Prima parte
01 To o kosu to iu koto (Compiere un viaggio) [001 - 018]
02 Il delirio [019 - 029]
03 Sul recente passato [030 - 042]
04 L’ostaggio [043 - 058]
05 La giugulare del cantastorie [059 - 067]
06 La teoria del taccuino [068 - 074]
07 All-in [075 - 081]
08 Sul concetto di network [082 - 088]
09 Sulla logorrea [089 - 094]
10 Sul confronto dialettico [095 - 100]
11 Il laboratorio [101 - 108]
Seconda parte
12 Amsterdam \ Sul concetto di capitale sociale [109 - 121]
13 Sulle cicatrici della solitudine [122 - 128]
14 Il gregge ed il branco [129 - 134]
15 Mi no atari to iu koto (Attaccare con il corpo) [135 - 140]
16 Il fight-club [141 - 146]
17 Il caso ‘Gravellu’ [147 - 154]
18 Il pusher [155 - 159]
19 Sulle dipendenze nell’era del bio-potere [160 - 170]
20 Filosofia di strada [171 - 180]
21 Sul ruolo del testimone [181 - 193]
22 Sul filosofo, il pazzo, il giocoliere ed il kamikaze [194 - 203]
23 Manuale di sopravvivenza per giovani scimmie all’inferno pt. 1 [204 - 288]
24 Manuale di sopravvivenza per giovani scimmie all’inferno pt. 2 [289 - 328]
25 Foo(cault) [329 - 340]
26 Il cacciatore di storie [341 - 353]
27 Le armate di Alexander Shulgin il Grande [354 - 359]
28 Auspici [360 - 370]
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Ho iniziato a scrivere le seguenti righe il due luglio del 2015 e ho ultimato il lavoro nel marzo del 2016.
Non ho apportato nessuna variazione, lasciando il contenuto inalterato nonostante alcuni sviluppi assolutamente imprevisti, che troveranno comunque spazio nella sezione ‘Aggiornamenti’.
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Metamorfosi: mutamento, cambiamento \ trasformazione fisica o morale, reale o favolosa.
Dal greco metamorphosis, derivato di metamorphon, trasformare.
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001 – To o kosu to iu koto (Compiere un viaggio)
«Compiere un viaggio» è un’espressione che implica tanto l’attraversare un braccio di mare quanto affrontare cento miglia di mare aperto per giungere in porto.
Nel corso della vita umana vi sono delle situazioni difficili che possono essere paragonate a «compiere un viaggio». Un viaggio si affronta sapendo pilotare, assumendo informazioni circa la rotta, conoscendo le possibilità del nostro battello, conoscendo bene le condizioni meteorologiche, rifornendosi di quello che può servire, senza contare troppo sull’appoggio di altri battelli che eventualmente ci accompagneranno; sfruttando il vento contrario per avanzare di bolina, o filando col vento in poppa e, quando le condizioni sono decisamente sfavorevoli, remando per dieci o quindici chilometri per entrare in porto.
Nell’heiko e particolarmente in battaglia, l’idea di «compiere un viaggio» è importante.
Bisogna prevedere le difficoltà, valutare la forza del nemico e soprattutto la propria, guadagnare la posizione favorevole, proprio come un buon capitano porta la sua nave sul mare. Se calcolerai attentamente ogni cosa, viaggerai sicuro.
«Compiere un viaggio» consiste nello studiare la posizione migliore per colpire il nemico nel punto più debole e questo è il segreto della vittoria in battaglia.
Miyamoto Musashi – Il libro dei cinque anelli
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002 – Lo trovarono appeso per il collo ad una trave del soffitto del piccolo bagno, nella sua minuscola abitazione.
Fu soltanto il primo di una lunga serie di individui, di entrambi i sessi, con il comune denominatore di non superare i quarant’anni di età, che per dispetto, o più semplicemente per disperazione, decidevano di farla finita con quel triste e malinconico girovagare senza senso all’interno di una realtà sempre più affollata e avara di soddisfazioni. Se è davvero così problematico trovare la propria collocazione, sostenevano alcuni tra le righe destinate ai saluti conclusivi, la cosa migliore da fare è levare il disturbo e liberare uno slot.
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003 - Nessun battito.
Dopo averlo slegato dall’abbraccio sensuale e mortifero della corda, lo sistemarono all’interno di un sacco nero in plastica, pronto, o quasi, per essere consegnato alle cure di quel magico processo che prende il nome di decomposizione.
Nessun battito.
Il suo cuore è assolutamente immobile.
Nessun battito.
Mani esperte lo adagiano sapientemente nel fondo foderato della bara. Nessun battito. L’attività elettrica nel suo cervello assente.
Qualcuno fissa il coperchio con dei lunghi chiodi, nel frattempo qualcun altro, poco lontano, piange, o finge di farlo.
Nessun battito.
La cassa in legno massiccio, con il suo ripieno di carne morta, viene inserita, come un pezzo del tetris, all’interno del loculo: uno schiocco sordo. Nessun battito. Nessun battito. Nessun battito. Nessun battito. Nessun battito.
Eppure, talvolta, un tenue fremito sfida ed infrange la quiete assoluta della morte. Poco più che una vibrazione impercettibile, una insignificante bollicina di rumore che galleggia verso l’alto e si trasforma in una monade, un piccolo universo perfetto che ruota attorno ad una bugia prima di esplodere.
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004 – All’angolo tra Warmoesstraat e Nieuwebrugsteeg , nella città di A’dam, c’è un distributore di pillole, installato accanto ad un grosso bidone in ferro per la spazzatura.
Ogni venerdì mattina, il marchingegno sputa una sfera con dentro tra le sei e le otto compresse; ognuna di esse conserva al suo interno circa venti righe.
La piccola palla si incendia, di una luce bianchissima, sparge tutt’attorno minuscole spore nere che si danno gioiosamente in pasto al vento e volano libere.
Concluso il suo compito, la sfera sparisce, grazie ad un complicato meccanismo di botole e scivoli, nelle viscere di quella strana macchina. Al buio, in archivio.
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005 - Il servizio di distribuzione delle parole, che ora è stato completamente automatizzato, spersonalizzato, in passato veniva svolto da un pusher in carne e ossa. Di lui si sono perse le tracce.
Il pusher svolge un mestieraccio; per certi versi, assomiglia al giocatore di football americano: il quarterback ti passa la palla, che dopo un attimo diventa una patata bollente. Uno, due, tre: all'improvviso un armadio di 140 kili, addobbato come un robo-cop, ti scaraventa al suolo.
Bisognerebbe scrivere un elogio: per il coraggio epico che il pusher dimostra nello sfidare il placcaggio imminente.
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006 - La prima parte delle righe che seguono vuole essere un ringraziamento, l'avevo promesso, a tutti coloro che con affetto e grandissima pazienza mi hanno accompagnato, anche e soprattutto nella vita reale, sino a questo punto della storia.
Il resto è rivolto principalmente a coloro con cui non ho ancora avuto modo di scambiare quattro chiacchiere: è una sorta di dichiarazione di intenti, dei prolegomeni, sicuramente rudimentali; il mio personalissimo ed umile contributo per un ritorno ad una filosofia di strada.
Prolegomeni: esposizione preliminare dei principi o proposizioni fondamentali di una dottrina o di una disciplina, che si intende svolgere più sistematicamente, altrove o in seguito.
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007 – Mi stanno poco simpatici tutti gli inguaribili ottimisti convinti, in un modo o nell’altro, di vivere nel migliore dei mondi possibili. Allo stesso tempo nutro scarsissimo interesse nei confronti dei pessimisti irrecuperabili che vedono nel cappio l’unica via di fuga alle tenebre e al male.
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008 - N. si avvicina a quella che, nel corso degli anni, è diventata la mia postazione abituale: prendo le ordinazioni per i panini, metto da parte i soldi e, con qualche difficoltà legata a vari fattori, rendo il resto, sforzandomi più del previsto per non incantarmi in quei calcoli che, solitamente, risultano piuttosto facili. In sostanza, è così che ho vissuto i primi quattro Remember: un’attività che mi permetteva di scambiare qualche battuta, sugli argomenti più disparati, con chiunque mi capitasse a tiro.
Una sorta di penitenza: per soddisfare il tuo appetito devi per forza avere a che fare con me e con la mia insaziabile curiosità.
Non posso mentire, e d’altronde chi mi conosce di persona lo sa bene: mi sento proprio come il buon vecchio Begbie, l’isterico baffuto di Trainspotting, che a differenza dei suoi soci, si ‘faceva’ di gente anziché di sostanze stupefacenti.
N. è venuto a ringraziarmi per aver cantato un pezzo con il suo gruppo; non ce n’era davvero bisogno, ma ognuno giustamente si comporta come meglio crede.
Da pochi minuti, ne sono consapevole, è iniziata la mia nuova vita.
– Molto bello, complimenti – aggiunge la ragazza, completamente vestita di nero, che è assieme a lui, ignara del fatto che certe manifestazioni d’entusiasmo hanno su di me un effetto contrario, così pare almeno, rispetto a quanto accade normalmente a chiunque altro.
Son sicuro di non averla mai vista prima di allora, non ricordo minimamente i suoi tratti somatici e neppure il nome. Come spesso succede in questi casi, le parole mi escono dalla bocca, quasi trascinate da una forza indomabile:
– Oggi si chiude un ciclo – le dico, senza davvero sapere il perché.
– Bisogna essere bravi ad aprirne subito un altro – ribatte prontamente.
Annuisco con forza, canticchiando mentalmente ‘la fine non è la fine‘ dei La Quiete.
– È proprio ciò che ho intenzione di fare – rispondo mentre un sorriso mi addolcisce il volto. Vedo materializzarsi, in quel preciso istante, gli elementi che quarantacinque giorni dopo avrebbero alimentato la prima parte del progetto.
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009 – È come se centinaia di succulente salsicce scorressero, sopra ad un nastro trasportatore, di fronte al muso di un rottweiler: la cavità orale si riempie di bava calda, densa e appiccicosa.
Vorrei parlare con chiunque, un impulso primario irrefrenabile, ma mi rendo conto che le persone sono venute alla festa per ascoltare la musica, divertirsi e occuparsi delle proprie faccende e non per badare alle mie sciocchezze.
B. mi chiede una birra, con quegli occhi da cucciolo disperato che solo un assetato può mettere in mostra con tanta efficacia. Gli spiccioli che stringe in mano sono, secondo lui, un argomento valido per ottenere ciò che desidera, ma io sono inflessibile.
– Sai bene come funziona, noi possiamo dare da bere solo ai componenti dei gruppi che suonano oggi, gli altri devono rivolgersi al bar del locale .
Insiste. Mi fa vedere i soldi. Balbetta qualcosa.
Non si arrende nemmeno di fronte al mio secondo, terzo, quarto rifiuto. Rimane fermo, un soldato che difende la sua posizione, intenzionato a non arretrare nemmeno di un millimetro.
In verità, adoro l’ostinazione, in tutte le sue forme; apro il frigo alle mie spalle, scelgo una lattina ghiacciata e la appoggio sul banco.
– Te la offro, mi fa piacere lo sai, è che davvero non potremmo, ma non volevo fare l’antipatico.
Soddisfatto per quella vittoria, forse inaspettata, commette un errore: strappa la linguetta e incomincia a sorseggiare quel liquido fresco di fronte a me.
In un attimo la situazione muta completamente: il barbuto e mansueto batterista che conosco da diversi anni si trasforma, forse suo malgrado, nel mio diario segreto.
L’occasione si presenta dopo la classica domanda: “state suonando?”; tutte le conversazioni a quanto pare si accendono e si sviluppano seguendo una logica convenzionale. Prendo la mira e sparo: – Non griderò mai più dentro ad un microfono.
Probabilmente l’alcool gioca la sua parte, ma forse i nostri ricordi si avvinghiano, si fondono con gli oggetti e le manifestazioni più strane: quando queste ultime cessano di esistere, abbiamo quasi la sensazione che qualcosa di noi muoia con loro. Non so bene perché la sua faccia abbia assunto quell’espressione tendente al triste, la strategia migliore è smettere di pensarci, ma si tratta di una reazione a cui mi è capitato di assistere altre volte, con il solito pieno di incredulità.
Rimane in silenzio, così mi viene più facile continuare.
– Sento il bisogno di comunicare con più chiarezza ciò che mi pulsa in testa, con l’hard-core risulta ormai impossibile. Qualcuno mi ha proposto – faccio un cenno con la testa verso M. – di provare con il rap, ma non credo di essere in grado -. Rido.
Penso sia semplicemente arrivato il momento di dedicarmi all’altra metà delle mie passioni – gli dico, anche se ho il sospetto che a lui, come a molti altri, questa parte non interessi più di tanto. Ma né allora, né tanto meno oggi, rappresenta un problema.
Ciò che conta, ai fini del racconto, è che in quegli istanti stava davvero nascendo qualcosa di nuovo in me, che faceva già sentire i primi vagiti.
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010 - Gli incisivi e i canini servono per strappare i pezzi di carne, per separarli dall’osso. Oggigiorno, da diversi secoli, questo compito viene agevolato da graziosi utensili come il coltello e la forchetta, arnesi fondamentali per tenere ben alta la bandiera del bon-ton.
Le buone maniere, però, nel nostro caso non hanno voce in capitolo, l’arte del rosicchiare non è stata del tutto accantonata.
Premolari e molari tritano e maciullano il boccone: il succo dolce rosso sangue sfrutta ogni spiraglio utile e cola trionfalmente fuori dalla bocca, inumidendo le labbra, giù sino al mento.
Alla lingua, in un movimento che svela tutta la carica di una sensualità animalesca che troppo spesso, a torto, riteniamo irrimediabilmente perduta, spetta l’atto finale dell’opera: ripulire le superfici dai residui e mandare al cervello, attraverso le papille gustative, gli impulsi che in una frazione infinitesimale di secondo si trasformano in un apoteosi di piacere che accompagna, centimetro dopo centimetro, la rapida discesa del bolo, destinazione stomaco.
La sensazione della fame non si placa, anzi, l’appetito vien mangiando: – Ancora, ancora, ancora una fetta – gridano in coro alcuni.
– Piano non spingete – urlo dal centro del vassoio, proprio mentre qualcuno mi azzanna un piede, per poi strappare le dita, con gesto risoluto, una ad una, partendo dalla più grande, per concludere con la più piccina.
– C’è della bile! Un mare velenoso e puzzolente di bile nera – annuncia un altro rivolgendosi al resto dei commensali. – Prendete i bicchieri di cristallo, portate delle cannucce – ordinano i più intraprendenti.
Nell’era della frenesia e dell’ingordigia post moderna da fast food aperto 24 ore su 24 non c’è tempo da perdere, così in un batter d’occhio una lama affilatissima mi squarcia la pancia, che si trasforma in un piccolo abbeveratoio.
Meglio di quanto potessi immaginare, penso commosso; quattro teste si tuffano sulle viscere mie più profonde.
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011 - Io ero quelle righe.
Sapete tutto di lui, morto appeso per mancanza di coraggio nell’affrontare ciò che il destino aveva cucinato.
Conoscete con discreta precisione le vicende che lo hanno portato a piangere, a maledire il mondo: potreste addirittura giocare, se solo lo voleste, ad un’entusiasmante caccia al tesoro, utilizzando come mappa le sue cicatrici e la rete sterminata delle paure.
Sepolte, in corrispondenza della grande X come da tradizione, trovereste incubi e angosce grosse come pepite, ancora brillanti.
Lo confesso, e sono estremamente sincero nel farlo: è stato un piacere, finalmente trovo la giusta sede per affermarlo, farmi cannibalizzare da voi. Un bel modo per congedarmi, non c’è dubbio: un atto necessario, me ne rendo conto completamente soltanto ora.
Una volta messa su carta la mia vecchia storia, si trattava soltanto di trovare qualcuno che favorisse il trapasso. Non è mai stata una questione legata al numero, piuttosto ho puntato sulla qualità, sull’efficienza tecnica delle vostre mandibole e delle vostre mascelle.
Mi sono inizialmente affidato ad una equipe ristretta di sbranatori scelti, selezionati accuratamente sulla base di numerosissime valutazioni raccolte sul campo, accomunati dal fatto di essere immuni, o quasi, salvo qualche sporadica eccezione che in definitiva conferma la regola, da quel virus chiamato Facebook.
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012 - Ritengo tuttavia, mai come ora, che un bravo giocatore non possa, per definizione, trascurare nessuna delle pedine a sua disposizione.
G., che in questo senso valuta la situazione in maniera sensibilmente diversa, mi aveva messo al corrente, durante una bellissima chiacchierata nella notte tra il 24 e il 25 dicembre del 2014, sul pericolo che si corre a maneggiare tossine simili: prima che tu possa accorgertene, verrai assorbito da quel mostro, sosteneva.
Quanto predetto si è avverato con matematica precisione, ma ritengo che il sistema creato dal buon Zuckerberg rappresenti una modalità importante con cui rapportarsi agli altri, seppur con tante controindicazioni.
Ho trascorso più tempo di quanto preventivato in un primo momento nell’accertarmi che ogni singolo roditore fosse effettivamente a suo agio, se avesse tra le minuscole fauci un barlume di quel cadavere.
Avrei potuto lasciare il compito ai vermi, alla loro silenziosa indifferenza. Sarei potuto marcire in disparte, il risultato finale in realtà sarebbe stato il medesimo: in un modo o nell’altro, lui, l’appeso, non ci sarebbe stato più, dimenticato per sempre.
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013 - Ho tuttavia scelto di offrire questo macabro banchetto per diverse ragioni: la prima è che, nonostante le tante, troppe storie tristi presenti nel menù, ritengo che la convivialità sia una risorsa preziosa, da salvaguardare.
A questo punto quindi, ciò che mi aspetto non è un applauso: andrebbe bene se fossimo ad un concerto, ad una partita di calcio, dopo una giocata acrobatica, al circo, a teatro o su un aereo, quando il pilota centra la pista di atterraggio anziché sfracellarsi contro un prefabbricato.
Quello che ci starebbe bene a questo punto è un bel rutto.
Ancora una volta dobbiamo fare i conti con le buone maniere, ma non preoccupiamoci: come molti di voi sicuramente sapranno, in Occidente è considerata una pratica poco graziosa, ma in Cina ad esempio, i margini del relativismo sono così ampi, assume i tratti di un complimento tra i più graditi.
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014 - L’eleganza della pillola risiede nella sua forma perfetta, dinamica.
Al suo interno custodisce la sua essenza, il messaggio. Promette miracoli, garantisce il rimedio.
Richiede un gesto semplice, minimo; la trachea risponde allo stimolo in maniera meccanica, la possibilità che qualcosa vada storta tende allo zero.
Un concentrato di efficacia, calibrato al microgrammo; massima igiene, altissima discrezione.
Smembrare un corpo a mani nude è un’attività barbara; ingollare una pasticca è diventato un fattore culturale.
Lo sospettavo, ed ho avuto le conferme che probabilmente cercavo: viviamo in un’epoca e in un paese in cui anche la lettura di venti righe scarse rappresenta un problema, uno sforzo gravoso quasi impossibile da sostenere.
Non penso sia un caso, anzi, ma non è ancora giunto il momento di approfondire la questione.
Mi sono lanciato in un esperimento, ficcandovi a forza, in maniera coatta, una manciata di fatti miei dritti in bocca.
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015 - Ho raccolto e catalogato in maniera meticolosa le vostre reazioni, sia quelle dirette e spontanee, sia quelle deducibili dalle statistiche e dai dati legati alla navigazione.
A furia di concederti in pasto al prossimo, impari a sintonizzarti con i suoi gusti; riesci quasi a percepire le micro vibrazioni del suo sfintere anale, che si contrae armonicamente, in contemporanea con un piccolo sussulto. Oppure puoi immaginare i suoi occhi che scavalcano con agilità l’ennesima sfilza di aneddoti noiosi.
Lo trovarono in una piccola stanza, appeso per il collo tramite una corda legata ad una trave del soffitto. Un pendolo macabro che scandisce il tempo e non fa altro che ricordarvi che voi siete migliori, più forti, più audaci; meno piagnoni, meno incerti, meno timorosi, più determinati, meno pedanti, meno superbi, più brillanti, più vincenti.
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016 - Mi sono trasformato per l’occasione in un pusher, tenendo bene a mente il mio scopo: dare via quei piccoli pacchetti di ricordi rancidi prima che marcissero del tutto.
Qualcuno si è accorto, è venuto a sapere della mia esistenza ad opera già abbondantemente in corso; altri, anche tra quelli che mi conoscono personalmente, non ne sanno nulla.
Alcuni, come da pronostico, sono stati attratti dal tanfo dei cadaveri: tante mosche grasse e nere.
Il mio universo di riferimento si può dividere in due sottoinsiemi: da una parte ci sono coloro che quotidianamente si sottopongono ad una sassaiola di dati, informazioni più o meno attendibili, stati d’animo e conflitti; il processo di trasmissione, c’è chi se n’è accorto, la considero una buona notizia, risulta decisamente frammentato, a discapito della pulizia del segnale.
Chi è libero da questa piaga, invece, ha risposto meglio di qualsiasi aspettativa.
Ho cercato di evitare qualsiasi problema legato al sovradosaggio, riuscendoci soltanto in parte: non potevo di certo immaginare che certi avrebbe optato per la soluzione definitiva, tutto in un colpo solo come se non ci fosse un domani, come se l’attesa per qualcosa di così ridicolo, se paragonato alle tante vicende che meriterebbero la nostra considerazione attenta, fosse ingestibile.
Ho cercato di mantenere bassi i livelli di visibilità: avrei potuto firmare con il mio nome e il mio cognome, ad esempio, o sfruttare a mio vantaggio, in modo subdolo, alcune storie racchiuse in quelle cento e trentatré pillole.
Ho squottato un vecchio profilo FB, utilizzato in passato esclusivamente per pubblicizzare l’ultimo cortometraggio realizzato in una precedente avventura, con l’unico intento di accalappiare qualche anima pia che mi aiutasse a farmi definitivamente fuori.
Parallelamente, ho portato quelle righe sempre appresso con me, cucite addosso, nella giungla concreta che scorre fuori dalle quattro mura in cui sono rinchiuso per svariate ore al giorno; una pratica che diventa sempre più gratificante e ricca di saporitissime sorprese.
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017 - Tra le persone che hanno raccolto meglio il mio invito ad una collaborazione fattiva c’è sicuramente il buon M., conosciuto nelle primissime fasi del mio addestramento presso la Fuckoltà. È sempre stato un punto di riferimento raro, una costante, un confronto valido ed un riparo fondamentale in tutti quei momenti in cui il processo inesorabile di massificazione sembrava non lasciarmi più scampo. Un’amicizia inestimabile, capace di sopravvivere alla lontananza.
