorni: nella fantasia di un ragazzo si scatena un terremoto di possibilità divertentissime: si tratta soltanto di puntare sulla migliore.
Non esitai un attimo, e optai per una full immersion di due giorni, all’insegna della musica: nelle mie intenzioni avremmo potuto suonare senza interruzioni, la sala prove in quel periodo era situata in una cantina scarsamente insonorizzata, adiacente all’edificio principale in cui abito e, cosa ancora più preziosa, avrei ospitato M., risparmiandomi l’onore di riportarlo a casa sua dopo le prove, 60′ di viaggio tra andata e ritorno, un compito che mi veniva affidato in esclusiva, gli altri si trinceravano dietro ad improrogabili impegni che il giorno seguente avrebbero invaso le loro giornate, come se io al contrario passassi le mattine a raccogliere beatamente le margheritine nei campi.
La prima sera, i due chitarristi non si presentarono per motivi personali, così ripiegai per una cena con alcuni amici, condita da una buona sbronza.
Il giorno dopo, per recuperare, l’appuntamento fu fissato per le ore 10, poi slittò alle 17, quindi alle 19, infine saltò del tutto.
Sono sicuro che hanno spalmato il tempo tra le braccia profumate di qualche graziosa fanciulla: avrei potuto fare lo stesso, invece mi sono dovuto accontentare di affogare il pomeriggio guardando la videocassetta di un live degli Slayer assieme al mio batterista.
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108 - Tutti abbiamo altro a cui pensare, diverse faccende ben più importanti di un gruppo hard-core, ma quello che più mi colpisce e mi fa riflettere è che Mauro, nonostante avesse in testa il casino più grande, non si sia mai tirato indietro, nemmeno quando la salute veniva a mancare drammaticamente.
Non vorrei passare per un padre eccessivamente severo nei confronti dei suoi figli: è giusto comunque ammettere che, proporzionalmente alle fregature, i miei soci hanno saputo puntualmente offrire alla causa anche lampi di genio, intuizioni brillanti e fondamentali per la sopravvivenza della stessa.
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109 - Le difficoltà e le incomprensioni grattugiano l’entusiasmo. Ogni volta che cambiavamo batterista, eravamo costretti a ricominciare da zero: un’attività snervante, che si alternava ciclicamente con i problemi di Mauro, senza lasciarci tregua. D. scelse, dopo mesi di turbamenti e crisi isteriche, di trasferirsi a Parma per fare il panettiere; un brutto colpo, soprattutto a causa del forte rapporto di amicizia che si era creato tra me e lui. Ci piantò in asso, senza considerare minimamente che avevamo in programma, già da diverso tempo, alcune date, in particolare una assieme ad un gruppo di Bologna, invitato dal sottoscritto, che non potevo annullare; per quell’occasione ci diede una mano P., non smetterò mai di esprimergli la mia riconoscenza per questo, il quale però era occupatissimo e quindi non in grado di garantire una presenza costante.
Sul nostro cammino si materializzò M.: il primo periodo fu una favola, riuscimmo addirittura a registrare due dischi; purtroppo terminò sul più bello le residue riserve di professionalità e la convivenza si incrinò pericolosamente: l’acqua traboccò definitivamente dal vaso quando un pomeriggio non si presentò ad un concerto, per dispetto, perchè nessuno era stato in grado di spiegargli esattamente dove si trovasse il locale; pensò bene di tornare a casa, tenendo il cellulare spento.
Fu dunque il turno di B., che probabilmente si immaginava di approdare in una sorta di boy-band venerata da adolescenti eccitati: dopo ventiquattro mesi, si inventò una scusa e sparì nel nulla, senza lasciare traccia del suo passaggio.
D. è stato l’ultimo della lista: il suo contributo è risultato fondamentale per scrivere i capitoli conclusivi.
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110 - Non ricordo di preciso quando il freddo iniziò a spaccare definitivamente le ossa del nostro vincolo.
La lontananza è un fattore che non si può trascurare: O. decise di partire, prima in Friuli, e poi a Genova, per questioni personali.
Il nucleo riuscì comunque a sopravvivere, anche a quell’ennesima scossa: B. e S. ci davano una mano ogni qualvolta il bassista titolare era impossibilitato a raggiungerci, ma incontrarsi tutti assieme all’interno della stessa stanza diventava sempre più complicato; in passato la combinazione si verificava senza problemi anche due-tre volte alla settimana, la magia però si stava dissolvendo in maniera evidente: tra una prova e l’altra passavano perfino trenta giorni, un’eternità.