Le foto che mi ha concesso, con disarmante semplicità, sono risultate indispensabili, non soltanto per una questione meramente grafica: ha fatto sopravvivere la speranza che sia possibile ancora unire le forze e procedere assieme, seppur per brevi tratti di strada.
Perché non intendere la rete delle nostre relazioni come se si trattasse di un gioco? Se ci caliamo in questa prospettiva, il rapporto tra bisogni e offerte si arricchisce di nuove variabili, che spalancano la porta a soluzioni inaspettate.
Attualmente M. tira su qualche soldo occupandosi di una tipografia: rivolgersi a lui per un biglietto da visita è stato immediato. Tutti, bene o male, portano avanti i propri discorsi con il massimo dell’entusiasmo e dell’impegno, io non sono da meno: chi mi conosce sa quante energie ho speso in passato nei vari progetti, perché cambiare spartito proprio ora?
Ero convinto che un cartoncino con sopra i miei contatti mi sarebbe potuto essere utile, oltre a risparmiarmi l’impiccio di recitare a voce lunghi ed improbabili indirizzi e-mail.
– Quanto mi verrebbero a costare una cinquantina di pezzi? – chiedo a M.
– Te ne faccio cento e non spendi nulla.
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018 – Inizialmente ho utilizzato il deposito di amicizie virtuali già presente nel profilo, senza aggiungerne altre. In un primo momento pubblicavo su FB soltanto un frammento delle singole pillole, rimandando allo spazio ospitato su Wordpress per la lettura integrale del materiale, ma ho più di un sospetto in merito al fatto che ormai l’utente medio, sommerso fino alla testa da questo fiume in piena di contenuti, faccia un’enorme fatica anche solo a schiacciare un bottone per aprire un link. Così ho mutato strategia: il venerdì la mia pagina si trasformava in una discarica a cielo aperto, con gabbiani annessi che rovistavano distrattamente tra i rifiuti.
La stesura non è risultata semplice, sia perché dovevo comunque rispettare i vincoli ineliminabili e talvolta piuttosto rigidi dettati dai fatti stessi, e sia perché non potevo permettermi grossissime divagazioni, considerando che lo scopo del gioco era semplicemente quello di isolare alcuni tra i momenti più significativi per il consolidarsi di convinzioni ed idee che troveranno, spero, il giusto spazio in un futuro prossimo.
Il processo di metamorfosi però è già iniziato.
Sino a questo momento ho cercato di seguire i binari dell’ordine e della linearità logica, ma ciò non implica che le cose debbano andare avanti in questo modo.
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019 – Infilo grossi pezzi neri e densi del mio delirio dentro ad un frullatore: ciò che ottengo è una poltiglia maleodorante, semiliquida, disgustosa.
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020 - Come in un sogno, le leggi della razionalità perdono gran parte della loro autorevolezza e lasciano il campo al disordine, all’imprevedibile, all’incoerente, all’illogico, all’incomprensibile. Ci si spinge verso altri limiti, dove non c’è la luce del sole a ispirare il cammino, ma è la certezza che si nasconde tra il buio a guidare gli insicuri passi del viandante.
Di fronte a me, una distesa piatta, monotona ed identica in ogni sua singola parte, che impatta violentemente contro un orizzonte anemico.
Quanta fatica divide un passo dall’altro; il peso del bagaglio, aggrappato sulle spalle, è ormai insopportabile.
E se lo abbandonassi?
Se mi spogliassi di tutti i miei abiti e mi facessi ingoiare da questa polvere?
Luminoso nulla che si spalanca di fronte allo sguardo.
Dentro quello zaino c’è quanto di più pregiato ho raccolto in questi anni, ma non posso più, temo, portarmelo dietro. Che senso avrebbe perdere ancora del tempo per provare a separare il superfluo dal necessario?
Sono i sentimenti che fanno la voce grossa in questo caso; nostalgia per quelle lacrime versate che profumano, sempre meno, di compassione dolciastra e patetica consolazione.
Una goccia di sudore nasce all’altezza della fronte ed è subito pronta per iniziare il suo viaggio: macina centimetri, così come un razzo divora chilometri, senza tentennare. Serpeggia sull’arcata sopraciliare, si incunea tra i fili spessi della barba, raggiunge il punto di non ritorno, il mento, ultimo avamposto prima del grande salto, a perpendicolo verso il suolo.
L’impatto, un’esplosione soffice.
Il destino di una singola goccia è simile a quello di tutte le altre: cadere, fondersi, perdersi.
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021 - Nessun suono, nessun singolo suono.
Completa, perfetta inerzia. Nessun uccello in volo, non si sentono più le voci allegre dei bambini, né i richiami delle loro mamme. Niente urla, tanto meno discorsi.
Nessun tintinnio di bicchieri, nessuno che parla più nelle strade, nelle piazze, nei bar.
Tutto è silenzio nella grande città da cui mi separo, in cui sono nato e cresciuto.
I palazzi, ormai disabitati, hanno imparato, in autonomia, a tingersi del colore della sabbia.
Grandi e scure macchie ne turbano le facciate, ormai anche i corvi hanno abbandonato quel palcoscenico.
Povera casa, edificio martoriato, il tetto è crollato in più punti.
Il pavimento è ricoperto di uno spesso strato di polvere grigia, poi calcinacci e rifiuti.
In un angolo di una stanza qualsiasi, un vecchio mangianastri analogico riproduce la voce calma e serena di un uomo che assiste e descrive la fine del mondo.
Le sue parole si smarriscono, tra mille sentieri immaginari, e nessuno che ascolta. Non per scelta, ma per conseguenza.
*
022 - La tentazione è forte, so che avrà la meglio anche stavolta: non voltarti!
L’intenzione è chiara, ma troppo debole.
Potresti non capire, potresti spaventarti: è già successo del resto, decine di altre volte.
Fissa un punto, dritto davanti a te, e continua a marciare, adagio, un passo alla volta.
Un unico pensiero, martellante: sto per cedere.
Resisto ancora, avanti, uno due tre passi ancora.
Passerà, questo pensiero svanirà, smetterà di tormentarmi.
Un passo, due passi ancora. Mi fermo.
E’ il momento decisivo: stringo i pugni, chiudo gli occhi. Un passo, due passi. Mi fermo ancora.
Il pensiero raggiunge il nocciolo della mia coscienza, se ne impadronisce totalmente, si trasforma in paura, paralisi.
Ancora un passo, prima di arrendermi. Stringo denti e pugni.
Dieci, venti gocce di sudore vivono rapide e muoiono, concedendosi al terreno, amanti rassegnate.
So esattamente cosa sta per succedere: non è la soluzione, mi ripeto, ma ormai non sono più io a dirigere i movimenti del mio corpo.
Concentrati sul respiro, oppure sulla vastità del cielo.
Non basta.
A che serve procedere? Ancora un passo? No, non più.
Così mi trasformo in perdente, ma non esiste modo migliore per capitolare. Mi inginocchio, poi lascio che succeda.
Uno sguardo furtivo, giusto pochi secondi, a ciò che è stato, ai miei trascorsi. Non farà poi così tanto male.
Menzogne, a cui mi inchino non appena divento nuovamente quella città in rovina da cui cerco di scappare.
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023 - Sulla lapide non è finita sicuramente la mia foto migliore.
Ciò che conta, sono le due date scritte sopra. Stento a crederci, ma non può che essere così. L’ennesimo tentativo di interpretazione razionale non modificherà la situazione.
5 gennaio 1981 – 23 dicembre 2011
*
024 - Aggiornamento: e’ stato M. ad aver scattato, in maniera eccezionale, l’istantanea.
Me l’ha consegnata di persona, una domenica sera di metà luglio dell’anno passato.
Non gli ho detto che avevo appena scritto queste righe, anche perché c’erano argomenti ben più importanti da trattare.
Non parlavo con lui dai primi anni del duemila. Senza l’intermediazione di B., è giusto sottolinearlo, probabilmente le cose non sarebbero andate così bene.
– Mi volete picchiare? – esordisce con una battuta, quando ci vede arrivare, accompagnata da un’occhiata attenta e seria.
Le nostre strade nel tempo si sono allontanate progressivamente, ma una buona dose di diffidenza si diluisce nello stupore quando mi vede armeggiare con i miei arnesi, un fatto decisamente inedito per quanto lo riguarda.
Io in realtà volevo semplicemente raccontargli un fatto piuttosto curioso, ero sicuro che l’avrebbe sorpreso. – Non ci crederai, ma ho ascoltato diverse volte il tuo disco solista. Mi ha preso anche piuttosto bene. All’alba soprattutto, ci sta alla grande.
Ringrazia, e ride di gusto.
M. ha avuto la possibilità di conoscermi in maniera approfondita, viaggiavamo in treno insieme e stavamo all’interno della stessa aula per diverse ore al giorno.
Spetta a lui iniziare: dipinge il quadro nel dettaglio, con grande schiettezza, come mi aspettavo, senza esclusione di colpi. (Quanto segue è l’unione tra la sua opinione e la mia, il mix giusto per avere un risultato ancora più completo).
Timido, introverso, taciturno, asociale, paranoico, insicuro, scontroso, superbo, staccato totalmente dalla propria comunità di appartenenza, incapace di instaurare qualsiasi tipo di relazione con persone del sesso opposto, ossessionato esclusivamente da calcio e fanta-calcio, noioso, permaloso, egocentrico, irrispettoso nei confronti dei professori (con i quali giocava come il gatto con il topo), scorbutico, pessimista, antiestetico, cagasotto.
Una squadra di professionisti della demolizione; una palla d’acciaio grossa quanto la luna distrugge le strutture portanti della casa, eppure non sento nessun tipo di dolore: assisto alla scena dall’alto, come se non mi riguardasse più.
Paragoniamo la storia di una persona ad una linea.
M. è in grado di analizzare nel dettaglio il segmento che va da un punto X ad un punto Y, ma non sa assolutamente nulla su come io sia passato dal punto Y allo stato attuale Z.
Può immaginarlo: – Con gli A. ha trovato la sua dimensione – dice riferendosi più a B., che assiste alla scena, piuttosto che a me – una famiglia, la possibilità di esprimersi.
Nella terapia aggiungo anche il rapporto con un cane e l’amore di e nei confronti di una persona fantastica.
Manca però un elemento essenziale.
Uno dei miei due argomenti preferiti.
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025 - E’ come se l’intera pappa del cervello, un omogeneizzato marroncino chiaro, girasse in verso diametralmente opposto rispetto a quanto succede nell’ordinario.
Scopro veramente le grandi potenzialità di quel rimedio prodigioso in uno dei momenti più delicati della mia esistenza: ho una freccetta piantata nel cervelletto, un assillo costante ad intensità per fortuna variabile, che talvolta si assopisce ma non sparisce mai del tutto.
C’è sempre, lo sento, al mio risveglio, durante il giorno; è presente quando sto per cadere sul campo di battaglia degli addormentati, mi insegue sin dentro ai sogni.
Come per incanto però, procedo trascinato brutalmente verso considerazioni nuove, che mi trasformano nel profondo, anche a livello fisico e non soltanto dal punto di vista psicologico.
Divento presto dipendente non tanto dal passepartout quanto dai vantaggi che ricavo dallo spalancare, in un colpo solo, le porte blindate che celavano aspetti di me stesso che credevo inesistenti. Ne limito rigidamente la frequenza d’uso: non posso permettermi di abusare di quella tecnica, sarebbe un’errore imperdonabile bruciare le enormi, sconvolgenti potenzialità di cui ancora non ho ben chiara la portata, ma ho l’impressione che l’immensa energia che quel gioco di prestigio scatena possa essere diretta, al pari di un raggio di luce, ad illuminare le zone più buie del mio inconscio.
Non mi resta dunque che approfondire lo studio e proseguire con gli esperimenti, perchè son tante le croci da scavalcare e lasciarci alle spalle in questo cimitero.
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026 - Il punto non è avere a che fare con dei brutti problemi, il punto è riuscire a risolverli.
La lista è infinita: ansia, attacchi di panico, fobie, ossessioni, compulsioni.
Lutto, perdita, separazione, divorzio e abbandono, disagio e conflitto col partner, con i figli o nel rapporto familiare.
Autostima, senso di vuoto, solitudine, dipendenze, mobbing, disturbi dell’alimentazione, problematiche dell’identità.
La Dr.ssa **** ******** *****, psicologa, psicoterapeuta, analista transazionale mette a disposizione le sue competenze in materia per guidarci fuori dal pantano.
Io invece seguo la mia strada, che è sicuramente meno ortodossa, ma altrettanto ricca di soddisfazioni.
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027 - Aggiornamento II: M. è stato il primo con cui sono entrato dentro ad una sala prove, ed è stato l’ultimo ad aver registrato le mie urla. Preferisce non dare peso al suo ruolo di alfa e omega nel mio percorso. In quell’occasione, al termine della sessione, mi disse, tra le altre cose, che secondo lui sarei potuto essere un buon professore di filosofia.
Tagliai la testa del discorso sul nascere, spiegandogli che la mia voglia di infilarmi nelle piaghe dell’istituzione scolastica era pari allo zero.
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028 - Non hai altra soluzione, mi ripete la voce.
La mancanza di alternative mi tranquillizza, ma non è una condizione sufficiente per annullare del tutto l’eventualità di una ricaduta.
E ora dimentica.
Invito deciso, rassicurante.
Prendo il piccolo zaino, lo apro per l’ultima volta. Rovisto per alcuni minuti alla ricerca del quaderno con la copertina in simil-pelle chiara; tutto il resto finisce in una scarpata profonda.
Ma so allo stesso tempo che la vittoria, in questo caso, non è un traguardo che si può raggiungere in poche mosse. Servono costanza, tenacia, determinazione.
Da oggi i miei ricordi saranno soltanto un espediente narrativo.
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029 - Dal mio manuale di automedicazione:
Sii invincibile, il tuo scopo e il tuo coraggio siano costanti.
Decidendo ciò che farei se avessi la possibilità di ricominciare la vita da capo, comincio a viverla ora.
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030 - Ho iniziato a vomitare le prime righe di questo progetto il 9 giugno del 2014, spinto dalla necessità di dare un senso nuovo alle mie giornate, considerando che l’attività lavorativa che mi permette di raggranellare qualche moneta, oggi come allora, sembra sempre sul punto di eclissarsi.
Meglio giocare d’anticipo, almeno quando mi è possibile, e studiare il modo di mettere in piedi percorsi alternativi, che vanno oltre il discorso economico, ma che riguardano in sostanza il modo in cui spendo il mio tempo.
A distanza di quasi due anni, mi ritrovo nelle medesime condizioni, ma con una prospettiva leggermente diversa: le basi della mia nuova casa sono state gettate, non mi resta che moltiplicare ed intensificare gli sforzi. Di sicuro non posso abbandonare ora.
Tra gli aspetti che più mi hanno messo in difficoltà in quest’ultimo periodo, a partire dal 13 marzo 2015, giorno in cui pubblicai il primo blister, rientra sicuramente il rapporto con chi legge.
Le vostre testimonianze, dando per scontato che siano autentiche (non mi aspettavo una reazione del genere), da una parte offrono stimoli ulteriori per insistere, dall’altra parte creano una sorta di blocco, come se fossi portato a soddisfare le esigenze, le aspettative altrui, scordandomi pericolosamente delle mie.
Ho un rapporto intenso con le parole: nel momento stesso in cui le imprigiono nei fogli, qualcosa dentro di me respira aria nuova, si sistema, trova la sua giusta collocazione. E’ questa la ragione ultima che legittima l’impegno.
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031 - Tengo gli occhi chiusi per cercare di dimezzare il disagio.
Non è una cosa che capita tutti i giorni, quella di essere mangiati vivi, ma tra poco sarà finito.
Come nei duelli, o più in generale quando in ballo ci sono la vita e la morte, il tempismo ricopre un ruolo fondamentale.
— Qualcuno vuole un po’ di cuore?
— È avanzato un pezzo di fegato, se nessuno se lo mangia me ne occupo io — dice un tizio calvo mentre si infila in bocca una pupilla.
— Facciamolo contento — risponde un altro — mentre con modi secchi e decisi separa la mascella dalla mandibola, come si fa, ad esempio, con le piccole testoline degli agnelli.
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032 - — Si arriverà ad una conclusione? — mi hanno chiesto alcuni.
— Certo che sì — assicuro —. Tutto ha una fine a questo mondo, tranne alcune serie televisive. Ma è un altro discorso.
— Continuerai a scrivere? Ho come l’impressione che alcuni argomenti siano stati appena accennati.
— Forse sì, forse sì, chissà. Speriamo, farò del mio meglio. Con il vostro entusiasmo, il vostro calore sarà fantastico: voi mi date la forza per andare avanti.
Fesserie. Come quando il cantante dice, in ogni città ed allo stesso modo: siete il pubblico migliore.
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033 - Premo il bottone verde con sopra la -A-: il soldato sullo schermo da un calcio alla porta. Premo più volte il bottone giallo contraddistinto con la -Y-, sino a quando non seleziono una granata fumogena. Tengo l’indice destro posato lievemente sopra il grilletto del controller, prendo la mira con la leva analogica e lancio l’ordigno. Nel frattempo che il fumo invade la stanza, pigio il pulsante azzurro con la -X- ed indosso il visore a infrarossi: ora sono pronto per aprire il fuoco con il mio M60, centrando qualsiasi cosa si muova.
Come in quelle simulazioni di guerra con cui i vostri figli, i vostri fratelli, i vostri cugini, trascorrono interi pomeriggi.
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034 - Aggiornamento: Espongo a B., e il giorno seguente a R., la mia volontà di mutare, in parte, la strategia adottata sino a questo momento; sento la necessità, in realtà mi è piombata addosso come un falco, dall’alto, nella serata magica ed allo stesso tempo terribile del 24 aprile 2016, di rivedere alcuni punti, sia per una maggiore efficacia comunicativa, e sia per una questione stretta di sopravvivenza personale, emotiva oltre che fisica.
A lungo andare, procedendo in questa strada, correrei il rischio, concretissimo, di venire dilaniato in mille pezzetti. Ne ho avuto diversi assaggi, nell’ultimo periodo soprattutto: non è gradevole.
B. invita R. a parlarmi della sua teoria, che entrambi chiamano della torretta.
— Spesso ci si concentra troppo sui proiettili, sulla loro natura; invece bisognerebbe partire dal costruirsi una base salda, stabile. Magari hai anche l’impressione di fare centro, forse in alcuni casi è così, ma se vibri quando spari non sei in grado di prendere la mira come potresti e dovresti.
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035 - Una sorta di diversivo: dare l’impressione che il succo del discorso sia la mia storia personale, giusto per guadagnare tempo e organizzarmi per il passo successivo del piano.
È quanto ho detto la mattina del 1 novembre 2014 a M., rivelando forse più del dovuto.
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036 - La prima persona con cui ho parlato, nel dettaglio, degli sviluppi futuri del progetto è stata L.: difficile per lei orientarsi nell’intrico fitto di appunti che le stendo davanti. Non solo mi ascolta con un grado accettabile di interesse, ma fa pure delle domande, muove delle critiche allo scritto che ha appena finito di leggere, esprime dei pareri graditissimi, sia per quanto riguarda la sintassi che i contenuti. Se dovesse ricoprire un ruolo nel mio gioco, penso, potrebbe essere quello dell’editor.
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037 - Mi alzo di scatto e incomincio a correre, il più lontano possibile, noncurante dei brandelli di me stesso che trascino dietro.
In passato era problematico traslare nello spazio più di 80 chili di materia; ora le cose sono sostanzialmente diverse, non so se sia soltanto un trucco del mio cervello, ma mi sembra di volare sull’asfalto, il respiro è regolare e calmo.
Sbircio indietro, per studiare la situazione: nessuno mi insegue. L’effetto sorpresa paga, tra gli ospiti in pochi si sarebbero aspettati una mossa del genere; non si è mai visto il piatto forte che evade dal pranzo natalizio.
Verranno a cercarmi. Quanto vantaggio ho?
Riprendo fiato, con la schiena poggiata contro un muro. Mi son cacciato in un bel guaio, maledico me stesso e il giorno in cui ho dato spazio ad un’idea così insana, perché ora è impossibile non pensarci.
Alzo lo sguardo al cielo: fatemi scendere da questa cazzo di giostra. Nausea e capogiri. Non è affatto divertente.
Una vibrazione all’altezza dei testicoli: il display del telefono è illuminato, c’è un messaggio per me, inviato da un numero sconosciuto.
— Avevamo capito che volessi fare sul serio…—
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038 – “Precedi gli altri nella corsa? – Lo fai come pastore? O come eccezione? Un terzo caso sarebbe che ti fossi dato alla fuga”.
Friedrich Nietzsche – Il crepuscolo degli idoli, 1888
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039 - Sento degli schiamazzi provenire dalla mia sinistra.
Sono già venuti a prendermi. Frugo nelle tasche: niente più pillole, terminate già da diverse settimane ormai. Dovrei guardare in faccia la realtà: game-over, non basta sicuramente un gettone per guadagnarsi un’altra possibilità. Opto così per un taglio netto.
— Faresti meglio a dedicarti a qualcosa di più tranquillo; ai cani ad esempio, visto che ti piacciono tanto. Dammi retta, non conviene affatto immischiarsi in certe faccende.
Le parole di G. mi ritornano in mente all’improvviso, profetiche.
Ho intenzione di dire le cose come stanno veramente: esco allo scoperto, non faccio sconti; loro capiranno, se hanno ancora un briciolo di buon senso.
Il vostro pusher va in pensione, anzi, si scava la fossa e si butta dentro. Fine della storia.
D’altronde, un pusher senza pillole cessa di essere un pusher. Non fa una piega.
Sto giusto per sbucare fuori dal piccolo angolo in cui mi sono rintanato, quando vedo passare un uomo, non più tanto giovane, ma nemmeno così vecchio; ad occhio e croce avrà spedito all’inferno tra le trentacinque e le quaranta primavere, peraltro con discreta disinvoltura.
Mantiene l’andatura sicura, tipica di chi ha capito come funzionano gli affari in certe taverne. Sembra una rock star degli anni 90.
A pochi metri da lui, uno sciame di genti, di tutte le razze ed età, che salmodiano con devozione il canonico campionario di complimenti precotti, per accaparrarsi una mollica di attenzione dal personaggio famoso di turno.
Ti faccio vedere come si fa, sembra dirmi con una smorfia furba sul muso: si ferma senza preavviso, si volta rapido, 180 gradi in un secondo netto, carica il destro…
*
040 - …e il suo pugno si schianta senza esitazione sul grugno di una quindicenne mocciosa cancellando, forse per sempre, qualsiasi traccia dell’espressione ebete che spesso le persone hanno quando vedono materializzarsi all’improvviso il loro idolo. Sento solo uno schiocco dalle frequenze basse e profonde, il resto è una sequenza di immagini che scorrono plastiche, senza audio.
La graziosa frangetta nera che cinge il capo della piccola polpetta di carne umana oscilla per qualche decimo di secondo; gli occhiali dalle lenti troppo spesse per essere vere abbandonano la loro sede abituale per spiccare sgraziatamente il volo, mentre il corpicino della poveretta precipita verso il suolo, l’audio è nuovamente disponibile, in un fracasso di ossa spigolose.
Legge il passo a voce alta, con un’evidentissima smorfia di disgusto, quasi a volermi umiliare, poi rincara la dose, sgombrando il campo da ogni fraintendimento.
— Che merda è mai questa? – esclama il Capo Mondiale Unico dell’Editoria. — Scommetto — prosegue — che non hai mai tirato un pugno in vita tua.
Ha ragione.
— Però ho ricevuto uno schiaffone da un tizio, quando ero piccolo. E ho intenzione di leggere un libro sulla boxe che mi hanno prestato di recente.
Il colloquio che dovrebbe aprirmi le porte del successo ha preso una pessima piega.
— Se fossi in te, cambierei sport. C’è qualcosa che ti piace fare, oltre a perdere tempo con queste schifezze? — sputa rapido mentre fa scorrere, da una mano all’altra, le quattrocento e passa pagine del manoscritto che giace, probabilmente ancora per poco, sulla sua scrivania.
— Grattare la pancia al mio cane — rispondo con convinzione.
— Mi sembra un’ottima alternativa, anzi, dovresti tornare ad occupartene immediatamente. Sarebbe bene mettersi in testa, una buona volta, che sprecare il nostro tempo è un peccato mortale, ed è ancora più grave giocare con quello degli altri.
Sono alle corde, proprio come un pugile, per restare in tema, che si trova a combattere contro un avversario più forte, tecnico, esperto, veloce e preparato. Tento l’ultimo affondo, la mossa del verme: tutti hanno un po’ di compassione, nascosta da qualche parte.
— Non potrebbe darmi almeno un consiglio? Sono sicurissimo che con il suo aiuto le cose saranno molto più semplici. Del resto, ho percorso diecimila chilometri per arrivare sino a qui: non vorrà davvero spedirmi indietro a mani vuote.
Il mio interlocutore butta un’occhiata rapida all’orologio appeso nel muro alle mie spalle.
— Due minuti — avvisa. Poi prosegue con tono annoiato.
*
041 — Quando scrivi, devi immaginare di avere di fronte un bersaglio: le parole sono come dei dardi, scagliati verso l’obbiettivo. Colpire, colpire, colpire, con tutta la forza di cui sei capace, cercando di risultare il più preciso ed efficace possibile. Nel tuo caso, tali abilità sono assenti, senza considerare il fatto che usi una quantità esagerata di avverbi di modo.
Questi aspetti comunque potrebbero anche passare in secondo piano — enfatizza il condizionale — in presenza di una storia, un messaggio, una riflessione di prim’ordine. In questo senso, qual è la tua proposta?
Non aspettavo altro, ecco il mio momento.
— Gettare uno sguardo critico sul rapporto tra artista e pubblico, tra prodotto culturale e mercato, evidenziando le tensioni e le contraddizioni che percorrono questo universo in cui le aspettative dell’utente finale, unite all’estrema e diffusissima necessità di intrattenimenti sempre nuovi determinano il processo creativo che sconfina in una frustrazione inedita e che conduce inevitabilmente…
— Sai quanti libri vengono pubblicati ogni giorno in Italia? — mi interrompe. — Più di un centinaio, e la media tiene conto anche delle domeniche e del resto dei festivi. Tu perchè hai deciso di scrivere queste righe?
— Un tizio una sera mi ha consigliato di rispondere: per divertimento.
— Ma l’editoria non è una giostrina per bambini annoiati.
Cerco di correggere il tiro, anche se ormai è troppo tardi. Sapevo che non dovevo fidarmi.
— In realtà, credo che le idee possano sprigionare un potenziale enorme in termini di cambiamento individuale ma anche a livello collettivo e dunque sociale, con ripercussioni in ambito politico ed economico.
Il Capo Unico dell’Editoria Planetaria mi guarda dritto negli occhi e si scioglie in un riso tenero; magari la strategia del verme sta dando i primi risultati.
— Voi idealisti siete un toccasana per la mia ilarità: mancate di un pizzico di buon senso, ma l’amore e la passione con cui innaffiate le vostre visioni contribuiscono a rendervi degli animali spiritosi. La realtà è un’altra e tu lo sai benissimo: il progetto per cui sei pronto a sacrificarti si trasformerà presto in un delirio senza nessun tipo di fondamento logico-razionale. Sono convinto che anche tu sei già caduto in questa trappola.
Colpito.
— Già. Per qualche mese — ammetto sconsolato — ero assolutamente convinto che FB potesse venire demolito, dal di dentro.
— Poi cosa è successo?
— Ho visto la puntata da due ore e mezza di ‘Blob’, l’ultimo dell’anno, e ho capito che l’umanità non ha nessuna speranza di salvarsi.
*
042 – Nonostante il tono serio della mia affermazione, il Grande Editore esplode in una fragorosa sghignazzata.
— Non essere così drammatico, non ce n’è bisogno. Siamo tutti alla ricerca del posto migliore in cui stare, ma un alloggio comodo ha il suo prezzo; per soddisfare una richiesta simile occorre avere qualche spicciolo in tasca, ed è proprio in questo momento che nascono i problemi. Non è necessario rivoluzionare l’esistente, basta riuscire ad utilizzarlo per raggiungere i propri scopi.
Ci sono una miriade di attività che assomigliano più ad una maledizione del demonio che ad un lavoro, è vero, ma le persone furbe e tenaci, bene o male, riescono ad evitare il peggio.
In molti ritengono, forse a ragione, che tirare su i soldi grazie ad un romanzo sia un’ottima cosa; la concorrenza però, oltre che numerosa, è decisamente agguerrita. Per farcela, per spuntarla, serve calare la carta giusta al momento giusto.
Fa una lunga pausa. Sbuffa. — Ma nel tuo caso penso non ci sia nulla da fare. Dimmi un’ultima cosa: pensi di avere un punto forte?
— Prendo in ostaggio le persone…
— Non voglio problemi con la la legge – taglia corto — ora mi scusi — all’improvviso usa un tono formale — ma sono in ritardo per il prossimo colloquio.
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043 – Un tizio infila un passamontagna nel bagaglio a mano, ripete un gesto ormai trasformatosi in consuetudine.
Alle 21 salirà su un aereo di linea, affidando la sua vita ad un pilota, che lo porterà da Roma all’aeroporto di Cagliari. Lì troverà una macchina ad aspettarlo.
Verrà quindi condotto in un punto non precisato dell’isola, dove potrà svolgere al meglio delle sue capacità il compito per cui è stato ingaggiato.
A volto coperto, metterà piede su di un palco per cantare le sue canzoni.
Dopo un’ora circa di live-show la sua missione potrà dirsi conclusa con successo; guadagnerà una stanza ed un letto pulito, dove attenderà che si faccia un giorno nuovo, per tornare a casa, al punto di partenza.
Questo è il piano, al netto degli imprevisti, ma difficilmente, anche nei casi più fortunati, le cose vanno così lisce.
*
044 – Intercetto il mio uomo dentro al piccolo camerino: è solo, visibilmente agitato; qualcosa probabilmente non è andata come si aspettava.
Si lamenta per un calo di voce, che l’ha colto di sorpresa proprio nel bel mezzo della performance, un fatto inedito, mi assicura, ed è proprio per questo che non riesce a gestire lo spavento.
— Dev’essere colpa dell’umidità — provo a tranquillizzarlo – anche a me una volta è successo; per tre giorni ero praticamente afono, poi si è risolto tutto. Vedrai che passerà.
Le mie parole non sembrano sortire nessun effetto apparente, insisto comunque. Con il passare dei minuti il ragazzone incomincia a farsene una ragione e smaltisce, assieme al sudore, una piccola parte di quelle futili preoccupazioni.
La giostra degli eventi fa si che ci incontriamo più tardi, all’interno di un auto.
L. e il suo Dj sono affamati, A. e M. decidono di accompagnarli a mangiare qualcosa di caldo in una nota paninoteca ambulante, di fronte al lungomare; mi propongono di andare con loro, accetto volentieri. Son seduto comodamente nel sedile posteriore assieme agli ospiti. Nessuna via di scampo: ho a disposizione almeno una ventina di minuti, mentre le armate della morte capitanate dal figlio prediletto di Sir Alexander marciano decise verso i bastioni eretti a guardia del mio inconscio.
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045 — Dev’essere una bella responsabilità cantare di fronte ad un pubblico di adolescenti — attacco.
L. risponde con la calma e la determinazione tipica dei saggi: sente, è vero, il peso di quel ruolo; è consapevole del fatto che ogni singola parola ha un valore notevole. Nel suo piccolo, dunque, cerca di lanciare un messaggio forte, che aiuti ad innescare un pensiero critico nelle teste di chi, non solo per una questione anagrafica, ha la possibilità di intervenire sensibilmente sul reale.
Le intenzioni sono davvero lodevoli: ha l’espressione sincera di una persona che crede fermamente nel discorso che porta avanti; il successo della sua proposta, nel tempo, è cresciuto in maniera esponenziale. È una diretta conseguenza del suo atteggiamento.
Ci vuole grande fermezza d’animo, tenacia e lucidità per non lasciarsi sedurre dal tintinnio del denaro, che si avvinghia al culo dei primi applausi. Un cammino difficile, in cui tanti hanno già smarrito i buoni propositi. Spesso serve l’intervento decisivo dei compagni di viaggio, che devono essere altrettanto assennati e decisi, pronti a riportare sulla retta via il genio confuso. Le tentazioni banchettano con il cuore, il cervello e, parliamoci chiaro, con il portafoglio.
La mia attenzione si sposta sul suo socio, che fino a quel momento è rimasto in disparte, avvolto nel silenzio.
Gli pongo la medesima domanda, ma i propositi del Dj, non lo nasconde minimamente, sono differenti. Ha qualche anno in più rispetto al collega e le idee ben appuntite:
– È il mio lavoro – sibila, mitigando il tutto con un faccino malizioso. La sincerità andrebbe sempre apprezzata anche quando non si sposa con le nostre aspettative.
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046 – Aggiornamento: digito il nome d’arte del Dj sul motore di ricerca di FB e la sua vita, soltanto la parte professionale, sia chiaro, esonda con prepotenza: attualmente, chissà da quanto, accompagna un puledro di prim’ordine in giro per club affollati, come spalla di uno degli artisti più in vista del panorama musicale italiano. Niente più incitamenti alla rivolta, almeno è stato coerente.
L’ennesimo episodio di una sceneggiata che ormai ha il fascino del classico; un best-seller pubblicato per la prima volta milioni di anni fa, ma che ancora conquista i suoi lettori. Gli ingredienti ci sono tutti: illusioni, sacchi di mangime infetto.
Diventiamo così bravi a combattere il nemico che poi questo ci arruola nelle sue fila: “puoi continuare a dire quello che vuoi, o quasi, ma non spaventarti; la tua dignità di artista non è messa in discussione. In cambio spazzo via le nuvole nere che ti scortano in questa lotta alla sopravvivenza; con un colpo di prestigio farò sparire la metà dei tuoi affanni, il resto sarà simile ad un party senza fine: vivrai per seminare gioia e spensieratezza nel cuore del prossimo, il tuo sforzo sarà ricompensato con sfarzi e piaceri che si riservano soltanto ai principi”.
*
047 - Sino a quel momento lo scambio di battute si era sviluppato lungo i binari della decenza e della sobrietà; nel giro di qualche secondo però, i ritmi della conversazione avrebbero subito, principalmente per causa mia, una brusca accelerata. La connessione era stata aperta: non rimaneva che intensificare il flusso.
Forse, il brutto di fare un lavoro che, per sua natura, implica il contatto con la gente è proprio questo: ti immagini un sabato tranquillo, senza intoppi, ed invece, quasi per scherzo, spunta fuori un pazzo in pieno delirio che mitraglia dentro al tuo padiglione auricolare storie, aneddoti, riflessioni più o meno serie, considerazioni varie ed eventuali, osservazioni e critiche, come se ti conoscesse da secoli.
Non so spiegarmi bene il perché, ma mentre parlavo con L. emergevano innumerevoli aspetti del mio passato che sino a quel momento non avevo ponderato con la giusta considerazione.
La filosofia, passione in comune, è stato un ariete validissimo per sciogliere l’imbarazzo iniziale, ma tutto quello che è accaduto dopo è semplicemente un’altra storia. Il mio interlocutore è costretto a prenderne parte, mentre divora un panino con dentro una salsiccia impantanata in una pozzanghera di salse colorate.
*
048 - Cosa è l’anima? — domanda una bambina, forse troppo curiosa, alla madre.
— Potremmo iniziare a capire cosa sono i flashback, se sei d’accordo — risponde quella temporeggiando.
*
049 – Situazione di partenza. Prendi un diciannovenne che non è mai uscito, se non per insignificanti eccezioni, dal buco di piccole viuzze e casette anonime, inscatolate alla perfezione nell’asfissiante geometria urbana tipica della periferia italiana preconfezionata.
Una realtà, simile a tante altre, in cui le persone annaspano in attesa di quel black-out chiamato morte che risolve, in maniera a quanto dicono definitiva, tutta una serie di difficoltà insormontabili.
Il punto di rottura. Salgo sopra ad un treno, viaggio per alcune ore trapassando come un ago da piercing, da parte a parte, le distese infinite, una grande pianura secca, della mia regione, sino ad arrivare al mare. Non basta.
Colate di cemento, lasciate cadere a caso, in modo anonimo, svogliato, senza nessun criterio estetico; il porto, una passerella in metallo, infine la nave.
Un grosso contenitore galleggiante che si muove lento, così nel frattempo sei quasi obbligato a consumare prodotti scadenti spacciati con spiccata antipatia da un esercito di napoletani.
Dodici ore, un altro porto, simile al precedente ma più grande, più grigio, più triste. Grate, container, mezzi pesanti in manovra.
Le indicazioni ci guidano verso la stazione centrale, un treno, poi un’altra stazione, ancora più grande della precedente.
Milano. Una vescica gonfia che spruzza i suoi liquidi in molteplici direzioni, contamina l’Europa intera, continente sterminato, gigantesco, soprattutto agli occhi di chi ha sempre avuto a che fare con un rettangolino di roccia dura senza niente di valore né sopra e né sotto, con troppa acqua salata tutt’attorno: un muro invalicabile sul quale manco ci puoi appendere i poster dei tuoi cantanti preferiti.
Interrail. Chilometri, fagocitati da grandi vermi di acciaio sparati a velocità supersoniche.
Un’altra stazione, ennesimo cambio. Settantadue ore di viaggio, non pensavo che la stanchezza potesse produrre episodi allucinatori. Ora sono abbastanza lontano per poter osservare casa mia da un’altra angolazione.
Copenaghen. Freddo pungente.
Mi affaccio dall’entrata principale della stazione per guardare la città, ma il buio è troppo fitto. Due tizi si avvicinano, primo contatto con gli indigeni: — Vuoi dell’ecstasy? — bisbiglia uno, in inglese, attraverso i varchi del suo apparato dentale.
*
050 - Dov’è il posto più strano in cui avete dormito? Mi sveglio all’improvviso da quello strano sogno. Intorno, scricchiolare di mascelle, puzza di cipolle e aceto.
Qualcuno risponde: un tavolo, il pavimento di un bagno, il sedile di una vecchia Panda. Questione di attimi: il mondo che sbatte contro le pupille sode e nere perde il primato nella classifica dei bersagli della mia attenzione.
*
051 - Una famiglia di indiani, lui, lei e due bimbe, aspetta un nuovo giorno con il culo poggiato su una lastra di marmo, appena sotto un manifesto pubblicitario che cerca di convincerci sulla bontà e l’estrema convenienza di un’innovativa barretta di cioccolato ricoperta da una pseudo mistura di cereali.
Uno zombie si occupa della pulizia dei pavimenti: guida una macchina, ronzio continuo, che cela al suo interno uno spazzolone rotante mangia sporco.
Saracinesche abbassate: cappuccini e gadget diventeranno disponibili soltanto all’alba, per ora sono un’inutile promessa.
Mi infilo dentro ad una cabina per fototessere, chiudo la tendina e cerco di fare altrettanto con le palpebre: — Morfeo, dove sei finito? — supplica la mia faccia distrutta che appare d’incanto sulla superficie dello specchio.
Come in tutte le favole a lieto fine, quel non-luogo riprende vita, si trasforma in formicaio.
Aggiornamento: avrei dovuto scattare quella foto. Sarebbe stato divertente poterla rivedere adesso.
*
052 - Non è assolutamente necessario catapultarsi in qualche buia frazione di mondo per apprezzarne la stravagante varietà, è una qualità percepibile anche solo guardando attentamente il fiume stanco che scorre di fronte alle finestre delle nostre case, ma serve un acuto spirito di osservazione, merce rara nella maggior parte dei punti vendita, per coglierla in maniera adeguata.
Perché spesso il quotidiano si trasforma in un laccio emostatico che blocca, sino alla necrosi, l’arteria della nostra sensibilità.
Scontiamo la detenzione giocherellando con gesti e pratiche sterili, siamo piccoli sacchetti in plastica da riempire con i rifiuti.
Rompere, in modo brusco, anche per un breve periodo, con la dimensione abituale in cui agiamo è senza dubbio una comoda scorciatoia: la meraviglia può espandersi libera, aprendo la strada alla scoperta, primo passo nella scala dell’apprendimento e della conoscenza più autentica.
*
053 - Banalità, si direbbe, ma di quelle pesanti: macigni precipitano su concezioni giurassiche del mondo. Gli orizzonti si allargano anche con i calci, gli spintoni rabbiosi.
Una nonnina vecchia e bassa si avvicina con una spontaneità disarmante: sfida le nostre facce poco rassicuranti, così almeno ci hanno convinto a credere dalle nostre parti, per aiutarci a trovare la giusta posizione in una cartina che di punto in bianco, per dispetto, diventa incomprensibile.
La diffidenza non è un valore universale dunque.
Un signore ci osserva appollaiato alla finestra; stringe una lattina di birra, saluta con un gesto, un sorriso ed un rutto.
Sentirsi a proprio agio senza sapere il perché, certe cose si intuiscono appena, riuscire a camminare in quelle vie con una serenità mai provata prima.
Questione di latitudini, longitudini, tassi di umidità differenti?
Bellezza nordica. Giovani ragazze passeggiano lungo i viali del centro; occhi azzurri rimbalzano da una vetrina ad un’altra, Carlsberg Elephant da passeggio indossate con spavalda noncuranza, quasi si trattasse di una borsetta Chanel. Una ci sfiora, spurga i bronchi, rumore familiare, tutto il mondo è paese, poi sputa per terra, catarro più giallo del biondo che ha in testa.
Cartoline, momenti indelebili: la città libera di Christiania. Il primo felafel, il primo incontro con lei.
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054 - I supermercati sono le lampade di Aladino per eccellenza: esprimi un desiderio, individui il reparto giusto e fai canestro dentro al carrello con il prodotto che cercavi. Bisogno-soluzione, rapporto semplificato all’eccesso, niente di più facile.
All’epoca a Copenaghen, parliamo del 2000, non riuscivamo a trovare acqua naturale nei negozi di alimentari: solo pile enormi di bottiglie trasparenti con dentro le bollicine, nessuna traccia della bevanda nella sua manifestazione originaria.
Sembra impossibile, ma cercare con maggiore attenzione non serve. Ci arrendiamo all’evidenza, senza fare troppe domande.
Una tipina francese legge a piccolissime dosi un libricino minuto quanto lei, mentre becca svogliata un po’ di cibo poggiato su un piattino. Nel frattempo, non troppo distante, cinque tizi, tra urla, imprecazioni e tonnellate di spaghetti al tonno, fanno il massimo per conquistarsi la palma di più strambi del campeggio. Ci riescono del tutto, stracciando la concorrenza, quando iniziano ad agitare dei bottiglioni di acqua gasata, con rara foga e visibile convinzione. Dopo trenta secondi, svitano il tappo da quegli ordigni improvvisati per dissetarsi, finalmente, a grandi sorsate, nascondendo a fatica le smorfie di disappunto.
Come faranno gli abitanti della Danimarca a sopravvivere con tutte queste bolle nello stomaco?
Vengo da un mondo in cui dai rubinetti spesso e volentieri sgorga una strana sostanza giallognola; altrettanto spesso, la popolazione viene invitata a non utilizzarla per cucinare.
L’Italia, dicono le statistiche, è il paese in cui si registra il consumo più alto di H2O in bottiglia di tutta Europa. Premesse che si solidificano e danno vita a conseguenze inevitabili: atteggiamenti sedimentati con il tempo, nella grotta delle nostre abitudini. Totem enormi di ottusità da abbracciare con affetto morboso. Sventoliamo con orgoglio la bandiera della nostra inadeguatezza.
L’allegra signora che gestisce il campeggio mette fine a quel ridicolo saggio di italianità, rispondendo a tutti i nostri dubbi con un sorriso. Ci invita a seguirla e, una volta giunti di fronte al lavandino del bagno, apre la valvola, con il fluido che inizia a sgorgare.
– È l’acqua più buona che avete mai bevuto. Assolutamente gratis.
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055 — Quella lezione mi è servita per comprendere — dico a L. — e forse lo faccio veramente per la prima volta solo ora, che molte delle cose che ci fanno stare bene, che ci rendono felici, non sono vincolate da un discorso di tipo economico.
— Fammi un esempio.
— A me personalmente piace da pazzi grattare la pancia al mio cane, un’attività che mi riempie di gioia, per la quale non sborso un centesimo.
A voler offrire un’analisi più dettagliata e precisa, ci sarebbe da mettere in conto le spese di mantenimento della bestiola, un aspetto non proprio secondario ma che permette di accedere ad un bacino vastissimo di soddisfazione.
— Non possiamo passare tutto il tempo appresso ad un animale — obbietta con prontezza L.
— Questo è vero, ma al contempo è assurdo che migliaia di ragazzi sognino di diventare dei rapper per realizzarsi o forse, più semplicemente, per sbarcare il lunario in maniera agevole. Sarebbe il caso di trovare qualche altro stratagemma per soddisfare le nostre necessità.