Lentamente me ne feci una ragione: l’accettazione, dicono, è il primo passo per superare gli eventi tristi; un’amante, in pratica tutti ne avevano una, risulta fondamentale per soddisfare le tue voglie represse e rendere meno amaro il distacco.
*
111 - Il gioco più bello con cui ho avuto la fortuna di divertirmi in vita mia: è così che definirei i S. Per me la musica è sempre stata una faccenda sporca, fangosa, pesante; la porta che si spalanca sull’inferno; niente sorrisi, niente battute spiritose tra un pezzo e l’altro.
B. è in assoluto tra le persone più dinamiche, intraprendenti, creativamente esplosive che mi sia mai capitato di frequentare; fu Mauro a presentarci, e l’occasione per conoscerci meglio capitò alcune settimane dopo, durante un’intervista che finì dritta nella sua fanzine.
Organizzammo diversi concerti assieme, poi decidemmo di mettere in piedi un discorso tutto nostro, sensibilmente diverso da quanto fatto sino ad allora.
Ho faticato parecchio per calarmi in quella dimensione: il punk hard-core ha sempre avuto i suoi codici e le sue tematiche di riferimento, ed io non ero altro che l’ultimo arrivato: cosa mai avrei potuto dire di nuovo, o meglio di particolare, rispetto a quanto era stato esposto, spesso in maniera magistrale, in più di 40 anni di storia?
Decisi di abbondare esageratamente con il grottesco, con l’ironia più stupida: ne avevo a disposizione quantità illimitate, intatte, mai utilizzate, lasciate ad ammuffire in qualche angolo della mia coscienza. Sono tante le cose che potrei raccontare: un’esperienza che mi ha lasciato in cambio mille aneddoti, e diecimila ricordi.
Ciò che davvero conta però, in questa sede, è che per la prima volta nel cantare provavo puro spasso, nel senso più pieno e avvolgente del termine.
*
112 - Successe di nuovo, per la terza volta: sintomi identici, l’ennesimo intervento.
– Nessuno può vivere questa prova al posto tuo – dissi a Mauro prima di salutarlo.
Sembrava animato dalla stessa forza e dalla grinta di sempre, ma per la prima volta vidi nei suoi occhi la paura di non farcela.
Quando ce lo rispedirono indietro, le complicazioni post-operatorie erano evidenti, soprattutto per le difficoltà che aveva nell’esprimersi con fluidità.
I mesi passavano con estrema lentezza, i miglioramenti tardavano ad arrivare, almeno rispetto al solito.
Una mattina di ottobre, S. mi diede la notizia che non avrei mai voluto sentire.
Mi sorpresi della reazione, esageratamente composta: gestivo senza sforzi un improvviso bruciore agli occhi, il battito del cuore era lievemente accelerato, ma nulla di più; mi appoggiai ad una panchina, per evitare di crollare clamorosamente, ed il respiro si fece più calmo.
In automatico, avevo imparato, mio malgrado, la lezione alla perfezione, partì in loop il solito, triste mantra:
– Non posso fare assolutamente nulla per modificare la situazione. Devo solo aspettare. Chiudermi a riccio. Condensare ogni grammo di forza che sono in grado di scovare nelle oscure periferie del mio corpo, e sperare che il dolore non mi mandi al tappeto.
*
113 - Posso soltanto immaginare cosa si provi ad avere una data di scadenza ben visibile appiccicata addosso, al pari di una scatola di biscotti abbandonata sullo scaffale di un discount.
Chissà che riflessioni, quanti pensieri investono l’uomo quando si appresta ad affrontare il rettilineo conclusivo della propria marcia.
Mauro mi mandò una mail, l’ultima che ho ricevuto da parte sua, poco prima che prendesse armi e bagagli e se ne andasse via. In allegato, due testi di rara bellezza.
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114 - …per coprirci gli occhi
Rit: Abbiamo solo le mani, per togliere quel velo di fumo che acceca non solo occhi altrui, ma che senso ha se poi le uso per coprirci gli occhi.
Via le mani dagli occhi, che c’è bisogno di bende e matricaria chamomilla per tamponarmi le ferite.
Nel mentre danzano i discorsi nella confusione catalogata di voci.
Utopie ed entusiasmi decapitano il dinamismo tra il sangue rappreso e poco ossigeno.
Tremito nel palpito per un alito di vita.
O cara pazienza, vorrei andarmene via in silenzio, ma mi manca l’audacia: ho il sospetto che il mio cuore mi salga per la gola.
Ecco perchè parlo stupidamente e nascondo il mio cuore dietro le parole.
Tratto crudelmente il mio dolore per paura che tu faccia lo stesso.
Lo sai?