Chi riesce a fare della musica il proprio lavoro viene considerato un privilegiato, baciato in fronte dalla fortuna, ma è un’opinione che deriva dal confronto con coloro, la maggioranza, che sono incatenati agli impieghi più assurdi per pochi euro. Se ci fosse maggiore dignità per questi ultimi, forse le nostre valutazioni cambierebbero sensibilmente.
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056 - L’uomo che vive nelle grandi città è davvero un esemplare curioso: la distanza che talvolta lo separa da resto del regno animale, dalla natura in genere, assume contorni grotteschi, lo trasforma in una caricatura buffa. Il primo indizio, raccolto sul campo, risale a tantissimi anni fa: I., il chitarrista di un gruppo di Milano che ospitai a casa durante un loro mini-tour dalle mie parti, saltò letteralmente in aria quando vide una piccola farfallina bianca entrare dalla finestra spalancata nel soggiorno in cui stavamo facendo colazione. Gli schiamazzi mi sembrarono a dir poco esagerati.
Una scena analoga è capitata con L.: il gabbiano che si materializza alle nostre spalle attira la sua attenzione con la stessa forza di un calcio nelle palle, tanto da costringerlo a gridare: — Guardate!! Guardate!!
La sorpresa provata da noi tre autoctoni è decisamente più contenuta, mentre l’altro straniero, lungi dal farsi ammaliare da un pennuto, pensa che il collega si stia riferendo al sedere rotondo delle due ragazze a pochi metri da noi.
La discussione scivola di conseguenza sulle rispettive situazioni sentimentali.
L. difende in maniera magistrale il suo punto di vista, che all’epoca non riuscivo ad accettare, ma che con il tempo ha assunto un’importanza primaria. In sostanza i pensieri, i desideri, le nostre intenzioni giocano un ruolo chiave, al pari delle azioni; il tradimento può compiersi anche con uno sguardo.
Certo che no, rimugino tra me e me. Tra immaginare di sfondare il cranio allo chef che cucina wurstel e salsicce dall’altra parte del banco e farlo per davvero c’è una netta differenza, anche in termini legali.
Nel frattempo ci spostiamo in macchina, pronti per il rientro. L. insiste:
— Hanno realizzato un esperimento: tot persone di fronte ad un piano inclinato in cui sono applicati dei pioli. Si lasciano quindi cadere delle palline, che possono dirigersi alla destra o alla sinistra di ogni singolo segmento, in maniera del tutto casuale. A quanto pare, la forza del pensiero degli individui riuscirebbe a influenzare il moto della maggior parte delle sfere, in maniera piuttosto netta.
Siamo chiusi nell’abitacolo della vettura, intrappolati, fermi immobili sull’asfalto, tra tante strutture identiche alla nostra.
— Guardati attorno, viviamo in una gabbia e tu mi vieni a parlare di psicocinesi e di palline colorate? — replico bruscamente.
Ero incapace di scrollarmi di dosso una concezione materialistica della realtà, incentrata esclusivamente su aspetti economico – politici, che mi impediva tra l’altro di aprire alla possibilità che l’esistente, e il nostro essere gettati in esso, potesse assumere significati diversi.
Negavo sul nascere qualsiasi considerazione alternativa rispetto alle classiche posizioni dietro alle quali mi trinceravo con un’ottusità eccezionale, da medaglia d’oro; soffocavo, senza prenderlo minimamente in considerazione, qualsiasi discorso che non rispettasse i canoni, gli standard delle mie convinzioni.
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057 - Mastichiamo con disinvoltura, manco si trattasse di una gomma americana alla fragola, termini di cui magari ignoriamo la profondità: hard-core, in ambito musicale, è diventato con il tempo un semplice aggettivo, un marchio utile per abbellire la propria proposta, uno stratagemma puerile per auto-definirsi puri, intransigenti, schietti, coerenti, a differenza dei pecoroidi con cui siamo costretti ad avere a che fare.
La nostra escursione sta per terminare, mi affretto per un ultimo scambio di battute.
— Cosa ti rimarrà dopo questa serata? Sarai capace di portarti appresso qualcos’altro oltre al cachet?
La musica è un’attività che permette di entrare in contatto con tante persone che non conosci: rende possibile lo scambio, il confronto sincero. Questo è quello che distingue l’hard-core, ad esempio, dalla musica commerciale. Va oltre gli argomenti che tratti nei testi, è una modalità peculiare con cui ti rapporti con gli altri.
— Non significa — proseguo — che devi diventare automaticamente amico di chiunque incontri ad un concerto o di tutti quelli che organizzano una serata, sarebbe impossibile ricordare ogni volto, soprattutto se te ne sfilano davanti svariate centinaia alla volta. Ma facciamo finta che io e te, tra vent’anni, ci ritroviamo nella medesima stanza d’ospedale, entrambi malati terminali.
Con la mano si stringe rapido le palle.
— Non dirmi che hai paura di morire — gli dico tra le risate. Poi riprendo. — Se non ricorderai assolutamente nulla di questa giornata, nonostante i miei tentativi, o se peggio ancora, farai finta di non riconoscermi (le star delle volte hanno poco tempo da spendere e ancora meno pazienza nei confronti dei fan), significa che abbiamo sbagliato ad invitarti stasera, perché quello che canti non corrisponde a quello che sei.
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058 - Aggiornamento: nel frattempo L. ha continuato a suonare in lungo e in largo in giro per l’Italia. Ho letto in un’intervista che la musica è diventata la sua fonte di reddito principale; gli permette di affrontare le spese, pagare quotidianamente il pedaggio per calpestare il mondo e muoversi tra le sue molteplici contraddizioni. È passato alcuni mesi fa da queste parti, ma non sono riuscito a parlarci: mi sarebbe piaciuto constatare se negli occhi conservi ancora quel bagliore, quella furia sincera, o se si sia già trasformato dopo due giri di pista in uno scaltro intrattenitore.
Proverò, prima o poi, a metterlo al corrente di queste righe, perchè credo ancora che sia poco educato parlare di una persona senza che lui lo sappia, seppur in maniera anonima.
Comunque sia, non sarà l’epicentro della mia ricerca, quest’ultimo invece è rappresentato dai giovani ragazzi che investono risorse per seguirlo: stanno davvero immagazzinando un combustibile valido per tentare di modificare, in maniera sostanziale, il proprio presente? Oppure è soltanto l’ennesima parentesi tra una valanga di noia e la successiva?
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Aggiornamento II: alcuni giorni dopo la pubblicazione di queste righe, L. mi ha mandato un messaggio privato, che riporto in maniera integrale.
Ciao ******. Certo che ricordo, e ho ancora la calamita che comprai. Ho letto tutto. Comunque ci sono un paio di errori dovuti probabilmente al dialogo. Uno di quelli per esempio è l’esperimento di fisica quantistica. Non sono due palline, sono due fotoni lanciati contro una parete e ciò che cambiava la via d’uscita di ogni singolo fotone era l’aspettativa del singolo, non stavo parlando di idee ma di materia. Considerato che siamo composti di fotoni questo in effetti ha una notevole rilevanza nel modo in cui “rendiamo” noi vere e possibili determinate cose.
Comunque al di là di questo sono cambiate un sacco di cose, probabilmente anche quella luce. Sentirsi sempre osservati e giudicati ti aggrappa a terra, ti lega ad un piano reale e fa venire voglia di slegare dal polso quei palloncini gonfi di idee a cui mi aggrappo da una vita…
Comunque il 16 luglio suono ad *******. Se ci sei ci vediamo, mi piacerebbe leggerne il cambiamento. È sempre strano vedersi con gli occhi degli altri e mi piacerebbe sapere cosa è cambiato.
Anche il gesto delle palle, è stupido vedermi dentro certe cose, probabilmente retaggi culturali e sociali di Roma che si appiccicano ovunque o semplicemente l’età.
Hai visto il dj invece come è rimasto sincero?
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059 - Un cantastorie dovrebbe prestare particolare attenzione alla sua giugulare: è lì che scorre la linfa vitale, certo, ma a differenza di quanto succede agli altri animali, in quel canale si trovano i semi che poi andranno a comporre i racconti. Questi si formano tra le stanze calde del cuore, grazie all’impeto elettrodinamico delle emozioni.
Una sera ho chiesto a due musicisti, uno suonava il violino, l’altro la chitarra, se fossero in grado di descrivere, con parole semplici, che di solito si usano per parlare con i bambini, quello strano fenomeno chiamato ispirazione.
— Il compito è più complicato del previsto — ammette il secondo, dagli occhi di un azzurro profondo e spettrale, prima di lasciarsi cogliere di sorpresa dal silenzio.
Un fiume in piena, che ha origini remote: una sola goccia di quel portentoso liquido ha la capacità di incendiare la mente, non c’è possibilità di interrompere o alleviare il cataclisma che si abbatte sui piccoli villaggi in cui le nostre intuizioni sonnecchiano stanche.
A metà strada tra una benedizione e un flagello; furia selvaggia, passione travolgente; un tiranno conquista il trono del pensiero, governa le azioni. Un burattinaio muove i fili, socchiude gli occhi pregustando già il risultato.
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060 - Non c’è niente di più angosciante per un cantastorie dell’esaurire i racconti, eppure il rischio che quella ricchezza inaridisca è concreto.
Per un breve periodo mi sono divertito, assieme ad un gruppo di amici, a dare un taglio cinematografico alle visioni che sfilavano nella esclusiva passerella della mia immaginazione. È facile cadere nella trappola dell’ingordigia: concluso un raccolto si pensa già al successivo.
Sino a quando l’incubo prende forma: la scatola cranica disabitata. Alla domanda “c’è ancora qualcuno la dentro?”, risponde solo l’eco.
La tentazione è quella di risolvere la faccenda in maniera meccanica: prendere la rincorsa e sfasciare la mia capoccia contro il muro; che le schegge e i frammenti d’osso possano sparpagliarsi per tutto il globo, tra quei cocci ci sarà pure un barlume luccicante da salvare, da cui ripartire.
Dov’è finita la mia verve?
Il mondo si chiude a riccio, nasconde ermetico il senso; appare terribile, monotono, una distesa di ghiaccio inespressiva.
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061 - Osservare con occhi diversi, come prima cosa.
Trasformiamoci in cani da tartufo, perennemente a caccia del sublime; con la pratica, diventa un gioco piacevole, zeppo di sorprese e soddisfazioni.
La materia prima è fondamentale, solida e grezza come una grossa pietra che sotto le cure attente dello scultore assume una nuova forma e irradia il suo messaggio.
Quanta perfezione si cela in una pozzanghera che riflette l’universo intero; l’infinito che si tuffa in pochi centilitri di acqua sporca.
Eppure, tutto può essere poesia: il catrame rovente, granuloso e nero; il grande rullo che lo appiattisce senza pietà, tra i fumi e le bestemmie silenziose dei due operai in tuta arancione. L’impassibilità degli alberi, che regalano pochi secondi di ombra ai passanti, afflitti per abitudine, senza particolare motivo. Più in alto, invece, aerei militari, frutto della moderna tecnologia meccanica, condividono rotte e traiettorie con gli uccelli migratori.
Ogni singola molecola partecipa all’inno dell’assurdo.
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062 - “In primo luogo c’è il mondo dei corpi fisici: delle pietre e delle stelle, delle piante e degli animali, ma anche delle radiazioni e di altre forme di energia fisica. Chiamerò questo mondo fisico «Mondo 1». […]
In secondo luogo c’è il mondo mentale o psicologico, il mondo dei nostri sentimenti di piacere e di dolore, dei nostri pensieri, delle nostre decisioni, delle nostre percezioni e delle nostre riflessioni. In altri termini: il mondo degli stati e dei processi psicologici o mentali, e delle esperienze soggettive. Lo chiamerò «Mondo 2». […]
Il mio argomento principale è però volto a difendere la realtà di quello che propongo di chiamare «Mondo 3». Intendo il mondo dei prodotti della mente umana, come i linguaggi, i racconti, le storie e i miti religiosi; o, ancora, le congetture e le teorie scientifiche, e le costruzioni matematiche; oppure le canzoni e le sinfonie, i dipinti e le sculture. Ma persino gli aeroplani e gli aeroporti, o altre prodezze ingegneristiche”.
Karl R. Popper – I tre mondi
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063 - L’ispirazione è una festa ad invito, sostiene qualcuno; per pochi eletti, per coloro che riescono a fare breccia nel cuore delle muse.
Eppure, se solo riuscissimo a vederle, tutte quelle idee! Palloni aerostatici che fluttuano sulle nostre teste; stormi di aquiloni di passaggio, colorati e leggeri: per acchiapparli basterebbe giusto tornare bambini per un attimo, chiudere gli occhi e afferrarli con la mano.
Il processo creativo è spesso frutto di un lavoro collettivo. Sarebbe bello assaltare in massa ed occupare perennemente i territori dell’estro: ridurre il tutto a una semplice strategia, rendere pubbliche le regole del gioco, trasformare i topi schifosi che si radono ogni mattina di fronte allo specchio in farfalle capaci di riempire di bellezza il mondo con un semplice battito di ali.
Considerando come vanno le cose, servirebbero più artisti, almeno dieci a testa, sempre pronti all’intervento, per rendere gradevole la permanenza in questo strano luogo.
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064 - Ci sono innumerevoli modi per abitare il mondo.
Si può subire il male: migliaia di frustate tracciano un solco profondo nella schiena nuda, lo schiavo che spinto all’apice del disumano dimentica anche il semplice calore di un sorriso; la faccia macchiata dal disgusto, appiccicato come un adesivo.
Indossa un coliere di pura corda, poi un saltello, giù da uno sgabello, senza toccare terra.
Il gorgoglio sordo, gola strozzata, tenuta stretta da cento mani invisibili, così non passa manco uno spiffero, e tutto finisce in una pisciata calda; il liquido cola, per l’ultima volta, lungo le gambe; un addio umido scritto sopra il blue sintetico dei jeans. Un modo come un altro per formattare il sistema: ritenta, sarai più fortunato.
Dentro di noi il manicomio perfetto, il lebbrosario in cui scontare la quarantena. Il monaco, solitario dentro la sua cella, che invoca dio nella speranza di superare l’ennesima notte di tormento.
Si può ignorare il male: tentare di schivarlo, una finta rapida, doppio passo, tunnel, dribbling stretto e via ancora di corsa sulla fascia.
Oppure, ancora, sforzarsi di vedere il comico nel tragico, senza lasciarsi coinvolgere. Difendere il proprio buon umore: abiti pesanti e pancia a prova di scasso, perché in fondo l’equilibrio è tutta una questione di viti, dadi e bulloni.
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065 - Ci sono innumerevoli modi per abitare questo mondo: uno è quello tipico del pescatore, che sfida con la sua umile canna le profondità dell’abisso.
Gli spunti non mancano mai: si tratta soltanto di aspettare che il pesce abbocchi al nostro amo.
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066 - Spezziamo una lancia in favore del verme, mandato in avanscoperta senza manco una parola di incoraggiamento o una pacca sulla spalla. Alla fine della fiera, il merito di una buona pesca spetta, di diritto e per definizione, al pescatore: è stato bravo oltre che fortunato, tornerà felice a casa sua, soddisfatto per quanto fatto durante la giornata, ma non un pensiero per quel martire travestito da esca che ha reso possibile il verificarsi del fenomeno.
Povero verme, preda che richiama altre prede, ne condivide il destino.
Muoviti sinuoso, attira come calamita, sforzati di essere sexy, appetibile, invitante, provocante; meglio ancora: irresistibile.
Nessuno piange per te, chissà se pure tu hai un cuore o qualcosa di simile, ma anche se fosse sarebbe comunque troppo piccolo e dunque insignificante. Neppure un briciolo di gloria, del resto non sapresti che fartene: sei un traditore, il tuo epilogo si conclude nell’inganno tra le fauci di un essere ingenuo quanto te.
Meriteresti molto di più, a dire il vero: in un mondo più equo, più riconoscente, ci sarebbe un applauso in tuo onore ogni qualvolta porti a termine la missione.
*
067 - Nel terzo mondo di Popper sguazza il conoscibile e il non ancora conosciuto. Il tempismo è un aspetto determinante: è tutto a nostra disposizione, pronto a deflagrare in un’esplosione dirompente di verità.
In un primo momento le entità del Mondo 3 godono della purezza dell’originalità assoluta; le insozziamo noi, imprimendo con un marchio a fuoco il nostro nome. Diventano una proprietà privata, frutto (il)legittimo di un’intelligenza strepitosa. E via di corsa all’ufficio brevetti. Che nessuno si azzardi più ad allungare le grinfie sulla mia prole intellettuale.
Niente si crea, tutto si (ri)scopre: più che talenti ingegnosi, siamo filippini in servizio nella dimora delle Idee, armati di straccio e spolverino lucidiamo ciò che nel regno del possibile esiste già.
Non ho nessun bisogno di una dose ulteriore di assilli, mi bastano quelli già compresi nel prezzo, inseriti alla voce varie ed eventuali del rendiconto annuale. Il processo creativo si riduce a questo: una giornata passata sulla riva di un fiume, a scrutarlo semplicemente nel suo esistere.
Mi godo il tepore del sole, il lento strisciare in cielo delle nuvole obese, l’armonia di vibrazioni che dal culo di un’ape si diffonde inesorabile fino a solleticare le fibre sottili dei fili d’erba; milioni di infinitesimali attori inconsapevoli che partecipano ordinatamente allo spettacolo.
Qualcosa, chissà perché, strattona la lenza sottile. L’allarme suona, impazzito; riusciamo ad immaginare il frastuono assordante di mille caccia bombardieri in picchiata sull’obbiettivo?
Tiro fuori dall’acqua un minuscolo pesciolino: che sarà mai di fronte all’eccezionale bellezza dei capolavori dell’arte mondiale?
Per questo dovrei sentirmi un essere inutile? No di certo. D’altronde, cosa c’è di meglio di trascorrere la propria esistenza dedicandosi, mente e corpo, alla pura contemplazione?
I vari aspetti della realtà ci sculettano, di fronte, seducenti; un dettaglio trascurabile si trasforma in una miniera di considerazioni fai-da-te a costo zero, utilissime per sedare il tedio.
Un esempio?
*
068 - Valencia, 2013
Sotto la superficie di diversi agglomerati urbani fermenta un cosmo attraversato da treni rumorosi che trasportano centinaia di umani alla volta, da un capo all’altro della città, a tutte le ore: ognuno si alza dal letto per un motivo ben preciso, portandosi appresso, ben sigillati, nella pancia, piccoli ovuli di malessere incolore e insapore. Deportazione quotidiana scandita al minuto: l’apnea forzata dura il tempo di sgranocchiare qualche fermata, oppure, nel peggiore dei casi, diverse decine di chilometri.
Buenos Aires, San Paolo del Brasile, Toronto, Santiago del Cile, Città del Messico, Boston, Chicago, New York, Pechino, Shangai, Shenzhen, Busan, Seul, Osaka, Tokyo, Delhi, Teheran, Vienna, Bruxelles, Parigi, Berlino, Colonia, Hannover, Stoccarda, Monaco di Baviera, Milano, Oslo, Mosca, Barcellona, Madrid, Stoccolma. Giusto per citare le metropolitane più grandi.
Non è necessario visitarle tutte per intuire gli aspetti in comune, è sufficiente una semplice astrazione.
In ogni stazione, o quasi, possiamo scommetterci, ci sarà un bar, spesso appena più grande di uno sgabuzzino; un punto ristoro; una rivendita di giornali, tabacchi, caramelle-camuffa alito e accendini. Tranci di vita sepolti per svariate ore al giorno, per svariati giorni all’anno.
Moderne miniere in cui chi ci lavora rinuncia, come in passato, alla luce naturale; invecchiatoi crudeli legittimati dalla Santa Legge della Divisione del Lavoro; decine di migliaia di individui costretti a dimenticare l’odore dell’aria buona, tumulati prima del decesso. Potrebbero spiegarci tranquillamente come ci si sente a stare dentro ad una bara.
*
Aggiornamento I: Come ci passo di fronte, le porte scorrevoli si aprono, forse anche troppo cortesi, permettendo così ai tanfi presenti all’interno della profumeria di raggiungere in maniera coatta le mie narici.
Le dipendenti, tre ragazze vestite in maniera identica, pantaloni neri e maglia fucsia, non sembrano farci caso: chissà quanto ci avranno messo ad abituarsi al fatto di lavorare, per otto ore al giorno, dentro ad un locale in cui l’ossigeno sa di ciliegia, fragola e detersivo al limone.
*
Aggiornamento II: — Benvenuti da ***********!!!! — recita con voce squillante, la tizia dietro il banco, appena ci vede sbucare tra i primi scaffali pieni di bambole, pupazzi e scatole di costruzioni. Si preoccupa subito di assisterci nella scelta del regalo: si informa sull’età e il sesso del bimbo, oltre che sulle nostre preferenze. Illustra, con enfasi, i pregi, i potenziali didattici degli oggetti in esposizione: tessere in legno con i numeri stampati sopra, cubi in legno con le lettere dell’alfabeto in bella mostra, abachi, giochi da tavolo, statue di animali e macchinine di ogni tipo, droni volanti telecomandati. In sottofondo una fastidiosissima canzone, come quelle che si sentono continuamente nei programmi televisivi per marmocchi.
— La musica la scegli tu? — le dico con tono scherzoso.
— Purtroppo no — un broncio spunta all’altezza della bocca come un bernoccolo. —Fa parte della strategia pubblicitaria dell’azienda. I brani vengono riprodotti in loop, mi trapanano la testa.
Ci offre un piccolo saggio, canticchiando ‘KikoNico‘, la hit dedicata alla mascotte della catena.
Tutto quello che puoi immaginare è in KikoNico, perchè KikoNico è bontà, KikoNico è unico, non è perfetto ma è felice, ha un piccolo rammendo, una testa molto grande e un orecchio più grande dell’altro.
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069 - Io non sarei così pessimista se fossi in te; non ti conviene, non fa bene alla salute — mi suggerisce la voce.
Maggio, 2007
Un’infermiera rumena si guadagna il pane: tampona con un pezzo enorme di cotone il cratere scavato all’altezza del mio coccige; la caverna di carne viva prende fuoco, brucia, mentre viene disinfettata a dovere da uno strano tipo di pece rovente.
Punto primo: esistono i turni, li hanno inventati per questo. I poveracci a cui mi riferisco, a Caracas come a Bombay, mettono a disposizione, nel salvadanaio collettivo, un terzo della loro giornata, forse qualcosa in più, quando va male. Il resto lo trascorrono esattamente come gli altri: amano, si arrabbiano, sognano un tramonto in una spiaggia esotica che non vedranno mai se non nell’autoscatto del campione sportivo di turno, investono i risparmi per soddisfare un capriccio, cadono, si rialzano, si ammalano, si perdono tra la folla. Non sono schiavi, scelgono consapevolmente di svolgere quel compito: lavapiatti, lava-pavimenti umani, idraulici, meccanici specializzati, facchini, manovali, operatori di call-center. Funziona così. Di sicuro non siamo stati noi a progettare il sistema, questo è vero – l’infermiera si sposta per andare a prendere un paio di pinze lunghissime e un rotolo di garza – ma ognuno è a suo modo fondamentale.
Senza di loro, il buco si riempirebbe di pus, la ferita non cicatrizzerebbe mai più e l’atto di sedersi diventerebbe un’utopia; partita vinta per il sinus, avrei continuato a piagnucolare per chissà quanto altro tempo ancora.
Rinunciare ad una porzione di cielo azzurro, di tanto in tanto, è un passo necessario: siamo noi, con i nostri sacrifici, a tenere in piedi i ponti, i grattacieli, a mandare in orbita i satelliti che garantiscono la diretta degli eventi più importanti che si svolgono nel globo. Probabilmente non è il massimo, qualcuno casca male e, forse, nel paradiso terrestre si stava meglio. Da quanto dicono, ci hanno sfrattato diverso tempo fa e il commiato non è stato dei più simpatici: maledetto sia il suolo per causa tua, con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita.
Che cosa potremmo mai fare, a questo punto della storia?
L’infermiera mi rifila una pacca distratta sul sedere, piazza un grande cerotto bianco sulla zona rossa in tumulto e mi rispedisce nella mia stanza, dove la situazione è immutata. Di fronte al mio letto, un vecchio magro e pallido a cui hanno asportato un pezzo di intestino attende che qualcosa di buono si verifichi nello spazio temporale della sua degenza; da una sacca in plastica una schiuma bianca, lattiginosa, altamente nutritiva, gli scivola dritta in vena.
*
070 - Dentro di me ospito un’assemblea permanente. Genera un vociare continuo. Pareri discordanti vivisezionano dubbi e credenze.
Una partita a scacchi con centinaia di giocatori in contemporanea sullo stesso tavolo, che moltiplicano esponenzialmente la serie possibile di mosse e contromosse, una battaglia simulata tra tante pazzie a confronto.
Gli altri rappresentano una ricchezza immensa: nella landa sterminata della mia confusione, il dialogo è un nutrimento eccellente. Se la singola osservazione può essere paragonata ad un seme, il discorso critico è un fertilizzante potentissimo. Qualcosa sopravvive a quel gioco al massacro tra teorie contrapposte; il cercatore d’oro che conserva il bottino in un luogo sicuro.
Ogni incontro, in qualsiasi circostanza, potenzialmente, è una fonte inesauribile di spunti, intuizioni, ‘svelamenti‘. È un peccato che con l’aumento vertiginoso della popolazione mondiale ci sia, in maniera inversamente proporzionale, sempre meno scambio.
Buttiamo nel cesso infinite possibilità di imparare qualcosa, qualsiasi cosa, dagli altri: sarebbe più facile limitare i nostri errori, le cadute, se riuscissimo a godere dell’appoggio reciproco.
Ci dimentichiamo colpevolmente che i problemi che ci schiacciano, ci affliggono, ci tormentano, ci rendono così vulnerabili, sono i medesimi con cui ha a che fare il nostro vicino di tram.
Loculi unicellulari rivestiti di silenzio; contatti ridotti al minimo, giusto lo stretto necessario. Sterilizzati. L’unica cosa che conta è la rotazione attorno al nostro asse. Non esiste altro.
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071 - Eppure, abbiamo tutti una raffica di chiacchiere già sistemata nel caricatore; cascate di parole murate a fatica in piccole dighe improvvisate, prossime al crollo.
In teoria siamo tutti dei gran logorroici se ce ne danno l’occasione. Che questa sia stata ridotta al limite, non implica automaticamente che il bacino dei possibili discorsi sia stato prosciugato per sempre.
Il logorroico doc non si pone remore di nessun tipo, non teme di sfiancare il suo interlocutore. Lo pesta, lo percuote, lo assilla con la stessa tenacia che il pugile riserva al sacco per gli allenamenti.
Lo bombarda come se non ci dovesse essere un domani, un altro incontro.
Si tratta soltanto di premere il grilletto nel modo giusto, per dare il via ad un orgasmo dialettico. La cura alla frigidità comunicativa è un semplice aspetto tecnico.
Provate a parlare di cani con un amante dei cani, o del suicidio di Kurt Cobain con un fan dei Nirvana. Provate a parlare di calcio con un calciatore, di rap con un rapper, di chitarre con un chitarrista. Provate a parlare di marketing con un professore di marketing. Vi renderete conto di quanta voglia la gente ha di aprire la bocca per comunicare.
Non basta azionare il meccanismo, bisogna soprattutto prendere la mira, fare in modo che proiettile e bersaglio in un dato momento coincidano. I rischi che un dialogo diventi fastidioso sono altissimi.
Parlare di hamburger di carne con un vegano, di Juventus con un anti-juventino, di dio e metafisica con un ateo, di droghe con un proibizionista, di musica elettronica con un rockettaro, è il modo più rapido per complicarsi la giornata e minare la serenità altrui, oltre che la propria.
È vero, si può sempre ricorrere a quel vasto assortimento di massimi comuni denominatori innocui, abiti buoni per ogni circostanza: il clima, in cima alla lista, poi la politica, con cautela, per non incendiare e rendere ingestibile la situazione (per evitarlo è sufficiente mantenersi sul vago e limitarsi ad un generico malcontento), passando per il lavoro, il cinema ed il gossip in generale, sino ad arrivare, argomento ever green, alle disgrazie, le malattie e le morti di amici, conoscenti e parenti stretti.
Forse, talvolta, sarebbe sufficiente affidarsi ad un sincero (che significa: sinceramente interessato) come stai?
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072 - Non si può avere la pretesa di conoscere nel dettaglio ogni aspetto della scienza, della storia, della letteratura, della cultura in generale: il sapere umano è un fiume troppo ampio per poterlo affrontare sopra ad una barchetta in carta; la natura, come se non bastasse, è uno scrigno che al suo interno nasconde ancora, nonostante millenni spesi a capirci qualcosa, incredibili misteri.
In pratica, è come andare in giro con un puzzle in via di composizione: ogni spazio vuoto rappresenta una sfida, una lacuna da colmare. La domanda, finalizzata a soddisfare un’innocua curiosità, è il movimento iniziale.
Un videogame in piena regola: c’è il tempo che scorre e tende allo zero, c’è un punteggio da incrementare, secondo dopo secondo, che ricalca lo stato della mia personalissima raccolta di dati e informazioni, spesso incomprensibili per gli altri, che alimentano il delirio, la ricerca.
Nella regione in cui abito stiamo piuttosto larghi, rispetto ad altre zone: poco più di un milione e mezzo di persone spalmati su 24.000 km², una piccolissima frazione dei 60 milioni del totale di italiani.
Nella mia visione delle cose si trasformano in un milione e mezzo di obbiettivi, di eventuali consulenze: è quanto accade quando condividiamo il nostro sapere, le nostre esperienze e perchè no, i nostri ricordi più intimi, in maniera informale.
In sostanza, mi muovo tra di voi a caccia delle interpretazioni più convincenti.
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073 - Talvolta la mia fantasia distorta mi porta a considerarvi come tanti comodi taccuini, su cui poggio le mie perplessità; assieme, io inchiostro e voi carta, collaboriamo alla creazione di nuove pagine.
Mi rendo conto, le espressioni delle vostre facce non lasciano molto spazio alle interpretazioni, che la metafora possa risultare ambigua: un presuntuoso che considera gli altri come dei meri strumenti passivi al suo servizio, ma un’interpretazione del genere non corrisponde alle mie intenzioni.
Senza un adeguato supporto non può esserci scrittura; una matita è uno strumento sterile se non trova un elemento fecondo con cui combinarsi; entrambe le parti risultano fondamentali. Il papiro, una superficie particolarmente pregiata, è un’ottima premessa per raggiungere un buon risultato.
Rimane da chiarire il problema legato all’iniziativa: la parte attiva spesso spetta all’assaltatore di turno; chi riceve l’input deve contenerlo, gestirlo, assorbirlo, ma può, anzi nel nostro caso specifico dovrebbe, influenzarne la traiettoria, dirigerlo, indirizzarlo, proiettarlo in spazi inesplorati.
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074 - Capita di incontrare qualcuno che risponde con impeto ad una provocazione altrettanto impetuosa: due convogli ferroviari viaggiano in direzione opposta, sul medesimo binario, e aumentano progressivamente la velocità di crociera.
Nuove forme di erotismo: percepire l’aria rovente che galleggia sospesa tra le due lamiere, spazio compresso, un attimo prima dell’impatto. Eccitante come leccare l’adrenalina che fuoriesce dalle narici di un toro pronto alla carica.
Che impatto sia, in tutta la sua spaventosa violenza, ognuno armato delle proprie convinzioni, pronto a colpire al petto il discorso dell’altro, pronto a scannarlo, a ridurlo in brandelli.
I toni si infiammano, un’esplosione senza esclusione di colpi.
La grossa vena sul collo pompa rabbia, annebbia il buon senso, spazza via le cortesie reciproche; la lama della critica affonda nel fianco, tra le costole fragili che sostengono l’argomentazione.
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075 - Non avere più nulla da nascondere può trasformarsi in un vantaggio: la situazione è simile a quella di chi, in una partita a Texas Hold-Em punta tutte le sue fiches nella mano decisiva e scopre le sue carte, con l’avversario chiamato a fare altrettanto.
Il mio passato è una stanza senza infissi, aperta a chiunque: potete rovistarci dentro a vostro piacimento; anche chi non è interessato può comunque farlo, è questo il punto determinante.
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076 - Ci sono due modi per intrufolarsi nell’abitazione di una persona: da ladro, in un blitz silenzioso e subdolo, o da ospite.
La casa è una sorta di contenitore dinamico di fatti, ricordi, emozioni; accedervi equivale ad assistere ad una magnifica rappresentazione dove la storia personale di un individuo viene rivelata dagli oggetti che popolano i vari ambienti.
Se considero P. al pari di un fratello, è una conseguenza logica rapportarsi al signor M., suo padre, come ad un parente molto stretto.
Durante i mesi trascorsi a sviluppare questo gioco, è cresciuta la convinzione che il numero zero dovesse essere proprio lui, sia per la stima che nutro nei suoi confronti che per le competenze che può mettere in campo: in questo senso, la profonda conoscenza del mondo dell’informatica, nella sua generalità, risulta utile per chiarire meglio alcuni aspetti legati al concetto di network.
Tra i motivi che mi hanno portato a pubblicare le presenti righe, c’è il desiderio di capire se ci siano le premesse per creare delle connessioni nuove, attive, tra soggetti accomunati dai medesimi problemi.
Gran parte dei discorsi sbocciati in un caldissimo pomeriggio di fine giugno sono stati gelosamente archiviati nella memoria fisica del sottoscritto e non troveranno spazio su queste pagine, salvo sporadiche eccezioni.
Il resto, soltanto ciò che è davvero inerente alla mia ricerca, si basa su alcuni appunti presi su carta.
Ero ben consapevole che sarei stato investito da una vera e propria onda anomala di parole, così, giocando sporco, mi sono portato appresso un piccolo registratore, tenuto nascosto per evitare che la spontaneità dell’incontro ne risentisse.
In un primo momento pensavo di essere stato punito: il file audio sembrava inutilizzabile a causa di un fruscio costante che sovrastava qualsiasi fonema.
La mattina successiva M. mi ha inviato una mail, chiedendomi cortesemente di ricevere in anteprima quanto segue. Gli ho riservato un trattamento di favore, una esclusiva assoluta.
Ha, inoltre, confermato di aver preso la questione con estrema serietà, tutelandosi con tutte le cautele del caso.
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Aggiornamento: alcuni mesi più tardi, mentre mi occupavo della stesura di queste parti, spinto dalla curiosità ho aperto il vecchio file mp3, scoprendo con estrema sorpresa che dopo alcuni minuti la conversazione diventava chiara e comprensibile.
Si è trattato di un aiuto notevole per riportare con maggiore fedeltà quanto emerso in quel colloquio.
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077 - M. si comporta esattamente come mi aspetto: per pura combinazione, o forse perchè ha dato uno sguardo al manoscritto che gli avevo mandato in anteprima, rispetta con precisione le regole del mio gioco senza, però, conoscerne i fini.
Mi guida con disinvoltura nelle varie stanze: ogni singolo elemento presente in esse racconta una storia, è lì per uno scopo, porge il suo significato, in silenzio.
Si parte dall’ingresso, dall’ovvietà di una grossa e massiccia porta che separa il dentro dal fuori, confine ultimo che divide lo spazio vitale del soggetto dall’universo collettivo, trasformandolo in nido, rifugio, riparo, ma anche laboratorio, centro pulsante animato da pensiero, sentimento ed azione.
Poggiato sul ripiano di un mobile elegante, un router lavora frenetico: trasmette dati a velocità impensabile, sino a pochi anni fa.
— Poter comunicare in tempo reale diventerà sempre più importante, decisivo; il collegamento in fibra ottica sarà un aspetto rivoluzionario, in questo senso — spiega M. prima di introdurmi nello studio, la sua roccaforte.
Le pupille assorbono fameliche ogni input visivo: il mio Cicerone non ha ancora ripreso a parlare, ma io ho già individuato alcuni bersagli: due volumi sull’hackerismo sistemati, tra mille altri, nell’enorme libreria, catturano la mia attenzione. Ho la conferma, qualora ce ne fosse bisogno, di trovarmi al posto giusto con la persona giusta.
Sull’ampia scrivania un personal computer assediato da fogli, appunti e ancora libri, che occupano ogni singolo centimetro quadrato disponibile, un disordine calibrato.
Prende in mano un volume: — Conosci Petrus Ramus? Pierre de la Ramèe?
Scuoto la testa.
— E’ un anti-aristotelico che si è occupato, tra l’altro, di pedagogia: secondo lui è l’ambito in cui la filosofia diventa veramente pratica; ne dà un’interpretazione interessante, dovresti leggerlo.
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078 - I libri sono entità mobili, custodi di un sapere, così li definisce M., che va svelato seguendo la legge della curiosità, unico vero propellente della ricerca.
Al loro interno, non uno ma infiniti percorsi verso la conoscenza che non può, per definizione, venir intesa in maniera definitiva. Non è un processo destinato alla stasi, alla pace serena, tipica della morte, ma è un continuo, incessante inseguire, aggrovigliarsi, contorcersi: un animale ferito ma mai domo, sempre pronto a rialzarsi, scattante, per dare la caccia ad una nuova preda.
Chi intraprende un viaggio di questo tipo nella valle incantata dell’ignoto, deve essere ben disposto a tracciare e percorrere sentieri inediti. Un pellegrinaggio solitario verso una meta che sino all’ultimo resta celata allo sguardo.
Nel grande salotto, arredato con una sobria raffinatezza, si respira autentica calma: l’area non è martoriata da un accumulo asfissiante; a regnare sono gli equilibri tra le distanze, in cui si insinua fluida la luce.
Mi inchino per ammirare da vicino una bellissima statuetta in pietra, lavorata a mano, sistemata nella parte bassa di una cristalliera.
— L’ha realizzata il padre di una ragazza che ha scelto di laurearsi con me. Tra noi si è creato un rapporto di stima reciproco, sincero, e questa è la testimonianza.
Sentire quelle parole mi spiazza e non poco: il mio pregiudizio, costruito con meticolosa pazienza e spruzzi di odio nell’arco del mio percorso formativo, mi impedisce, è stupido lo so, di credere che si possa verificare un evento come quello appena descritto, ma l’evidenza è schiacciante. Non posso fare altro che arrendermi, mettere da parte quel dato inatteso, per rimetterlo in discussione nel momento opportuno.
Lo stretto corridoio, reso ancora più angusto da alti scaffali che a malapena sorreggono quintali di tomi, vera e propria costante, permette l’accesso al piccolo bagno e a due stanze da letto: la prima, ordinatissima, è riservata all’unico figlio che di tanto in tanto trascorre qualche notte con i genitori; nella seconda, in fondo al corridoio, si trova il letto matrimoniale e una spaziosa cabina armadio.
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079 - L., moglie di M, fatica a capire il senso della mia visita: è convinta che quel girovagare sconclusionato mi infastidisca e, per questo, non perde occasione per scagliarsi, con toni piccanti ma in fondo bonari, su quella guida improvvisata: lo accusa di soffermarsi oltremisura su dettagli insignificanti, ma viene immediatamente coinvolta nel gioco.
Lo spunto mi viene offerto dalla foto di una cucciolona dall’aria dolcissima; sulla stessa mensola, una statuina che ne ricalca l’aspetto, quasi a sottolinearne l’importanza.
Il più classico dei gol a porta vuota: sarebbe servita una cesta, anzi un’enorme cassa come quelle usate dai pirati per sistemarci i tesori, per accogliere il flusso dei ricordi scatenato dalle mie domande.
Un incontro avvenuto per caso che si sviluppa rapidamente e sfocia in una storia d’affetto capace ancora, a distanza di anni, di far brillare gli occhi ai due coprotagonisti.
Ho l’occasione di constatare, una volta introdotto nel cortiletto interno, come la natura sappia offrire il meglio di sé nonostante le condizioni non ottimali: un boschetto di peperoncini cresce rigoglioso; ogni piantina si accontenta del suo piccolo vaso e anela, speranzosa, ad un quadrato di cielo, unica porzione disponibile nelle geometrie obbligate di un condominio.
Conclusa la perlustrazione preliminare, l’incontro prosegue nel posto più indicato: mi accomodo in una sedia vicino alla scrivania e aspetto fiducioso che M. faccia la prima mossa, d’altronde è lui che gode del fattore campo.
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080 - Per la seconda volta nell’arco di pochi minuti, vengo colto alla sprovvista.
Come se nel suo petto ci fosse una cerniera che non aspetta altro che di venire abbassata per strappare al buio, segreti, forse lacrime, sicuramente paure antiche. M. mi rapisce, mi ingloba nella melma cristallina dei suoi ricordi.
Inizia a raccontarsi, senza limiti né inibizioni. Non so, davvero, quante altre persone abbiano ricevuto un trattamento simile.
Il fatto che il nostro rapporto duri ormai da quasi un ventennio, non giustifica quella pioggia di sincerità da cui ho avuto l’inestimabile onore di abbeverarmi.
Di fronte a me non c’è più un uomo adulto, ma un bambino che ammette candidamente, nelle aule di un tribunale ormai deserto, che la sua infanzia non è stata piacevole quanto una scampagnata fuori porta sotto il primo sole primaverile.
Ciascuno di noi, e mi considero un autentico fuoriclasse in questo, tende ad ingigantire la sofferenza nascosta dietro le proprie cicatrici: se i tempi moderni dispensano difficoltà e tormenti in maniera diffusa, attingendo da un campionario in continuo aggiornamento, la situazione nell’immediato dopoguerra presentava caratteri difficilmente immaginabili oggi: la povertà deflagrava e tornava a farlo, con rinnovata e autentica purezza (almeno, è bene sottolinearlo per evitare equivoci, per gli standard occidentali).
La miseria si mescolava tra le molecole dei muri umidi, nei pavimenti sudici, nelle abitazioni tenute in ostaggio da periferie appena nate ma già fameliche.
Fluttuo come uno spettro in quel teatro stracolmo di disperazione e posso vedere, dall’alto, i passi smarriti del piccolo M.
La sua versione più matura e attuale irrora il racconto con un torrente impetuoso di dettagli.
— Vivevo al pian terreno di un casermone enorme fatto di cemento, in un’unica stanza.
Il martedì e il giovedì, le persone si recavano nel vicino mattatoio e riempivano dei grandi barattoli di conserva, da cinque chili, con le frattaglie e gli scarti della macellazione. Per molti era l’unica opportunità di mangiare. Non ho mai visto così tanta fame. Questa si sommava alla paura della tubercolosi e all’alienazione sociale che derivava dal vivere in quel ghetto.
Ecco a cosa servono le storie dei più vecchi: a catapultarci in dimensioni passate che riusciamo ad ignorare, con una strafottenza imbarazzante, perché non esperite direttamente.
— Sono orgoglioso di aver vissuto in quella realtà anche se, in cambio, ricevevo insicurezza esistenziale e, allo stesso tempo, culturale.
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081 - Prendete un pentolino, riempitelo d’acqua, posizionatelo sopra ad un fornello e poi chiudetelo con un coperchio. Dopo alcuni minuti l’aria calda, la schiuma bianca e il liquido bollente cercheranno in tutti i modi di liberarsi da quella costrizione fisica per conquistare la libertà: è un processo naturale.
A fare la differenza, è proprio la voglia di rivalsa, di fuggire da quella sterminata savana di squallore.
— Ora sono una persona sicura, capace di dare il giusto valore al cammino fatto, in grado di ricordare, comunicare e condividere quei momenti e quelle esperienze — ammette M. —
È maturata in me la testardaggine, una determinazione che, unita alla programmazione, mi ha permesso di raggiungere determinati obbiettivi.
Il mio carattere si è rinforzato, sono riuscito a colmare i deficit che hanno caratterizzato la mia infanzia. Ma non è stato facile.
A scuola ho avuto tantissimi problemi sia con i maestri che con i metodi di insegnamento.
Le mie teorie in merito vengono rianimate, un defibrillatore azionato all’ultimo secondo utile.
— Un giorno, alle medie, l’insegnante ci affida come compito un tema di fantasia che riesco a svolgere abbastanza bene. Quando lo consegno, però, vengo accusato di aver copiato. Il quartiere popolare in cui vivevo aveva contribuito a farmi diventare un ragazzino piuttosto sveglio, così contesto con forza quell’assurda decisione, ma non basta: sono costretto a ripetere la prova, a rifare tutto da capo e da solo, mentre i miei compagni si dedicavano ad altro.
La mia ipersensibilità, in quella particolare situazione emotiva, mi ha portato a fallire: ho sofferto perché non mi era stato riconosciuto il giusto merito.
Continua, così, a descrivere le vicissitudini di un fanciullo che pur partendo da ottime basi, con spiccate attitudini alla scrittura e allo studio in generale, era costretto a rimbalzare contro un muro di gomma.
Superato l’esame di terza media, nonostante alcuni contrattempi si iscrive al ginnasio, dove trova un ambiente sociale del tutto inedito.
— Nella mia classe c’erano i figli dei più ricchi della città: medici, ragionieri, avvocati.
In futuro, da grandi, sarebbero diventati personaggi di spicco della vita politica ed economica.
Mi vergognavo di dire che mio padre faceva l’infermiere. All’epoca c’era una profonda differenza tra salariati e impiegati; i primi venivano considerati dei semplici subordinati; i secondi dei dirigenti.