Pesiamo il dolore e portando la mano sulla fronte (nel nome del padre), indosso la croce sulle spalle\schiena e cominciamo a camminare, si sentirà la mia collera che passa attraverso tutto finchè non trovi una parola nuova che non sia preghiera ma urlo.
*
115 - Lui Vive Sulla Linea Di Un Confine
Lui vive sulla linea di un confine.
Lui vive, o almeno credo, che il suo stato sia apparente.
Cosa c’è al di qua e al di là del confine?
Trincea di una città lontana da dove non arrivano notizie, mai.
Non c’è più traccia di nessuno: visi (avvenimenti come profughi in fuga da qualcosa).
La nebbia non si dirada mai e sempre più spesso è avvolgente.
Intimidito da spessore e consistenza del pulviscolo.
Vive nella certezza dell’incertezza e non si muove per paura che un’anaconda lo punisca con le proprie spira, e ti porti in una palude, cosicchè la morte avviene per stritolamento e per annegamento.
Ascolta le tue arterie, vene, nervi, e ogni fascicolazione, visibile o meno.
Forse un giorno aveva dei sentimenti, forse, di sicuro aveva una sacca dove teneva cose care.
L’aveva sempre in spalla, e nella tasca una foto di quand’era piccolo.
O forse è un altro bambino.
Vive, non sopravvive.
La solitudine lo consola perchè non ha speranze e attese.
Uno strapiombo senza storia.
Vive, non sopravvive.
Istantanea, come se fosse una filastrocca per bambini.
Questa è la sua continuità, sempre uguale, scivoli via scaltra ghignante richiamo all’orizzonte.
Lui vive sulla linea di un confine.
Lui vive o almeno credo che il suo stato sia apparente.
Cosa c’è al di qua e al di là del confine?
*
116 - Si è trattato di un dovere, una questione di principio: ho promesso a me stesso che avrei fatto l’impossibile per incidere quelle parole, per fare in modo che il tempo non le inghiottisse definitivamente, per salvarle dall’oblio, affinchè potessero diventare un rifugio, un appiglio saldo a cui aggrapparsi.
Ogni qualvolta l’angoscia sarà così tanta, saprò dove andare a cercare conforto.
Mi son preso il diritto di unire alcune frasi in un unico testo, scegliendo come titolo ‘Metafisica del ricordo’; ho messo a disposizione le mie corde vocali, aggiungendo nel finale una considerazione personale.
“Vieni a vedere, è l’ultimo tramonto, ma sembra che qualcosa debba ancora succedere.
Riusciremo davvero a sorridere di nuovo?
Dev’essere così bello dare la colpa al cielo”
*
117 - La scienza si arrendeva dopo tre tentativi, e ora, parallelamente alla chiesa, offriva una mano per archiviare la pratica nella maniera più discreta: non dovevamo fare altro che seguire il protocollo.
Mauro se n’è andato un venerdì pomeriggio di fine ottobre.
All’improvviso, un blocco della tua realtà sparisce nel nulla, lasciando uno spazio trasparente.
Dovremmo raccogliere in un quaderno le ricette che conosciamo, tramandate magari da nostri nonni, e che possono risultare utili per tenere a bada quantità così mastodontiche di disperazione.
Io usai le poche armi in mio possesso: cercavo di scagliare la mente oltre quella lastra di cielo inespressivo, affinchè potesse brillare con il resto dei corpi celesti.
I funerali hanno un senso se ciascun partecipante riesce a prendere un pezzo di quella sofferenza e a portarla via lontano, chiudendola ermeticamente dentro al proprio cuore.
Sapevo che ogni volto mi avrebbe raccontato mille vicende, riportandomi indietro nel tempo, per poi catapultarmi nuovamente nel presente, uno yo-yo nelle mani di un bimbo crudele.
Tra i tantissimi presenti nella piccola piazza del paese, c’era, ovviamente, anche Cristian.
Molte cose erano cambiate da quel primo scambio di battute, in un pomeriggio di agosto di svariati anni prima: tra le più importanti, i R., il suo nuovo gruppo, in cui a cantare era proprio Mauro.
Suppongo che anche lui, proprio come capitò a me, imparò rapidamente a volergli bene, durante quell’esperienza.
Ci abbracciammo, e nessuno dei due provò vergogna a piangere sulla spalle dell’altro: entrambi firmammo la nostra dichiarazione di fragilità, un aspetto che, lo dico con tutta la sincerità di cui sono capace, pensavo non rientrasse nel suo corredo caratteriale.
Quella perdita mi regalò, paradossalmente, l’affetto sincero, vivo, forte, di un nuovo amico.