La scuola non era altro che un luogo di segregazione forzata, di alienazione: per la prima volta, percepivo il peso immane del classismo.
Non ho mai accettato, in tutta la mia vita, che qualcuno potesse venire valutato non per quello che è, in base alle proprie qualità, ma per il cognome che porta.
La famiglia di appartenenza si trasformava in un comodo sgabello, ti dava una spinta non indifferente, impossibile da ignorare.
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082 - La povertà è un marchio difficile da cancellare, una zavorra che ti penalizza nella grande maratona della vita, ma se accesa dalla scintilla dell’ostinazione si trasforma in un esplosivo capace di mandare in frantumi anche le pareti più spesse.
Esistono ancora palestre per allenare la nostra caparbietà o siamo condannati ad una progressiva, irreversibile atrofizzazione?
L’unica soluzione, per rincominciare a tonificare le nostre pulsioni più profonde, è davvero soltanto un terzo conflitto mondiale con postumi terribili?
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083 - L’apprendimento esperienziale è un percorso a tappe, ma non per forza deve essere regolare, omogeneo, uniforme.
Alcuni sono costretti a frequentare, da subito, corsi durissimi, inadatti per la loro età, si dice spesso in questi casi.
Altri, invece, comprendono il trucco soltanto alla fine, quando magari è troppo tardi.
Certo, cambiare stili, atteggiamenti e convinzioni, a pochi centimetri dal traguardo, sembra inutile: — Avresti dovuto pensarci prima — ripetono gli esperti del so-tutto-io.
Povertà e morte sono due concetti piuttosto bizzarri, soprattutto per gli schemi mentali di un ragazzino di sedici anni.
Nella maggior parte dei casi, entrambe devono essere accettate come dogmi su cui si può poco o nulla. La seconda, al contrario della prima, è un fenomeno naturale, che si diffonde in maniera democratica, così sembra, perché non esclude nessuno dal suo raggio d’azione.
Di fronte alla morte, si dice, siamo tutti uguali. Ma il dubbio è capace di insinuarsi, subdolo, strisciante, anche nella valle immacolata di questa certezza.
Ciò che il giovanissimo M. deve aver capito in fretta è che i poveri, gettati in questa particolare condizione, a scontare una pena per un reato mai commesso, hanno il privilegio di guadagnare l’uscita in maniera spesso controversa.
Sembra sempre che le cose possano andare in modo diverso ed invece, puntuali come l’arrivo del Natale ogni 25 dicembre, si sfracellano, come scheletriche zattere sugli scogli dell’atroce.
— Una sera, mia madre accusa un forte malore; mio padre è al lavoro, ha il turno di notte, così sono costretto a fare tutto da solo. Vado a chiamare un medico che abita nei dintorni, ma mi sento rispondere che non reperibile, considerando l’ora, per una visita a domicilio.
Non mi arrendo: di fronte a casa abita un appuntato dei carabinieri, provo a spiegargli la situazione.
Il tentativo dà i suoi frutti: il militare fa leva sulla sua autorità per convincere il dottore, riluttante, ad adempire ai suoi obblighi. Dopo una breve visita, ritorna a casa sua e finalmente richiede l’intervento di un’ambulanza.
— Viene ricoverata in ospedale: morirà alle 5:20 di quella mattina. La nostra vita subisce uno stravolgimento: cambiamo casa, mi trovo costretto a risolvere problemi inconsueti. Ora sono pienamente consapevole del fatto che, per modificare in profondità il proprio impianto esistenziale, occorrono intelligenza, curiosità, voglia di testare alternative nuove e di testimoniare la diversità. La dialettica è un’arma, ma ha valore solo se orientata verso il progresso.
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084 - Terminati i gustosissimi preliminari, mi concentro sulle tre domande che da tempo voglio porre a M.
— Per network — spiega in maniera professionale — si intende, come da traduzione, lavoro di rete: in sostanza di tratta di una trasmissione di saperi collettivi, una condivisione di competenze. Immagina il funzionamento della corteccia cerebrale umana: i neuroni sono i nodi e i mediatori chimici permettono il collegamento e agevolano la trasmissione del contenuto. Nel nostro caso questo non è altro che una serie di elementi e opinioni messi in comune, i concetti chiave che ordinano l’intero sistema. Man mano che ci avviciniamo al prossimo, avviene una fusione; c’è un messaggio che parte e viene ricevuto.
Da una parte la sorgente, dall’altra i potenziali bersagli: bisogna essere bravi a purificare il segnale dal rumore di fondo, ovvero i dubbi, i malintesi che alterano il significato. Il network può essere inteso come disegno di relazioni; bisognerebbe focalizzare le nostre attenzioni su queste ultime e non sui dati.
La conoscenza, l’informazione, consiste nel legare tra loro diversi componenti che altrimenti risulterebbero isolati. Penso ad un software che sia in grado di misurare i rapporti, un database che funga da bacino per un motore che componga, come un puzzle, i vari tasselli; il fine è quello di fornire risposte coerenti, la rete serve proprio a questo.
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085 - Il secondo punto muove da un passo di un libro scritto da M., intitolato Informatica, Linguaggi ed Esperienze Didattiche e citato in Gli Status Animarum in Sardegna \ Le fonti della demografia storica.
“In un quadro in cui l’incisività della forma scritta non rende pienamente giustizia dell’isolamento culturale e scientifico che si materializza quando si opera e si naviga controcorrente (un’operazione consentita ai salmoni!!) è stato realizzato il lavoro che ha poi condotto alla discussione delle cinque tesi di laurea tra il 1995 e il 1998”.
— Io ho avuto una dimostrazione tangibile su come si possa instaurare un rapporto orizzontale, non gerarchico, tra due individui che formalmente occupano un piano diverso. Tra docente e studente dovrebbe esserci un arricchimento reciproco. Purtroppo non accade sempre; non esistono maestri ed allievi, tutti siamo qui per imparare.
L’università a mio avviso potrebbe non essere un elemento negativo; sono molte persone che la animano a renderla tale. Dovrebbero permettere lo sviluppo di un’esperienza straordinaria che fonda la sua ricchezza nella pluralità, poiché ciascuno di noi custodisce qualcosa di prezioso.
Mi son sempre rapportato con attenzione, stima e rispetto nei confronti dei miei studenti, con i quali ho potuto declinare forme nuove di percorsi formativi con linguaggi formali —.
Una situazione sicuramente scomoda.
— La tesi sulla macchina di Turing mi è costata diversi contrasti e chiusure nette nei miei confronti da parte di molti colleghi, con polemiche esplose addirittura nel bel mezzo della discussione di laurea.
I ragazzi sceglievano di lavorare con me perché ho sempre cercato di intendere il ruolo dell’educatore in maniera creativa, privilegiando l’interazione tesa a rafforzare il sentimento di fiducia reciproca. La felicità è percepire di aver costruito qualcosa assieme.
Alla luce di queste considerazioni batto ancora sul tasto: — Dobbiamo considerare l’istituzione come una componente fondamentale del processo? —
— No. Le collaborazioni di cui ti parlo sono nate in seno all’università ma avrebbero potuto seguire percorsi paralleli.
Ribadisce il suo punto di vista. — Il problema è che i ruoli, soprattutto ai vertici, vengono ricoperti da persone non idonee, sia dal punto di vista attitudinale che di competenze. Non puoi parlare per ore di qualcosa che non sai realizzare.
La formazione di una persona è un prodotto particolare, ancora di più la ricerca: non servono pappagalli, eppure l’università ne è invasa.
In realtà, abbiamo a che fare con una struttura in cui si esercita il potere politico, giustificata da ragioni pseudo-culturali e intellettualistiche.
L’università, semplicemente, non pratica quello che predica: sbandiera orgogliosa la sua etica ma a farla da padrone sono l’incoerenza e la furbizia dei padri che lasciano il posto di lavoro ai figli. Proprio per questo la mia esperienza con le dinamiche interne è stata assolutamente negativa.
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086 - Il parere di M. rappresenta l’ago della bilancia tra due visioni contrapposte: da una parte c’è chi continua a ripetermi che internet non è uno strumento così decisivo, in termini di intervento sull’esistente, ma anzi rappresenta un elemento destabilizzante; dall’altra, c’è chi evidenzia l’enorme potenziale di una delle innovazioni principali degli ultimi cento anni, con ampissimi margini di sviluppo e scenari inimmaginabili che aspettano solo di essere evocati.
Parto da una premessa: sia io che lui apparteniamo alla seconda categoria, ma questo lo irrita oltremisura, facendolo sbottare. — Non ha senso fare una domanda presupponendo già la risposta — mi urla contro.
Ha ragione, ma io mi trovo lì soprattutto per le sue argomentazioni, che non tardano ad arrivare.
— Ho avuto la fortuna di assistere all’alba della rete, alla nascita di una civiltà invisibile ma non per questo meno presente. La connessione tra persone, anche molto distanti tra loro, è stata una conquista rivoluzionaria. Purtroppo con l’evolversi degli eventi, è passato tutto in mano al potere, ma è una sorte spettata a molti altri strumenti.
I vantaggi della rete sono diversi: — Tutti hanno la possibilità di lasciare un segno tangibile e duraturo e, cosa ancora più importante, passare da un modello a struttura rigida ad una conoscenza di tipo dinamico. Si tratta di un’idea geniale, gestita e assimilata da chi vuole manipolare il gregge, ma non potrà mai essere strappata totalmente dalle mani di chi la utilizza per contrastare il potere: è quanto accaduto ad esempio in Tunisia, con la Rivoluzione dei Gelsomini: donne dotate di grande intelligenza, hanno saputo evitare i tentativi di censura del governo. È il principio stesso su cui si fonda internet che lo permette: un sapere difficile da intercettare e da piegare. Un altro caso eclatante è rappresentato da Wikileaks, una realtà che riesce a sopravvivere anche ad un blocco degli apparati politici.
Le prospettive in vista del futuro sono positive. — Si tratta di un fenomeno destinato a crescere e diffondersi in misura sempre maggiore, una dimensione libera e liberatrice ma che presenta evidenti effetti collaterali: i social-network sono delle enormi piazze disseminate di telecamere.
Per fortuna il deep web apre ad opportunità diverse. La rete non si può domare, non cadrà mai in mano al potere assoluto.
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087 - L’informatica, e di conseguenza il web, è stata una delle passioni che M. è riuscito a trasmettere al figlio. — Senza forzature, intendendola semplicemente come una proposta. Sapevo che la programmazione sarebbe diventata una colonna portante nel mondo del lavoro e ho fatto del mio meglio per fornire a S. le basi adeguate, gli stimoli che potessero far scoccare in lui la scintilla.
Regala un’ultima battuta sull’hackeraggio: — Si tratta soltanto di trovare la falla nel sistema.
Mi aggancio proprio a quest’ultimo punto per concludere questo lungo pomeriggio con rinnovata fiducia. — Ho l’impressione che la Sardegna, in questo momento, possa diventare un laboratorio sociale: molto spazio a disposizione e una bassissima densità di popolazione.
M. frena il mio facile entusiasmo come un bravo padre dovrebbe fare con il figlio: — Stai attento, però, a non perderti appresso alle utopie, il rischio è molto alto — mi ammonisce con tono serio.
Metto al sicuro quel consiglio, ma mi viene in mente la frase che mi ha sempre ripetuto in questi anni: — Siamo qui per rompere i coglioni.
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088 - Riusciremo ancora, mi chiedo, ad essere incisivi?
Luglio, 2001.
Una barriera umana di manifestanti ostruisce il cammino, mani e braccia intrecciate a formare una rete.
— Non potete passare.
— E’ pericoloso.
— Così non fate altro che il loro gioco, fermatevi.
Mi abbasso appena per schivare quell’ostacolo statico, procediamo tutti come polvere nera attraverso i buchi di uno scolapasta. Sistemo la maglia dei Fear Factory, per un decennio è stata in assoluto la mia preferita, attorno al viso, precauzione doverosa, e muovo i primi passi in quella strana dimensione, in cui le cose funzionano in maniera sensibilmente diversa rispetto al solito.
Lo spezzone composto dai ragazzi della Finmec affronta, alcune decine di metri più avanti, alla fine della grande strada larga, lo schieramento delle forze dell’ordine.
Un tappo ermetico. Alle loro spalle si gonfia una bolla, una zona temporaneamente autogestita, piena fino a scoppiare di forza distruttrice. Cavallette divorano la materia; il cuore pompa ettolitri di sangue e adrenalina. Non ho mai più visto nulla di simile e tutti i vostri stronzissimi film messi assieme non valgono manco un secondo di quell’afoso pomeriggio. La città sta cadendo a pezzi, di fronte ai miei occhi, in maniera rapida e progressiva.
A ore 10, un ragazzo, appeso come sopra all’albero della cuccagna, con le gambe intrecciate attorno al palo , sta disintegrando le luci di un semaforo con rara ferocia; in mano stringe una grossa pietra, si scaglia su quelle lampade tonde come se serbasse nei loro confronti un odio ancestrale.
A ore 9, in sottofondo, tre ragazzi prendono a sprangate il muretto di un’aiuola, che esplode in grossi proiettili di cemento. Gli zainetti si aprono, ingoiano le munizioni, si richiudono.
A ore 12, una campana verde per la raccolta del vetro rotola e guadagna il centro della carreggiata, seguita da due cassonetti in acciaio.
Più indietro, a ore 7, un giovane apre il serbatoio di una macchina, ci infila dentro un sottile tubo di plastica, aspira e poi leva di scatto la bocca. A fianco a lui, c’è un suo simile con una bottiglia vuota in mano.
A ore 3, le saracinesche di un piccolo market si sollevano magicamente, nel giro di pochi minuti gli scaffali saranno completamente vuoti; i più svelti puntano il bancone degli alimentari, escono tranquilli con prosciutti e mortadelle in spalla.
Mi muovo rapido, rapito da quello spettacolo. Urla di gioia si diffondono nell’aria: a quanto pare i tizi del PKK hanno appena scassinato un bancomat e stanno distribuendo le banconote.
Gente che corre, in tutte le direzioni.
Mi ritrovo a mezzo metro da due individui che con un pesantissimo tubo, usato come un ariete, stanno provando a squarciare la vetrina di una banca . Dopo il primo colpo, la superficie si crepa e diventa una ragnatela, esplode l’allarme; dal vivo ha un effetto diverso che sulla tv, vibra isterico, un’elettricità nervosa, percepibile nitidamente.
Un altro colpo.
Alla loro destra sbuca una ragazza bassissima, è intenzionata, pare, a convincerli a smettere. Che strano posto per un dibattito sulle modalità d’azione all’interno di una manifestazione.
I due si fermano un attimo, più sorpresi che persuasi, poi riprendono con la loro opera, ignorandola. Un altro colpo, il vetro cede.
L’allarme grida di rabbia. Qualcuno inserisce una molotov nella fessura come se fosse un gettone telefonico. La banca si illumina, avvolta dalle fiamme.
Grida. — Caricano! Caricano!
I tizi della Finmeccanica sono immersi nel fumo dei lacrimogeni; ne vedo uno, stoico in mezzo a quel caos bianco, che sventola con orgoglio la sua bandiera. Le granate sfrecciano in cielo, rondini impazzite nei primi giorni di primavera, cadono sull’asfalto, rimbalzano come palline da tennis. C’è chi tenta di rilanciarle indietro al mittente, ma in un attimo ne arrivano così tante che non si può intervenire. L’aria diventa irrespirabile.
Grida. — Caricano! Caricano!
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089 - Generalmente divido la mia settimana in due blocchi ben distinti: dalla domenica al giovedì mi occupo dell’attività che mi permette di raggranellare qualche soldo; alterno il lavoro a lunghe passeggiate in compagnia del mio amatissimo quadrupede. In questi momenti, il cervello è libero di vagare nello spazio circostante.
Il venerdì ed il sabato invece, quando ne ho le forze, mi dedico ai rapporti interpersonali: i miei bioritmi, per una serie di fattori che evito di elencare nel dettaglio, subiscono una brusca accelerata; lo stesso vale per il moto dei miei pensieri. Riesco ad aprire i vari cassetti dell’archivio mentale, in cui si trovano concetti, nozioni e ricordi, in maniera più rapida ed efficace.
Delle volte questo fenomeno assume i tratti di una benedizione, perché comunicare o approcciarsi col prossimo, soprattutto se sconosciuto, risulta decisamente più semplice, rispetto soprattutto al passato.
Alcune altre prende la piega di una punizione, in particolar modo quando, travolto da quello tsunami, non riesco a calibrare il flusso delle interazioni.
Per stare dentro al recinto del buon senso dovrei innescare più discussioni all’interno dello stesso perimetro e saltellare ritmicamente dall’una all’altra ma purtroppo, spesso, mi intestardisco nei confronti di un soggetto, mollando la presa dopo ore.
Non è un processo che riesco a gestire in maniera consapevole in tutta la sua totalità: mi capita di risvegliarmi come da una sorta di sonno, senza avere un’idea dell’enorme mole di parole uscita dalla mia bocca sino a quel momento.
Il fantasma anemico che negli scorsi anni ha avuto gioco sin troppo facile, viene scacciato dalla scena da una banda di hooligans su di giri che non vede l’ora di attaccare briga con il primo che passa.
Quanto vorrei essere capace di controllarmi. E invece, puntualmente, spesso e malvolentieri, arrivano le lacrime: l’ospite sparisce con la stessa velocità con cui si è presentato e lascia il mio corpo esausto, spossato, come se avessi corso per 100 chilometri nel bel mezzo del deserto del Sahara.
Devo capire, trovare le cause, una spiegazione, costruire un argine efficace, ma ho il sospetto che il problema, questa strana metamorfosi, che si abbatte improvvisa come un temporale, abbia radici più profonde.
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090 - Due giorni passati a farmi rosicchiare dall’ansia. Che sarà mai? È solo un’incisione all’altezza del coccige. E se sbagliassero facendo l’anestesia spinale? Basta uno starnuto, una micro vibrazione involontaria della mano, lo specialista che si distrae fatalmente tra la puntura numero 99 e la numero 100, pensando all’odore intenso dell’amante con cui si inebrierà a fine turno, e ti ritrovi di punto in bianco sopra una carrozzina con le gambe ridotte a due pezzi di legno.
Non vado d’accordo con i ritardi: il medico mi aveva assicurato che per le dieci sarebbe arrivato il mio turno, mezz’ora sotto i ferri e poi avrei potuto incominciare a parlare del mio problema declinandolo al passato remoto.
Ore quattordici. Nessuna notizia.
L’infermiere appare all’improvviso, butta il camice verde nel bagno adiacente alla stanza in cui dormo assieme ad altri tre, uno operato alla prostata, uno alle prese con i calcoli e l’altro, il più stronzo, con lo stomaco e l’intestino ridotti, non ho ben capito perché, ad un colabrodo.
Mi infilo quello strano indumento e mi sdraio nella barella. Chi spinge il mezzo di locomozione parla del più e del meno: nome, paese di provenienza, squadra di calcio del cuore, professione.
Entriamo in ascensore, poi giù fino al sotterraneo. Il corridoio che porta alla sala operatoria è molto simile a quelli che si vedono nei film. Osservo il soffitto, riflettori tondi e luminosi appaiono ad intervalli regolari, sembrano messi apposta per ipnotizzare i pazienti. Il cuore batte forte, accelera sempre di più, centimetro dopo centimetro, in un processo che sembra irreversibile.
Dal nulla sbuca colei che dovrebbe custodire la mia salvezza: una giovane ragazza, troppo giovane, penso tra me e me, con un vassoio e due siringhe poggiate sopra.
— Sei pronto? — chiede.
Snocciola qualche battuta di circostanza, compresa nel trattamento, sul mio aspetto, sui capelli che non ho, sui tatuaggi, la barba. Cosa vuoi che ti risponda, bellezza?
Dalla bocca sgattaiola soltanto un sincero: — Sono un po’ agitato.
— Non preoccuparti, andrà tutto bene.
È quello che dicono tutti, anche quando è evidente che la situazione è destinata a finire in merda nello spazio di uno sbadiglio. Tutto bene, certo. Prende in mano la siringa più piccola.
— Questa ti calmerà un po’.
Non scorderò mai la sua affermazione: le classiche parole famose da incidere sulla pelle. Individua una vena e spara dentro un miscuglio chimico a me ignoto.
Vorrei tanto sapere gli ingredienti di quel miracoloso cocktail ma gli eventi si susseguono frenetici, sono costretto ad occuparmi di faccende ben più pressanti.
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091 - Sulla scena fa la sua comparsa l’anestesista, un signore con i capelli brizzolati dall’aria simpatica, sempre che uno sconosciuto con una mascherina sul volto possa avere un aspetto gradevole. Mi fanno mettere seduto, ed incominciano a tramare alle mie spalle.
— Non è che ora sbagliate tutto? Su internet è pieno zeppo di testimonianze drammatiche: mazzi di persone che sono rimaste fregate per colpa di una disattenzione.
— Non avresti dovuto leggerle – mi risponde, con la voce filtrata dalla plastica.
Devo ammettere che la pozione magica che avrebbe dovuto regalarmi la tanto agognata calma sta funzionando a meraviglia.
— Individua lo spazio tra le due vertebre, usa l’indice, così, brava.
Sento un ditino scorrere titubante lungo la colonna vertebrale.
— Inserisci l’ago. Ecco, così. Brava.
Un pizzico leggero. Mi domando perché non sia quello più esperto tra i due ad occuparsi dell’intera faccenda.
— Lascia uscire un po’ di liquido spinale e ora premi pure, ma molto delicatamente.
Mi prendono di peso, con movimenti bruschi, e mi sistemano supino nella barella. Di corsa dentro la sala operatoria dove mi aspettano due dottoresse. Nel frattempo che mi affettano il sedere, una passa all’altra la ricetta della torta di mele.
In barba alla chimica, infischiandomene delle enormi potenzialità rilassanti della prima iniezione, inizio a parlare senza possibilità di controllo: il mio corpo, dall’ombelico in giù, è insensibile ad ogni stimolo, ma lo stesso non si può dire della lingua, affetta da un’inspiegabile ipercinesi.
Qualsiasi argomento è valido: — Scorza di limone? Io ho una pianta gigantesca di limoni, proprio di fronte alla mia camera, carica di frutti gialli in ogni mese dell’anno. Forno a 180°? Non avrei mai detto che durante un intervento chirurgico si parlasse di queste cose.
Le tizie mi evitano. Non è un problema. Io insisto.
Una replica, con una vaga nota di stizza: — Stai calmo e fai silenzio, ascolta Fiorello alla radio.
Mi accorgo che, effettivamente, dagli altoparlanti nascosti chissà dove, fuoriesce la voce del talentuoso comico, alle prese col suo noto programma radiofonico.