*
118 - Ebbe l’effetto di una scarica elettrica rivitalizzante: alcuni legami, atrofizzati dalle contingenze, ripresero magicamente gran parte del loro vigore originario; altri nacquero, alimentati da quell’impeto.
Il frutto più tangibile fu il ‘Remember’: una festa di compleanno organizzata da un gruppo di amici per qualcuno che non c’è più, ma che riecheggia prepotentemente nelle teste, sempre presente, come un segno tatuato indelebilmente sulla pelle.
Decidemmo di proseguire in cinque: a me personalmente sembrava un ottimo modo per percepirlo ancora al mio fianco, e per di più ero mosso da quell’ultimo, grande obbiettivo.
Avevo confessato a Mauro, in tempi non sospetti, che i miei stimoli non erano più quelli del passato, ma il quadro mutò repentinamente, e ripresi a lottare.
I problemi tra di noi rimanevano, ma il peso specifico di quel dramma si era trasformato in un’inaspettata riserva di carburante pronta all’uso.
*
119 - Spesso il cambiamento è un processo silenzioso e impercettibile, assume contorni più definiti solo alla distanza: un fiore che sboccia ed esplode come una bomba atomica, spazzando via le versioni ormai obsolete di noi stessi; i muri crollano, uno dopo l’altro, aprendo varchi inimmaginabili, rendendo possibili nuove direzioni e prospettive.
Cristian divenne il mio confessore: al termine delle riunioni per il Remember, gli parlavo dei miei dubbi, della difficoltà sempre crescente che provavo nel continuare ad impegnarmi in un’attività che non sentivo più mia.
Una faccenda fisiologica: non sapevo più che farmene di quelle montagne di adrenalina, lo stomaco non le reggeva più, risultavano tristemente controproducenti nel percorso che mi accingevo ad intraprendere con impegno e consapevolezza. Lui viveva tra le pagine di in un romanzo ben diverso, e una sera mi rese partecipe di una delle più belle testimonianze d’affetto e riconoscenza che un’artista possa esprimere nei confronti dei suoi compagni d’avventura:
– Finchè avrò a che fare con delle persone fantastiche come G., C. e P. non smetterò mai di suonare.
*
120 - Modificai, per quanto potevo, il mio cantato: ormai provavo un vero e proprio rifiuto, totale, verso quello stile che mi aveva ottusamente contraddistinto negli anni; cercai quindi di risultare più comprensibile, a discapito della pura aggressività: si trattava dell’unico stratagemma per vestire ancora quei panni, diventati asfissianti.
Terminare le registrazioni, dopo decine di contrattempi vari ed assortiti, unica costante nella biografia degli A., ci diede, almeno in apparenza, un impulso inaspettato per comporre dell’altro materiale.
Gli eventi andarono in un’altra direzione: la morte delle ultime speranze, il crollo di uno dei sogni più immensi che ho plasmato.
Scrissi addirittura un nuovo testo, dopo un lunghissimo periodo di sterilità creativa; poteva rappresentare, nei miei piani, l’ennesimo inizio, per un attimo ho pensato che saremmo davvero riusciti a cambiare forma e suono, ma il verdetto, almeno per chi scrive, è stato un altro, chiaro ed inequivocabile: nessuno ha mai composto la musica per accompagnare quelle parole.
*
121 - Non se, ma quando
Avrei dovuto dirti addio, schiarirmi la voce e trovare il coraggio
e invece mi posso solo immaginare scena e scenario per così tante volte ancora
Campi di fiori color porpora
e un cielo triste
ma non aver paura
è solo l’ennesimo percorso in equilibrio
tra mille fili tesi immaginari
addomestichiamo lo sguardo
fasciamo tra loro i mille movimenti involontari
addio, non se ma quando
il tempo che passa è la più grossa bugia
le mie cicatrici iniziano a conoscere
si arrampicano alla ricerca della vetta più alta
scrutano l’assoluto
un iperuranio statico di vetro
poi cadono giù, pioggia per assetati, saette luminose
sono lacrime
sono in lacrime
esanime? Coraggioso
dolore acuto frantuma
frammento dopo frammento
Addio, non se ma quando
la mia voce come vento freddo
tra i rami spogli degli alberi
mi consuma, sarà necessità inevitabile
siamo soltanto un semplice tratto di matita
che non incontrerà mai nessun colore
ma naviga nel più perfetto e triste surrogato mai creato del bianco più puro
02/03/2012
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122 - Sono sempre stato ossessionato dal concetto di fine: sadicamente, proietto in maniera compulsiva sul telo bianco del possibile l’ultimo atto delle storie più importanti in cui sono coinvolto al momento: trasformo con estrema facilità i vivi in cadaveri freddi; un film, di cui assaporo in anticipo ogni singolo fotogramma; percepisco già le lacrime roventi sgorgare incontrollabili dagli occhi; mi preparo ad una recita a cui sono condannato, a cui non posso sottrarmi. Mi auguro tuttavia che tutti gli altri epiloghi di cui sarò spettatore o protagonista, possano risultare ugualmente sereni, e naturali. Si tratta, ne sono convinto, di chiudere dei cerchi nei modi più opportuni, prima che le circostanze lo facciano al posto nostro.
Solo così si può realmente terminare un’opera, senza farsi travolgere dai rimpianti e dal rammarico.
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123 - Le copie del disco furono pronte giusto in tempo per la terza edizione del Remember: avevo mantenuto il mio patto; in mano, il regalo perfetto per quella ricorrenza.
Coloro che si impegnarono nell’organizzazione, oltre ovviamente a quelli che vi parteciparono attivamente, rendendo di fatto possibile l’evento, ricevettero in cambio, come al solito, una pioggia eccezionale di sensazioni.
Il confine tra desolante assenza e abbagliante presenza talvolta è così labile – scrissi a Cristian in un sms – che ci porta quasi a credere che la morte non sia una sentenza definitiva, ma un semplice passaggio di stato.
Tante sono le parole spese a proposito da filosofi di ogni rango, ciarlatani, poeti, cantanti e truffatori; il mio interlocutore, forse ancora emotivamente coinvolto, si dimostrò, nella sua risposta, più cauto di quanto mi aspettassi, trincerandosi dietro ad un granitico ‘chissà‘.
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124 - Alcune settimane dopo, Cristian accusò un fortissimo malessere: seguirono gli accertamenti di rito, poi arrivò la diagnosi, impietosa.
Si presentava alle prove dei R., anche loro decisero di andare avanti, sostituendo Mauro alla voce con A., suo fratello, accompagnato da un cerotto alla morfina incollato sulla schiena: era sua intenzione mantenere gli accordi presi, e fare ancora un altro concerto, prima di affrontare gli ennesimi, pesantissimi cicli di chemioterapia.
Dimostrò una forza immensa, spaventosa, straordinaria.
Mi chiese di aiutarlo nei cori, perchè temeva di non farcela per via dei dolori intensi: ne fui onorato.
La sera dello spettacolo, guadagnai una piccola porzione di palco, in disparte, a ridosso della batteria.
Lo considero l’ennesimo omaggio ricevuto quasi inconsapevolmente, la prova più luminosa ed inequivocabile su come la passione possa essere più forte della malattia, dell’angoscia e forse della morte stessa.
Un episodio che contribuì ad unirci ulteriormente, più di quanto non sia successo nell’arco di dieci anni.
Nelle settimane successive, presi l’abitudine di scrivergli un messaggio quasi ogni giorno, all’alba, una cosa che facevo anche con Mauro ai tempi dei suoi lunghissimi soggiorni a Verona, mentre passeggiavo con il mio fido quattro zampe.
Contrariamente a quanto mi succede spessissimo, nel caso di Cristian riuscii miracolosamente a sospendere ogni tipo di giudizio, seppure le esperienze precedenti spingessero inevitabilmente per farmi pensare al peggio.
Nei giorni seguenti, le sue condizioni si aggravarono bruscamente, in maniera rapidissima. Così calò il sipario. E il silenzio.
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125 - Non ci sarebbe potuto essere luogo migliore, è la mia personalissima opinione, e so perfettamente che non è stata condivisa all’unanimità, per mandare in scena l’atto conclusivo: a Ruinas, in quello spiazzo così carico di memorie, ho suonato per l’ultima volta con gli A., esattamente tre giorni dopo la morte di Cristian.
Dopo quella sera, ci siamo rivisti tutti assieme il 23 novembre del 2013: D. si era accorto da tempo che l’alchimia che ci univa era svanita, così come G., il quale, diretto come suo solito, si limitò a dire: – Siamo già morti – rivolgendosi probabilmente a O., l’unico forse che per via della distanza non si era potuto rendere effettivamente conto di come stessero le cose.
B. invece, da inguaribile sentimentale, sosteneva che un avvenimento così importante meritasse di essere celebrato con una cena; com’è spesso accaduto, purtroppo, si trattò soltanto di un proposito troppo gracile per concretizzarsi in atto.
Io restai in silenzio, perchè ogni parola mi sembrava superflua.