— Non mi piace Fiorello, lo trovo noioso — esclamo, prima di catturare l’attenzione dell’anestesista.
— Riesco a muovere il ginocchio. È normale? Cioè, non tutta l’articolazione, solo la parte interna. Significa che non rimarrò paralizzato, è così?
Il faccione del medico si materializza di fronte a me: — Shhh! Prova a stare zitto!
I dubbi sulla bontà del pre-anestetico copulano fra di loro tra risa e schiamazzi.
Noto un’infermiera con in mano un salsicciotto lungo e molliccio, di un marrone chiaro vomitevole. — Non mi vorrete dire — urlo come un bambino per la prima volta al cinema — che è appena uscito dal mio culo!
Ho gli occhi di tutto lo staff piantati addosso. Probabilmente la dottoressa ha ancora un grammo di compassione da devolvere alla mia causa quando interrompe definitivamente le mie intrusioni dialettiche: — Abbiamo finito. Ora ti ricuciamo e ti rispediamo nella tua stanza.
Chiudo finalmente gli occhi. E la bocca. La tensione lascia liberi i nervi, mi sembra quasi di poter prendere sonno.
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092 - Apro una lattina di birra e mi godo il fresco di una vispa sera di inizio giugno.
L’Aquila è completamente devastata, per accorgersene basta fare una passeggiata per le vie del centro, nelle poche rimaste agibili, tra negozi con le saracinesche abbassate, transenne e cartelli di divieto d’accesso appesi dappertutto.
All’Asilo Occupato la vita va avanti. I ragazzi che lo gestiscono hanno tirato su un piccolo festival musicale. Cerco di riconquistare la calma dopo 40 minuti di grida e oscenità varie.
Il mio star solo viene interrotto quasi subito, non che sia un problema, tutt’altro. Un ragazzo, dalla faccia pallida e con lunghi capelli neri, si avvicina timido dalle mie parti. Scambiamo qualche battuta sul posto, sui danni del terremoto e sul concerto: indossa un chiodo e una maglia di un gruppo black metal. Non ricordo come, ma inizia a parlarmi del suo TSO, del rapporto con i medici, con la struttura e con i farmaci.
— Ero rinchiuso in una stanza minuscola, soprattutto i primi giorni non riuscivo a stare in pace. Avevo degli atteggiamenti violenti nei confronti degli infermieri, così il dottore che seguiva il mio caso pensò bene di darmi dei tranquillanti. Non ci crederai, ma stavo malissimo: dormire risultava impossibile, ero perennemente preda della sovra eccitazione, dell’inquietudine e della frenesia. Trascorrevo le giornate a camminare, in tondo, con la testa che schizzava da una parte all’altra. Mi sembrava di impazzire. Ne parlai con il dottore, che raddoppiò le dosi.
Lo stato di agitazione aumentò esponenzialmente: stavo rischiando, sul serio, di uscire fuori di testa, volevo morire, da quanto mi sentivo male, ma nessuno mi dava retta. Pensavano fosse impossibile che potessi sviluppare una reazione di quel tipo sotto l’effetto di tali sostanze, perché di solito si ottenevano effetti diametralmente opposti. Sono stato molto fortunato: alla fine mi hanno creduto, si sono resi conto che non era la cura adatta a me. Non so spiegarti come sia possibile, ma ci sono pazienti che rispondono con un’euforia incontrollabile ad un trattamento destinato, sulla carta, a rilassare il sistema nervoso.
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093 - Mi chiedo da dove arrivi, dove sia nascosta questa quantità esagerata di energia.
Posso non dormire, non mangiare e parlare per ore, senza soluzione di continuità, a velocità esagerate, conservando un sufficiente grado di lucidità nei ragionamenti.
A volte son proprio gli altri a pigiare il bottone rosso e a dare il via al fenomeno. Le questioni ricorrenti son due, ormai ne ho fatto una statistica: c’è chi sostiene che io stia continuando a dimagrire visibilmente e chi mi fa notare che la barba mi diventa sempre più bianca.
Io faccio di tutto per non deluderli, utilizzando sempre le stesse argomentazioni: ai primi rispondo che la bilancia segna sempre la medesima cifra (devo fidarmi di lei o del vostro occhio?), ai secondi confesso che la cosa in fondo non mi dispiace ma, anzi, spero prosegua ancora per tanto tempo.
Tutto quello che accade in seguito sfugge al mio volere.
Nell’ultimo periodo mi sono imbattuto in dei veri e propri tranelli: una tossicologa, ad esempio, senza svelare le sue competenze in materia, mi ha chiesto informazioni sulla natura della molecola che ho tatuata all’altezza del polso. È stata attratta dal gruppo fosfato che sbucava fuori dalla manica della felpa. Sottovalutando la situazione, ho rischiato di avventurarmi in un letamaio armato di soli zoccoli.
Ciò che conta, però, è che chiunque possieda delle competenze che possano risultarmi utili, diventa il mio migliore amico almeno per dieci, quindici minuti.
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094 - Mi aggrappo a questo ragionamento: non è colpa mia se vi fa così tanto schifo il rap da non riuscire a prenderlo minimamente in considerazione. Io invece tendo addirittura ad esportarne alcuni aspetti nel quotidiano.
Sono un soggetto tendenzialmente ossessivo-compulsivo o chissà che altro, non sono abbastanza ferrato in questo tipo di definizioni. A volte mi incaponisco e ritorno con disarmante puntualità ad esporre la mia solita, sozza, miserabile opinione: questo genere musicale ha una qualità essenziale, è un codice, un medium comunicativo.
È un uomo con un foglio bianco davanti, una condizione per cui provo profonda simpatia.
Un uomo che recita a velocità piuttosto alte la sua parte, per gli standard comuni, in maniera continua, senza interruzioni rilevanti. Mitraglia una serie di parole, incastrate a formare delle rime, che poi si legano tra di loro in assonanze e allitterazioni e danno vita ad una serie di figure retoriche, ad una storia che cola come un fluido dentro le orecchie dell’ascoltatore.
È una parte che conosce molto bene: deve studiarla, per riuscire ad esporla in maniera appropriata, come fa del resto ogni interprete canoro che si rispetti.
Il rap è questo e tanto altro: c’è il free-style, il regno dell’improvvisazione, la connessione magica con il paradiso abitato dalle muse, la Route 66 verso il terzo mondo delle idee.
Una corsa folle contro il tempo: sarò più forte io o il mio avversario? Riuscirò a pronunciare l’ultima parola prima che la ghigliottina del beat mi recida la lingua?
Ci sono le battaglie, i duelli, il dissing, e poi ci sono le punch-line.
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Aggiornamento. Quattro contro uno: io cerco di capire, gli altri parlano contemporaneamente tuffandosi a capofitto sullo spunto, fornendo interpretazioni spesso contrastanti tra loro. Un confronto meraviglioso.
Riporto a casa quanto segue, grazie alla preziosa collaborazione di A., M., C. e G.
“Una punch–line è una battuta ad effetto, spesso studiata e messa a punto in precedenza, altre volte frutto di un’intuizione fulminea, con la quale si chiude un discorso o si controbatte in maniera secca alla provocazione di un avversario in una rissa verbale”.
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095 - Spesso si parte da questioni apparentemente insignificanti, ma nel mio mondo non esistono faccende così insignificanti da non meritare nemmeno una replica o una considerazione.
Altrettanto spesso si finisce a trattare casi che mi stanno molto a cuore, per utilizzare un eufemismo, o su cui mi sto documentando e dedicando con particolare attenzione.
Subisco delle accuse per questo, come se dirottassi volontariamente il discorso in maniera subdola, ma ne accetto tutta la responsabilità.
Un punto di domanda, posto alla fine di una frase, ha per me l’effetto che il suono di un gong ha per i pugili sul ring.
Si tratta di soddisfare una richiesta nella maniera più esaustiva possibile. Un download massiccio di informazioni, se va bene; una scarica di cazzotti, nei casi peggiori.
Karl Popper ritiene che le varie teorie si arricchiscono del nettare prezioso della verità solamente attraverso il confronto.
Io allargherei il campo anche alle singole opinioni, sebbene meno dotate sul piano della coerenza e meno resistenti agli attacchi, quindi soggette a subire i danni maggiori.
Alle volte mi sembra di esagerare un po’, i silenzi del mio interlocutore mi spiazzano, ma in un certo senso mi autorizzano ad andare avanti, a oltranza.
Spesso ho come la sensazione di poter proseguire per giorni interi; ne sono capace, mi è già capitato, ma in uno slancio di premura mi chiedo: e se invece di un semplice scambio di battute il tutto si trasformasse in un annichilimento, in un devastare di testicoli e materia grigia? Non c’è problema, basta un cenno e interrompo, oppure rallento.
Temo che da un momento all’altro dal naso di chi mi ascolta possa iniziare a colare del sangue: anche in quel caso, mi conosco, sarei capace di insistere, dopo essere intervenuto discretamente con un fazzolettino di carta per rimediare alla lesione.
“Il pugile che sferra l’attacco è stato allenato a non interrompersi quando l’altro è ancora tecnicamente in piedi.
[…] Nell’incontro tristemente noto tra Benny Paret e Emile Griffith nel marzo del 1962, si disse che l’arbitro Ruby Goldstein era rimasto paralizzato nel vedere Griffith intrappolare Paret alle corde, sferrandogli almeno diciotto colpi alla testa. Paret morì dieci giorni dopo.”
Joyce Carol Oates – Sulla boxe
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096 - Ho il sospetto che quindici anni di concerti hard-core non siano proprio identici a quindici anni di meditazione. Ho trascorso sere intere a sbraitare in faccia alle persone i miei pensieri, immerso in un vortice di distorsioni. I nostri corpi entravano in contatto: urti, spinte, salti, cadute. Sudore e saliva. Tutto molto selvaggio, animalesco.
Ho il sospetto che più di un frammento di quella passata esperienza stia influenzando in maniera significativa il modo con cui mi rapporto e comunico con gli altri.
Un atteggiamento poco ortodosso che talvolta mi ha regalato qualche inconveniente.
Così non si fa, non va bene; a questo giro sei proprio andato oltre la decenza.
Eppure, è una strategia comunicativa che mi tengo ben stretta. La considero la specialità della casa; chi non gradisce, può cibarsi altrove. Al mondo ci sono più di sette miliardi di cuochi, pronti a dispensare le loro verità.
Lo ribadisco: son sempre stato un pessimo promoter; difficilmente mi sentirete dire che quanto propongo è la merce migliore disponibile sul mercato.
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097 - Sarò un romantico ormai fuori moda, ma ricordo con piacere il periodo in cui la nicchia era considerata un ottimo rifugio in cui stare, un nido accogliente, un angolo in cui potersi esprimere con sincerità, senza dover per forza fare da bersaglio ai flash.
La mentalità da grande distribuzione ci ha contaminato.
La paranoia da sovra esposizione, un desiderio che si auto alimenta in maniera costante, ha distorto in maniera irrecuperabile la percezione dello spazio sociale in cui ci muoviamo.
Le trattorie da venti coperti al massimo sono state cancellate, nessuno cucina più per se stesso o per i propri cari.
L’imperativo è soddisfare un oceano di pance e bocche spalancate; per meno, manco vale la pena alzarsi la mattina.
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098 - I professori che ho visto sfilare dietro le varie cattedre negli scorsi anni dimostravano di saper esporre abilmente la lezione senza particolari affanni: del resto, si tratta del loro lavoro, vengono pagati per questo e chissà per quante volte hanno dovuto recitare lo stesso copione.
In questo sono simili a quei gruppi musicali in tournée che presentano il medesimo spettacolo in città diverse. A cambiare è l’entusiasmo del pubblico: in un caso l’eccitazione si doma a fatica, nell’altro è totalmente assente. Non proprio una sottigliezza.
Il mio caso è diverso, per svariati motivi.
Non ho un’aula che mi ospiti, ma mi arrangio piuttosto bene; le alternative non mancano, qualsiasi posto può funzionare, anzi tantissime situazioni sono più adatte di un cubo di cemento arredato con una ventina di banchi in legno marcio.
C’è da fare i conti con una pratica alquanto inconsueta: è strano sviluppare certi discorsi in ambienti che di norma sono destinati a tutt’altri scopi, ma dovremmo essere noi a dare un significato ogni volta diverso agli spazi che occupiamo.
Si parte da una premessa fondamentale: poiché la filosofia può abbracciare la totalità dell’esistente, si può chiamarla in causa in qualsiasi momento; ogni pretesto è buono.
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099 - Di norma le lezioni, nell’ambito istituzionale, incominciano con l’appello: si verifica la quantità di utenze disponibili, ma di solito il minimo è garantito dall’obbligo di frequenza e da altri stratagemmi più subdoli.
Il mio caso, ancora una volta, è differente: non ho un gregge di studenti che si recano in massa ad ascoltare ciò che dico, anzi, la maggior parte delle volte devo letteralmente rapire l’interlocutore, come un ladro di bestiame alle prese con l’attenzione altrui.
Tutto questo non mi dispiace affatto, mi viene spontaneo: un impulso irrefrenabile.
Interagire con chi ho a fianco è una forma di rispetto; ignorare una persona, negarne in un certo senso l’esistenza, è quanto di più crudele si possa fare, forse più dell’annichilimento fisico o psicologico.
Allo stesso tempo, però, sono pronto a lasciare che il silenzio si prenda la scena, se l’altro lo richiede esplicitamente.
Un altro punto di distacco con il modello classico è l’approccio alla discussione. In genere si rispettano le regole della buona educazione: pacatezza, modi formali, contegno, sono tutte caratteristiche che contraddistinguono la maggior parte dei confronti e dei dibattiti. La trasmissione dei saperi segue un copione ordinato, prestabilito: non si urla e non si interrompe l’altro.
Nel mio mondo non c’è spazio per questi accorgimenti.
Forse sto sottovalutando un elemento.
Il professore che viene retribuito per stare ritto in mezzo ad un’aula, come una statua o una fontana che dispensa acqua fresca, ha tutt’attorno, da contratto, un pubblico di brocche, più o meno interessate e consapevoli.
Ed è proprio questo il fulcro della questione: chi mi garantisce che quell’accozzaglia ragliante di opinioni che fugge dalla mia bocca, a volte senza nessun permesso, sia gradito dai padiglioni auricolari e dalla massa cerebrale del prossimo? Il rischio esiste, certo, ma è diffuso, estendibile ad altri ambiti.
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100 - Immaginatevi la scena: siete seduti a un tavolino di una graziosissima pizzeria; è venerdì sera e state piacevolmente conversando con il vostro amore sulle mille faccende della vita o, più semplicemente, state apprezzando, in simultanea, il sapore delizioso della mozzarella di bufala che regala un tocco prelibato alla vostra pietanza.
Senza nessun preavviso, si materializzano di fronte a voi sei strani figuri che iniziano a inondare la sala con quella che qualcuno chiama musica ma che in realtà è un miscuglio di rumore e grida fastidiose.
La soluzione? Finire di mangiare nel più breve tempo possibile e fuggire via da quell’olocausto acustico.
Non è mai stato un problema se la mia ‘proposta artistica’ non coinvolgeva la totalità o la maggior parte dei presenti che si trovavano invischiati, loro malgrado, in uno spettacolo non richiesto: certi preferivano rifugiarsi in una zona più tranquilla, lontani da impianto voci e amplificatori; altri coglievano al balzo il lato stravagante della cosa e si lasciavano andare a risate di scherno, provocazioni celate o spudorate ed irriverenti.
Il sociale è un flipper in modalità costante di multi-ball; sette miliardi di sfere di carne che si inseguono e rimbalzano l’una contro l’altra.
Ogni volta che incontro qualcuno di voi per strada o su un mezzo pubblico, metto in conto di dover sniffare i vostri profumi assurdi, già dalla prima mattina: che coraggio avete di cospargervi con quei liquami puzzolenti?
Le mie parole sono proprio come esalazioni, provengono dalle viscere in putrefazione.
Abbiate pietà. D’altronde, è tutta una questione di pazienza. Di sopportazione.
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101 - Vivo in una casa senza porte né finestre; poche stanze, giusto due. Una vecchia radio, sempre in funzione, sparge parole tutt’attorno. Non sembra preoccuparsi se l’unico a godere di quella fatica sia soltanto il sottoscritto.
Ho preso l’abitudine di preparare un po’ di cibo in più, nell’eventualità che qualcuno venga a farmi visita. In ogni caso, non si butta via niente: la zona è popolata in abbondanza di cani e gatti randagi, bastano pochi agili movimenti di lingua e il problema legato al disavanzo è risolto. Se ciò non bastasse, posso sempre chiedere aiuto ai piccioni, ai passeri, alle mosche, ai topi, ai vermi.
La solitudine è una questione relativa.
Vivo in un’altra galassia, lontano anni luce dai locali alla moda: i migliori li riconosci dalla fila di persone che attendono di entrare in paradiso; un pantheon popolato da influencer e opinion leader. Un campionato mondiale tra rifugi antiatomici: inglobare quanti più esseri umani possibile, rinchiuderli in un purgatorio climatizzato, mungerli, spogliarli di tutti i loro averi in cambio di cibi croccanti e bevande fosforescenti. Spesso, alla porta, angeli travestiti da bambolotti, con la faccia coperta da cinque strati di vernice: collezionano gli sguardi dei passanti, qualcuno abbocca ed entra, non prima di aver superato i controlli.
Dalle mie parti tra un incontro e il successivo possono passare dei mesi, addirittura degli anni.
Sull’uscio, un vecchio spaventapasseri accumula polvere: se l’attrazione ha le sue leggi, io sono un criminale che merita l’ergastolo per averle trasgredite tutte.
Eppure, paradossalmente, il rustico, il grottesco esercita il suo fascino: — Ti vendi bene — si lascia scappare il mio ospite, seduto su una vecchia sedia sgangherata mentre mangia riso in bianco e pane duro.
— Certo che sì —, rispondo io, versando un altro goccio di acqua giallognola in un calice chiazzato di macchie nere e tracce di rossetto ormai secche.
*
102 - Ho cercato di arredare la mia abitazione seguendo una logica, con il massimo del gusto di cui son stato capace.
Io non so di preciso a cosa si riferisse V. quando mi ha lanciato la sfida: sosteneva che avrebbe potuto farmi cambiare idea su alcuni punti.
— Facciamo come i pugili — le ho proposto — cerchiamo una location adatta per questo super incontro. Che ne dici dell’ultimo fine settimana di settembre, in occasione dei festeggiamenti in onore di S. G.?
Io c’ero, lei no. Posso solo immaginare di cosa volesse parlarmi. Tiro ad indovinare, in attesa di una risposta certa da parte della diretta interessata.
Non ho ancora capito quali siano le vostre abitudini in proposito, ma potrebbe essere rischioso andare a rovistare negli armadi altrui, a meno che non vi piacciano i cadaveri.
Le probabilità di trovarne uno, tra pantaloni e cappotti, sono piuttosto alte; nel caso fosse un’attività che vi diverte, potremmo metterci in società, tirare su una ditta, sviluppare un modello di business.
Facciamo finta che il tavolino al centro della sala sia troppo kitsch per i vostri gusti; secondo voi sarebbe stato meglio metterlo nell’angolo in fondo a destra, vicino alla poltrona.
Non vi viene in mente che il tavolino potrebbe essere stato sistemato in quella posizione per nascondere una macchia nel tappeto, e quest’ultimo per coprire una crepa profonda nel pavimento che con il tempo è diventata la tana per una colonia di scarafaggi.
In realtà voi eravate passati giusto per un caffè e non per sprecare il vostro tempo libero con simili schifezze.
*
Aggiornamento: Nei giorni scorsi ho avuto modo di chiarirmi, parzialmente, con V.; sono stato io a togliere fuori l’argomento, ma alcuni dubbi sono comunque sopravvissuti. Ha ribadito il fatto che sa essere molto convincente, ma non siamo arrivati ad una conclusione definitiva su tutti i punti in ballo, legati alla mia defunta esperienza come ‘scimmia urlatrice’. Secondo lei, avrei dovuto proseguire.
In compenso il discorso ha preso una piega interessante: fenomenologia dei sogni, déjà-vu, coincidenze, sincronismi.
Le ho accennato inoltre ad alcune considerazioni, che troveranno spazio in seguito, sui processi di individuazione e di realizzazione del sé personale rispetto all’inconscio, ma senza particolare successo.
*
Aggiornamento II: Ho parlato nuovamente della questione con V.
All’ultimo giro abbiamo capito, almeno, che, messi in conto tutti i limiti del linguaggio e della comunicazione verbale, tra l’esprimere un desiderio e lanciare una sfida c’è una grossa differenza.
*
103 - Scrivi cose piuttosto tristi, mi hanno fatto notare alcuni.
Si tratta, in realtà, di una sorta di radiocronaca: non racconto nient’altro che la mia personalissima partita a carte. È quanto mi è toccato: la storia delle mosse, delle strategie spesso fallimentari che ho adottato. Scelte sbagliate, errori grossolani, valutazioni campate per aria.
Niente di bello dunque?
A voler essere sinceri, qualcosa c’è. Forse non è arrivato il momento, non posso nemmeno garantire che ciò accada. Stando al progetto, nei piani alti dell’edificio, che al momento non esiste ancora, troveranno posto tutti gli oggetti più preziosi e brillanti della collezione. Quanto di più inestimabile possiedo. Sarete, tuttavia, d’accordo con me: solo un folle può poggiare un vaso di cristallo nel bel mezzo di un cantiere, perché il rischio che qualcuno lo faccia cadere, per sbaglio o per poca premura, è altissimo.
*
104 - Attualmente vi trovate nel mio laboratorio. È il luogo in cui porto avanti i miei esperimenti, i miei progetti. Non è tanto accogliente, ma forse nemmeno vuole esserlo. Il disordine è inevitabile, così come la sporcizia.
Immaginate di trovarvi in una falegnameria: il pavimento cosparso di segatura, tutt’attorno banali pezzi di legno tagliati grossolanamente.
Le schegge volano, attenti agli occhi! Il rumore di lame circolari rotanti è incessante: che strazio per le orecchie!
Non è il luogo più adatto per divertirsi: niente di interessante, niente di utile. Niente alcool. Niente giostre. Niente TV al plasma. Niente videogame. Niente slot-machine. Che ci fate qui?
Posso solo offrire un pezzo di quella materia prima, grezza e ruvida, che mi diverto a plasmare maldestramente, cercando di darle altre forme; destinata, magari, a nobili fini.
Ancora una volta il mio personalissimo delirio, né più né meno. Una cella d’isolamento, la stanza imbottita di un manicomio.
*
105 - Mi farebbe piacere descrivere il giorno in cui anche l’ultimo militare abbandona la mia terra, poco prima che l’unica base rimasta venga rasa al suolo.