Avrei voluto evitare di ricoprire il ruolo del ragazzo viziato che di punto in bianco si porta via il pallone, interrompendo il divertimento collettivo.
Forse, a voler essere antipaticamente esigenti, mi sarebbe piaciuta una presa di posizione, seria, decisa, ferma, da parte del resto del gruppo.
Dopo aver visto crescere questa fragile creatura, insomma, mi sarei risparmiato l’onere di decapitarla, ma mi rendo conto di non poter fuggire di fronte alle mie responsabilità.
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126 - Ormai avevo preso la mia decisione: appendere le corde vocali al chiodo, voltare pagina, archiviare quella favola definitivamente.
Ma prima dovevo aiutare degli amici a chiudere il loro personalissimo cerchio: per festeggiare il compleanno di Cristian, gli I. decisero di organizzare l’ultimo concerto, in cui avrebbero suonato tutti i loro pezzi e presentato il disco, prodotto mesi prima.
Per l’occasione, assieme ad altri, ho prestato la mia voce in tre brani: non mi è mai capitato, se si esclude qualche sporadica eccezione, di cantare dei pezzi non miei; si è trattato di un incombenza molto più complicata del previsto, anche sul piano meramente tecnico, oltre che emotivo.
Sono stato costretto a studiare i suoi accenti e le metriche, arrivando scherzosamente a maledirlo, con il sorriso sulle labbra e le lacrime agli occhi, per i passaggi più ostici.
Una delle sere più tragiche ed impegnative di sempre, ma non posso che ringraziare G., P. e C. per l’opportunità concessami.
Giurai a me stesso, oltre che a Cristian, che quella sarebbe stata l’ultima volta in cui avrei gridato dentro ad un microfono.
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127 - E’ difficile rispondere con un ‘no’ secco a certe richieste; non esiste il tasto ‘eject‘ per catapultarsi fuori, in una mossa, da quello che in sostanza è stato il tuo mondo per una buona fetta di vita.
Dovevo ancora saldare due debiti.
Non potevo comportarmi diversamente, non sarebbe stato giusto: registrai molto volentieri un pezzo per il disco degli F. L., per poi cantarlo dal vivo il giorno dell’uscita ufficiale.
Mancava un solo dettaglio: anni addietro i C. mi proposero una collaborazione per una loro traccia, lunghissima.
Mi presentai con più righe del necessario, e fummo gioco forza costretti a scegliere le parti da utilizzare: la mia attenzione cadde su un segmento finale del testo, un’unica frase ripetuta all’infinito negli ultimi due minuti della canzone.
V., tra le persone più sincere che ho conosciuto grazie a questo gioco, ha insistito parecchio per portare dal vivo ‘De Profundis‘: è accaduto durante la quarta edizione del ‘Remember’.
– This is my requiem
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128 - Per decine di volte ho avuto l’impulso quasi irrefrenabile di cestinare in blocco quanto scritto, eppure non l’ho fatto, arrivando sino alla conclusione nonostante un assillo perenne mi tormentasse in continuazione: perchè lo sto facendo? Che senso ha tutto questo?
Ci sono stati dei momenti in cui sembrava non esistessero delle risposte abbastanza valide a questi interrogativi tanto da giustificarne gli sforzi.
Come un disperato in procinto di cadere in un burrone, mi sono letteralmente aggrappato a due punti fissi, gli unici che la mia ragione è stata in grado di individuare nel deserto dello sconforto: nei mesi scorsi, lamentavo il fatto, tra me e me, di non aver mai trovato nessun maestro durante il cammino.
Con l’aiuto di una guida, è logico, si riesce a trovare più facilmente, in teoria, la retta via, rispetto ad un cieco costretto a brancolare nel buio.
Se si considera la morte come una delle prove più difficili, io ho avuto, in questo senso, due validissimi esempi su come sia possibile lasciare questo mondo a testa alta, con il coraggio e la dignità tipica degli eroi.
A loro, a Mauro e a Cristian, va il mio omaggio più sincero; gran parte dei miei pensieri quotidiani è dedicata a loro: mi hanno mostrato che non esiste paura invincibile.
Sono sicuro che, anche attraverso la lezione che mi hanno impartito, ma non solo, mi saranno vicini quando arriverà il mio momento.
Lo considero un dono, e queste righe rappresentano un timido, patetico tentativo di ribadire l’infinita stima che provo nei loro confronti.
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129 - Ho ripreso a leggere i diari di Jack Kerouac, dall’inizio, nonostante fossi arrivato già a metà del volume che li raccoglie: pensavo mi sarebbe stato utile confrontarmi con i suoi metodi di scrittura, descritti con minuzia, oltre che con i propositi che lo spingevano ad insistere nella stesura delle sue opere principali.
Cercavo un bagliore da seguire in questo tunnel buio in cui non intravedevo l’uscita, una scusa per procedere.
Trovai una frase, che diventò la consolazione per i miei dubbi:
‘Se l’uomo comune, l’uomo che lavora e sta zitto, elemento che lo rende tutt’altro che comune, se, quindi, la categoria generica degli uomini dovesse scrivere tutti i suoi pensieri, o anche solo un frammento di essi, che universo letterario avremmo!’
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130 - Mai come ora, in misura esponenzialmente maggiore rispetto al passato, per via degli ultimi prodigi della tecnica e dell’informatica, abbiamo la capacità di descrivere nel dettaglio i momenti più importanti, al pari di quelli più irrilevanti, delle nostre esistenze, ed estenderli immediatamente, cosa assai più stupefacente, ad una platea potenzialmente infinita di spettatori, noti e ignoti, i quali si trovano quindi nella condizione di poter sfamare la loro morbosa curiosità con fette succulente del nostro quotidiano.
Date, nomi, fotografie, luoghi, emozioni: offriamo in pasto noi stessi con spensieratezza disarmante.
Potrei ammettere senza grossi problemi, sarebbe peraltro del tutto credibile, che quanto ho riportato sino a questo momento non è la mia storia, bensì quella di un ignaro utente di FB che ho seguito ossessivamente nelle sue disavventure.
Il giochetto si è concluso una mattina di qualche mese fa; questo è l’ultimo post apparso sul profilo:
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131 - Ciao mà, ti scrivo oggi dopo tanto tempo, spero non te la sia presa; lo so, mi capita di fare dei lunghi periodi in cui sembra quasi che mi dimentico di te, ma tu sai altrettanto bene che in realtà ti penso spesso e volentieri, e l’unica cosa che al momento ci divide è la distanza, perchè altrimenti non ci sarebbe bisogno di queste righe e di tutto il resto, ti parlerei guardandoti dritta negli occhi, senza artifici inutili.
In realtà sono molto occupato con le mie faccende, ho mandrie di incubi da tenere a bada, l’allevamento va meravigliosamente alla grande, e un po’ come capita a tutti noi, devo sfangarmela da alcuni contrattempi, nulla di serio, è fisiologico, fa parte del gioco, e il tempo delle lacrime facili è finito da un bel pezzo.
Sono un adulto ora, mi devo prendere le mie responsabilità, a testa alta e con il culo forte, come dicono da queste parti.
Dovresti vedere quanto son bello oggi, io mi sento così almeno, e me lo faccio bastare, così non si corrono rischi, con le delusioni e tutte le altre cose legate alle aspettative che ci facciamo sugli altri; siamo noi che le nutriamo colpevolmente fino all’eccesso, fino a farle diventare spaventosamente pachidermiche e poi ad un certo punto ci accorgiamo di non saper più dove metterle, da quanto sono ingombranti. Ho chiuso con quei casini, ne sono uscito fuori.
C’ho addosso una bella camicia, lo sai che non ne uso spesso, e un paio di pantaloni puliti, della mia taglia, e non quella roba orribile larga più del triplo del necessario; saresti fiera di me.
Chissà a cosa pensavi quando mi cullavi, mi prendevi in braccio e mi facevi ridere; chissà che futuro ti immaginavi per me, chissà che futuro ti immaginavi per tutti noi, in realtà.
Io gioco diversamente, ho cambiato strategia: non mi immagino più niente di niente, è molto più comodo. Non mi viene nemmeno così tanto difficile: la fantasia l’ho persa un po’ per scherzo e un po’ perchè son stato un grande imbecille, lo ammetto, diversi anni fa; l’ho barattata per un kit super accessoriato di certezze made in China che sul più bello però si sono rotte e di conseguenza ora sto cercando un’alternativa, l’ho ordinata un po’ di mesi fa su Amazon, spero non ci siano casini con la dogana, perchè il pacco non è ancora arrivato e il venditore, un tipo serio, ha un botto di feedback positivi e giusto qualche lamentela, ma veramente poche di tanto in tanto, mi dice di stare tranquillo che è in contatto con i tizi del corriere e ormai si tratta di pochi giorni.
Spero non passino proprio ora che ho deciso di spostarmi da casa per un po’; da quanto ho sentito dovrebbero lasciarmi un avviso, così poi quando torno mi presento direttamente da loro e mi consegnano il pacco di persona e si risolve tutto.
Quindi ho deciso che vengo a farti visita, per vedere un po’ come te la passi, ti porto anche un mazzo di fiori, ok?, ma per favore, per favore, non fare la faccia seccata e per favore non rimproverarmi appena sbuco dalla porta: per una volta non metterti problemi, stai tranquilla, è tutto apposto; qui a casa è tutto in ordine, l’uccellino ha cibo sufficiente per una settimana, ho già fatto i biglietti per il viaggio e tra pochi giorni potrò finalmente riabbracciarti, così parliamo di un sacco di cose e mi dai qualche consiglio perchè su alcune questioni, è inutile, mi sento ancora troppo impreparato. L’avresti mai detto? Che sarei di nuovo venuto a chiederti qualche consiglio, così come facevo da bambino?
Quindi mà, sto arrivando, ti mando questa e-mail, butto la spazzatura e sono tutto tuo.
E per favore mà, dico sul serio, non fare la tua solita faccia seccata quando mi vedi arrivare, che poi ci rimango male. E’ tutto ok mà, se parto significa che sento che posso permettermelo, che è il momento giusto, insomma. Se no non l’avrei mai fatto no?
Ok?
Ti mando un bacio mà .
A tra poco.
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132 - Per tentare di riprendere in mano le nostre esistenze, è necessario ridare il giusto peso, per quanto possibile, ad ogni singolo atto, anche a quelli che ci sembrano insignificanti ma che possono assumere in seguito un valore fondamentale: d’altronde, è quanto di più importante possediamo, ma talvolta non ce ne rendiamo conto.
Siamo i primi detrattori di noi stessi, ogni qualvolta ingabbiamo la nostra storia senza poesia, senza un briciolo di cuore, nelle griglie asettiche di un curriculum, che qualcuno leggerà superficialmente prima di spedirlo nel trita carta assieme a mille altri.
L’unica cosa che conta sembrano ormai essere le competenze e le esperienze professionali; ciò che le caratterizza e le distingue, il substrato in cui si sviluppano, ciò che in definitiva rende unico un individuo, in molti casi viene ignorato a priori.
Siamo chiamati a riempire delle caselle: pupazzi potenzialmente polifunzionali senza più passato che galleggiano come foglie secche sul mare maleodorante del presente, incapaci, è una conseguenza, di immaginare un futuro a tinte meno cupe rispetto a quello che ci propongono.
Il trucco c’è, e per una volta, si vede eccome: le luci della ribalta, l’attenzione generale, è concentrata su delle celebrità create ad arte, sul campione di turno, sull’emblema del successo.
Ai poveri, agli sfortunati, ai comuni mortali non rimane altro che un misero spicchio di ombra in cui agire, come topi, sognando furtivamente una vita proibita; un’illusione perpetua, la carota penzolante che muove il culo di miliardi di asini che scalpitano, perennemente insoddisfatti, sulla via del macello.
Erodono magistralmente il terreno da sotto i nostri piedi ogni qualvolta ci convincono del fatto che siamo banali, insulsi, scialbi.
– A chi credi possa interessare ciò che hai da dire?
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133 - Preoccuparsi, in anticipo, sul numero di lettori che uno scritto riuscirà ad attirare su di se è, a mio avviso, il modo peggiore per incominciare un’avventura del genere o, fa lo stesso, il modo migliore per alimentare l’inattività dilagante che appesta sistematicamente centinaia di migliaia di persone, soprattutto in questa parte del globo.
Siamo ormai addestrati a lasciar fare ai professionisti vari, agli unti dalla sapienza assoluta, ai geni presunti, o riconosciuti all’unanimità dalla critica e dalle folle, alle stelle che brillano in esclusiva in un firmamento blindato ed elitario, scandito meccanicamente da mode, correnti, tendenze.
Non mi metto il problema.
Con queste righe ho solo gettato le fondamenta (come si fa con le case, con i palazzi): tutto quello che dirò o scriverò in futuro, a dio piacendo, come ripeteva il carissimo M., sarà una diretta conseguenza di quanto ho visto e fatto sino ad ora.
Se qualcuno dovesse chiedermi, magari indispettito da qualche affermazione particolarmente controversa per i propri canoni, ‘e tu chi cazzo sei per andare in giro a dire queste cose?‘, verrà immediatamente rimandato al primo punto di questo documento, il quale contiene gran parte delle informazioni che mi riguardano.
Non credo comunque, a prescindere dalla piega che prenderanno gli eventi, di aver sprecato il mio tempo in questi otto mesi: come si legge nell’introduzione italiana a ‘Storie sulla pelle‘ di Nicolai Lilin, ‘si dice che raccontare la propria vita serva a comprenderla‘.
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