Mi piacerebbe descrivere un posto in cui le persone non si svegliano al mattino con il veleno che ribolle dentro di loro, pronti ai nastri di partenza per una caccia al tesoro in cui nessuno vince mai.
Mi piacerebbe raccontare di un posto in cui le persone stanno a proprio agio e spendono il proprio tempo a svolgere le attività per cui sono più adatte.
Mi piacerebbe narrare di morti serene, come solo la vecchiaia sa regalare, al termine di un’esistenza soddisfacente e completa.
Mi piacerebbe narrare di mille feste che nascono spontaneamente per le strade, nelle piazze piene zeppe di vecchi e bambini sorridenti.
E invece, temo, mi dovrò occupare di tutt’altro.
*
106 - Come un ratto grigio e sporco sbuco fuori dalla mia tana, di rado a dire il vero, e mi perdo nella piccola porzione di mondo che ho ricevuto in prestito, confondendomi tra altri miei simili che come me si mascherano, si truccano da super eroi convinti di avere in tasca la combinazione esatta per aprire il forziere.
È tutta una questione di compensazioni: in passato, per sopportare il peso delle ore, dei giorni, delle settimane, dovevo ricorrere al potere catartico della musica.
Funziona pressappoco come in una dieta: si sostituisce un alimento che magari è diventato nocivo, con un altro simile.
— Quello che sto facendo in questo momento — dico a M. mentre armeggio con i miei soliti arnesi — mi dà, se possibile, più soddisfazione rispetto a ciò che facevo in passato, perchè quello che dico, ora, si capisce dall’inizio alla fine.
La differenza è che in sottofondo non c’è musica. Un dettaglio non da poco.
Tra le tante idee che hanno manifestato violentemente il loro diritto di esistere, c’è stata pure quella di farmi scortare da un chitarrista equipaggiato solamente con il suo strumento acustico e abbastanza coraggioso da gironzolare assieme a me tra gruppi sparsi di persone.
Perché farlo?
In questo caso, il buon vecchio consiglio di puntare forte sul divertimento sembra adeguato, ma appare comunque riduttivo.
L’intuizione, nel frattempo, sebbene non sia stata ancora attuata per una serie di problematiche logistiche piuttosto ovvie, è sopravvissuta alla prima raffica incrociata di critiche: tra tutte le schifezze con cui mi son sporcato le meningi, questa non occupa sicuramente il primo posto nella scala dell’impossibile.
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107 - Sul concetto di impossibile, pt. 1
È impossibile, almeno per quello che ne sappiamo attualmente, che un asino si stacchi dal suolo e incominci a volare. È impossibile che un tonno si rechi al supermercato per acquistare tranci dei suoi simili, impacchettati dentro a scatolette di metallo in porzioni da 250 grammi.
È impossibile che un melo, di punto in bianco, incominci a produrre frutti d’oro.
Non è invece impossibile, anzi probabilmente accade già, che qualcuno trascini in giro il proprio spettacolino itinerante.
La domanda che in realtà dovrei pormi è: si tratta di una buona idea?
Il fatto che mi stia già impegnando in questa direzione, nonostante il poco tempo libero dalle logiche di produzione capitalistiche e il dispendio di energie psicofisiche per la realizzazione del progetto, rappresenta la risposta più esaustiva e allo stesso tempo più sintetica.
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108 - Hai davvero il coraggio di metterci la faccia? — mi ha chiesto quella strega di mia cugina una sera.
Conosco alla perfezione, da più di trent’anni, quei giganteschi occhi che sembrano scrutarti nel profondo, sono trivelle che scavano dritte verso il nucleo oscuro.
Non sono mai stato così serio.
Ed è per questo che nel risponderle mi sento invaso da una sicurezza, da una calma di un’intensità portentosa.
Mi sono esposto personalmente, in qualsiasi cosa abbia fatto sino ad ora, con il massimo impegno, senza provare nessun imbarazzo, anche nelle situazioni più strane, come quando ho prestato il mio corpo per raccontare, attraverso un cortometraggio, la storia di un ragazzo costretto a vivere recluso dentro ad un bagno di due metri quadri.
Oppure come quella volta che ho messo a disposizione il mio corpo e la mia voce per raccontare la storia grottesca di quattro ragazzi che salgono su di un camper per scappare dal nulla in cui abitano e approdare al medesimo nulla da cui sono partiti.
Ho cantato, si fa per dire, nelle situazioni più disparate: di fronte a vecchi sbigottiti, a bambini inconsapevoli e adulti schifati; davanti a decine di persone così sbronze da essere prossime al coma etilico.
Ci ho provato, semplicemente.
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109 - M. F è un omino minuto, con i capelli rasati e una barba delicata, quasi accennata sulla faccia tonda e pallida. Per un anno, forse qualcosa di più, è stato il mio professore di religione alle scuole superiori. Ora, a distanza di tempo, posso dire che mi ha insegnato molto.
A lezione ci dava la possibilità di confrontarci con spunti sempre interessanti, utilizzando metodologie e tecniche non proprio ortodosse.
Girava tra le aule armato di un radione mangianastri che talvolta utilizzava per proporci qualche brano musicale utile all’innesco o allo sviluppo della discussione. Si portava appresso numerosi fogli pieni zeppi di appunti e annotazioni che spesso aggiornava in diretta, in base alle nostre opinioni.
Al contrario di molti suoi colleghi, non si concentrava esclusivamente sul cristianesimo ma cercava di fornirci un quadro che fosse il più completo e neutro possibile. Una rarità, bisogna ammetterlo.
È grazie a lui se ho avuto il primo assaggio di ‘pluralismo‘, in maniera diretta: spesso nei 60 minuti scarsi che aveva a disposizione, invitava esponenti di altre religioni a presentarci i loro punti di vista; ricordo un buddista e un gruppo di Hare Krishna, che oltre alle parole ci offrirono i loro tipici biscotti speziati.
A volte avevo l’impressione di trovarmi immerso in una rappresentazione teatrale: gridava, ci provocava, strappava e calpestava le sue e le nostre pagine, condiva la sua didattica con un assortimento vastissimo di trovate geniali.
Rimase colpito dai miei gusti musicali, comuni per altro a quelli di molti altri miei compagni: l’universo dell’heavy-metal lo affascinava parecchio e, spinto dalla sua grandissima curiosità, iniziò anche ad ascoltare qualche disco. Partì dalle cose più melodiche sino ad affacciarsi sul baratro nerissimo del black metal: sapeva poco di un fenomeno che proprio in quegli anni viveva il momento di massima espansione e visibilità; per lui rappresentava un pozzo di informazioni interessantissime, e io una delle fonti principali.
In Scandinavia, Svezia e Norvegia soprattutto, facevano scalpore le iniziative di alcuni nuclei, diversi tra loro, che si erano coalizzati in un movimento, l’Inner Circle, di chiara matrice anticristiana.
Alle tante, tantissime minacce seguiva qualche gesto eclatante: due o tre omicidi, causati da rivalità interne, oltre a sporadici attentati incendiari contro piccole chiese. I pericoli legati alla cosiddetta musica del demonio diventarono facile preda per i mass-media italiani che iniziarono a dare la loro interpretazione.
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110 - M. F. mi propose di seguirlo nelle altre classi affinché potessi fare luce su quel fenomeno controverso. Accettai senza pensarci due volte: il mio coinvolgimento emotivo era totale e, in più, quell’opportunità permetteva di divincolarmi dalle materie più noiose, con gli altri professori che non opposero resistenza.
Così, senza sapere bene cosa stesse succedendo, mi ritrovai a parlare di misantropia e altre amenità ad una platea sbigottita di coetanei liberi di scagliarsi, come tanti tori contro un torero senza spade, per demolire quel castello di assurdità.
Io non ero altro che un rappresentante: mettevo sul tavolo un campionario di idee non mie, ma che condividevo, con l’enfasi tipica dei giovanotti. Illustravo al meglio la qualità dei prodotti per poi fare ritorno alla confusione della mia vita.
Tra me e M. F. nacque un buon rapporto, sincero e profondo. Un giorno arrivò a confessarmi che non era più sicuro di alcune sue posizioni: l’ipocrisia delle persone, studenti e colleghi, spesso lo feriva e in lui sembrava stesse germogliando un sentimento scuro, simile all’odio.
L’anno successivo, M. F. fu trasferito in un altro istituto: qualcuno arrivò a sospettare che le sue iniziative fossero indigeste alla parte più conservatrice del corpo docenti. Non so come andarono realmente le cose, ci perdemmo totalmente di vista.
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111 - R., fedelissimo amico dai tempi del liceo, lavora nel reparto telefonia di una nota catena di negozi. La sua attività gli permette di entrare quotidianamente in contatto con una moltitudine di persone.
— Indovinate chi ho visto oggi — ci disse un sabato sera. — Non ci crederete… M. F. si ricorda ancora di molti di noi , vi manda i suoi saluti; mi ha dato il numero di cellulare. Ha chiesto anche di te.
Dopo un paio di settimane vinsi la timidezza e lo chiamai.
— Il diavolo si rifà vivo — esordì con la voce squillante ed allegra.
— Ho lasciato un buon ricordo o un brutto ricordo? — replicai.
— Sicuramente buono — mi rispose senza pensarci un attimo.
— E allora non può trattarsi del diavolo — conclusi, proprio un attimo prima di venire investito da una sonora risata.
Facemmo rapidamente il punto delle nostre rispettive situazioni: lui era occupato presso la facoltà di teologia con un dottorato di ricerca su una corrente minoritaria, legata al cristianesimo, sviluppatasi in Asia Minore. Presi la palla al volo: — C’entra con lo gnosticismo per caso?
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112 - Amsterdam, 2007 (sul concetto di capitale sociale)
Le pareti del piccolo soggiorno si incendiano di un rosso porpora intenso e brillante. Per 25 euro al giorno, un pakistano agganciato grazie a K., suo connazionale, o qualcosa di simile, conosciuto in una puntata precedente, ci permette di stare nel suo appartamento in una zona piuttosto tranquilla a Nord della stazione centrale.
La poltrona su cui son seduto inizia a inghiottirmi all’interno del suo nucleo morbido e caldo. Mi raggomitolo su me stesso, pronto a sprofondare in quel ventre soffice ma, un attimo prima di scollegarmi definitivamente dalla realtà circostante, poggio lo sguardo su una serie di mestoli appesi in fila nel muro di fronte a me, sopra il lavello, in prossimità dei fornelli.
Osservo rapidamente i miei sei compagni di viaggio e la mia mente partorisce una considerazione brutale, di cui ancora mi vergogno, soprattutto per la forma; non sono altro che degli utensili: cucchiai, coltelli, forchette.
Troppo utilitaristica come conclusione, un paragone antipatico, eppure sembra esserci un barlume di verità.
Non resta altro da fare che correggere il tiro, abbellire la questione, affidandosi ad una metafora più graziosa: gli altri non sono che dei piccoli palloncini, come quelli usati dai clown per i loro giochi, ma anziché d’aria, sono gonfi di informazioni, e di competenze.
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113 - Non ci ho mai riflettuto così tanto come in questo periodo; ho gli amici più belli che il mondo mi potesse regalare: esperti ingegneri informatici, chitarristi, attori di teatro, grafici, disegnatori, dj, tecnici audio, tecnici luce, dottori in lettere, antropologia, sociologia, lingue orientali; fotografi, organizzatori di eventi, psicologi, video-maker, montatori, batteristi, scrittori, tipografi; e ancora: carpentieri, idraulici, appassionati di medicine alternative, ingegneri edili, apicultori, professionisti nelle pubbliche relazioni e nella comunicazione, educatori, artigiani, pittori, sarti.
Ho l’impressione di avere a disposizione un vero e proprio arsenale, un bacino di conoscenze infinite, che si arricchisce ulteriormente ad ogni nuovo incontro. Son sicuro che di fronte ad un problema, a un dubbio, o a una difficoltà, qualcuno di loro avrebbe il suggerimento giusto da darmi, se non addirittura la soluzione.
Se potessi, se ne fossi capace, costruirei un gigantesco cubo in vetro e li sistemerei dentro, lasciando ad ognuno la libertà di dare sfogo alla propria creatività. Io mi godrei il risultato di quella combinazione alchemica, urlerei a tutti gli altri che l’uomo non è morto, non si è trasformato in un essere spregevole e miserabile, sterile ed impotente come vogliono farmi credere, ma è ancora, più che in passato, uno degli animali più abili in grado di trasformare la propria genialità in opere meravigliose.
Considerazione: In realtà non c’è nessun bisogno del mio cubo di cristallo, perché tutti i miei amici muovono il culo in autonomia, si occupano già delle loro faccende, schizzano ed esplodono in mille direzioni.
Si tratta dell’ennesima utopia della mia personalissima collezione privata: il sogno di vedere tante molecole d’acqua raggruppate compatte ed omogenee in un fiume, mentre corrono unite verso il mare.
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114 - F. è l’ultimo grande serbatoio, in ordine cronologico, in cui mi sono imbattuto.
Mi muovo per il mondo come un cane, sniffo il culo dei miei simili, pronto a captare qualsiasi traccia, qualsiasi odore interessante.
All’ennesima domanda, F. sputa: — Tutto questo non rischia di diventare un’enorme interrogazione?
— E’ più simile al fantacalcio — rispondo io, anche se non so se il mio interlocutore abbia ben chiari i meccanismi del gioco.
In sostanza, si tratta di scegliere gli uomini migliori, tra tutti gli atleti partecipanti al campionato di Serie A, per ottenere il punteggio più alto, sbaragliare la concorrenza e accaparrarsi il primo premio.
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115 - Facciamo il nostro esordio nudi e piagnucolanti: l’abbraccio di nostra madre è tutto quello che ci serve, va bene per i primi tempi, ma a lungo andare la situazione cambia.
Anche se non posso vederla, né toccarla, do per scontato di avere una grossa valigia, sempre appresso a me.
All’inizio è vuota, al pari della tabula rasa citata da Aristotele per descrivere la condizione originaria dell’intelletto umano.
Con il passare del tempo, al suo interno si accumulano gli oggetti: alcuni vengono introdotti, in maniera più o meno subdola, dagli esperti che si occupano di riempire i bagagli altrui, altri vengono scelti dal soggetto, ma orientarsi all’interno del labirintico universo della consapevolezza non è affatto semplice: tante, infatti, sono le cose non si comprendono, moltissime quelle che si ignorano del tutto.
Possono essere scovate soltanto se qualcuno, anche in maniera fortuita, orienta la nostra ricerca verso la direzione corretta.
A quanto pare, questa strana, complessissima allucinazione chiamata vita avrà necessariamente una fine.
Nel viaggio definitivo di ritorno verso l’incomprensibile vuoto da cui siamo sbucati fuori saremo soli, assieme al nostro trolley strapieno di articoli più o meno futili.
La bontà del raccolto, di questo patetico collezionare, sarà proporzionale all’angoscia asfissiante che scandirà, in maniera crescente, il rapido sgretolarsi delle nostre presunte certezze, in prossimità del traguardo; sarà proporzionale alla serenità con cui attendiamo le operazioni di imbarco per il nostro volo.
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116 - Ho il culo poggiato sulla plastica rossa e dura di una sedia, prodotta sotto la supervisione di qualche triste omino cinese.
Sono a colloquio con una tizia bionda, sui quarant’anni, occhiali con la montatura nera elegante che si combinano alla perfezione con due occhi color menta. Sento che il cuore picchia più del solito, quasi con la stessa intensità del pomeriggio in cui mi sono innamorato per davvero, trenta o forse quaranta anni fa.
Sfila via con eleganza, fuori da una sottilissima cartellina in plastica trasparente, un foglio bianco con dei vermicelli di inchiostro blu che ci pascolano sopra.
— Purtroppo — attacca con voce impostata e professionale, con la stessa enfasi di chi recita quotidianamente la filastrocca delle previsioni del tempo — non possiamo operarla.
Il cuore accelera ancora, quasi come il giorno che l’ho baciata per la prima volta, in piedi nello spazio tra le due porte del treno che ci stava riportando entrambi verso casa.
La dottoressa ha il camice sbottonato per metà, che permette ad una maglietta rosa a righine verdi di conquistare la ribalta. Un grosso anello d’oro all’anulare che sembra quasi unto di grasso di maiale da quanto luccica.
Mi accorgo che la pelle sottile e screpolata che mi ricopre il cranio è umida di sudore ghiacciato.
— Potremmo provare con un ciclo di chemioterapia, per tentare di stabilizzare la situazione e rallentare il decorso della malattia.
Purtroppo, potremmo provare e tentare sono sinonimi di non c’è più niente da fare, ma per deontologia, o per chissà quale premura, raramente i medici affrontano in maniera così diretta la situazione.
Deglutisco; la saliva che scende rapida verso la sacca dello stomaco scorta, in parallelo, un brivido elettrico che parte dalla base del cranio per assopirsi nell’estremità del coccige.
Come un attore che si è preparato una vita intera a quell’unica, rara sublime rappresentazione. Il peggio ormai è passato. Tocca a me, nonostante le gambe molli sembrino non reggere il peso di quei sessanta chili abituali.
Tocca a me.
Sfodero un sorriso, il migliore che riesco a pescare fuori dal cilindro delle smorfie, che quasi si trasforma in una risata.
— Non penso mi possa interessare la vostra proposta. Ora mi scusi, ma devo lasciarla. Le auguro tutto il meglio, stia bene: ho da preparare la festa più grande mai fatta in vita mia.
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117 - 347.18.16.84X (il numero per le emergenze)
E. è diventato, con il tempo, uno dei miei punti di riferimento principali. È a lui che mi rivolgo ogni volta che smarrisco la strada, come quelle scimmie che saltano di albero in albero, prede della frenesia, nel tentativo patetico e disperato di afferrare le stelle fisse che brillano nel profondo della notte, ma così facendo perdono il contatto con il resto del branco. Niente di meglio, in questi casi, di qualcuno che ti riporti dritto a casa.
Prendo in mano il telefono, nel frattempo che la zuppa di piselli e patate saltella dentro al tegame.
— Hai mai sentito parlare degli Gnostici, da qualche docente, in Fuckoltà?
Ci pensa un attimo. Silenzio. Un brontolio, l’antipasto alla più classica e sintetica risposta negativa.
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118 - Siano benedetti i collegamenti ipertestuali.
Non ricordo le dinamiche esatte che mi portarono a quella specifica pagina su Wikipedia. Consultare una delle principali enciclopedie on-line esistenti è un po’ come scorrere il menù appeso fuori da un ristorante, con la speranza che il bestiale appetito che ti si agita dentro si assopisca, giusto sfamandosi con quello spezzatino di informazioni parziali.
Solo uno sciocco perderebbe tempo a masticare la carta dei primi, convinto di ritrovarsi la pancia piena di risotto alla pescatora e tagliolini al pesto.
Una cosa è la lista delle pietanze, un’altra le cibarie fumanti sopra i piatti da portata a due centimetri dalla lingua.
La lista è utile, certo, per una prima valutazione sommaria ma, in definitiva, è con le mani e il buon gusto dello chef che bisogna fare i conti. Per stabilire se il cuoco fa bene il suo mestiere, occorre passare all’esperienza diretta e approfondita.
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119 - Barbelognostici, Basilidiani, Bogomili, Cainiti, Carpocraziani, Catari, Cerdoniani, Cerinziani, Colarbasiani, Encratiti, Elcasaiti, Fibioniti, Mandei, Manichei, Nicolaiti, Ofiti, Pauliciani, Perati, Sethiani, Simoniani, Valentiniani, Valesiani.
Questo per limitarsi alle correnti principali suggerite da Wikipedia.
Vorrei tanto sbagliarmi ma chiedere un consiglio all’esperto di turno automaticamente si tramuta in un’implicita ammissione di ignoranza estrema e totale sulla questione, così l’altro è libero di scherzare con la tua inadeguatezza, con tutte le conseguenze del caso.
Eppure, ci sono ancora persone che mettono a disposizione le proprie competenze, in buona fede, per puro amore della ricerca.
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120 - Gennaio, 2014
Ci sediamo nell’unico tavolino libero, la sala è affollatissima di signore di mezza età vestite elegantemente, pare non abbiano avuto il tempo materiale per cambiare gli abiti dopo il veglione di Capodanno di alcuni giorni prima.
Tutt’attorno è uno schizzare nervoso e frenetico di camerieri ordinati e vestiti di nero.
Che io ricordi, non sono mai entrato in un locale tanto raffinato, ma M. F. è la classica persona con cui potresti stare a tuo agio anche in una cella due metri per due invasa dagli scarafaggi.
Nel tragitto, dalla piazza in cui ci siamo incontrati sino al locale, c’è stato appena il tempo per scambiare qualche battuta di circostanza: scherza sul mio nuovo taglio di capelli, in realtà, spiego, è stata madre natura che ha deciso per me, io mi sono soltanto adeguato, e mi chiede aggiornamenti sui miei interessi a livello musicale.
— Nessuno grida più dentro al mio stereo, niente chitarre distorte e batterie sincopate.
Con estrema cura poggia il soprabito sulla sedia vuota al suo fianco, poi appende ordinatamente l’ombrello; una ragazza viene a prendere l’ordinazione: due tè bollenti e un piatto di biscotti.
Mi guarda dritto negli occhi, arriviamo al punto; sono io ad aver insistito così tanto per incontrarlo, spetta a me spiegarne i motivi.
Gli racconto nel dettaglio tutti i passaggi della mia metamorfosi; non riesce a trattenere lo stupore mentre sgranocchia una ciambellina di pasta frolla e cioccolato. Dai dischi dei Marduk alle indagini applicate alla psiconautica.
È disposto ad aiutarmi, benché i suoi studi attuali non riguardino direttamente lo gnosticismo.
Mi mette in guardia sui rischi nascosti in un percorso del genere: non è sempre facile destreggiarsi tra le tantissime fonti, anzi, spesso si rischia di imbattersi in analisi faziose. Secondo lui, l’ideale sarebbe partire dai classici scritti dagli autori cristiani, e approfondire progressivamente le varie zone tematiche. Promette che nell’arco di una quindicina di giorni mi manderà una mail con i riferimenti bibliografici utili.
Non ci restano che pochi minuti, li spendiamo a dichiararci reciprocamente l’estremo piacere provato in quella piccola porzione di pomeriggio passata assieme. Capiterà ancora, assicura.
Una telefonata spezza l’equilibrio: la moglie è fuori che lo aspetta. Si sistema in fretta e si catapulta fuori dalla stanza, ad abbracciare una piccola donna.
A me riserva una stretta di mano, forte, vigorosa; poi, con la compagna sotto braccio, attraversa la strada.
— Lui è un mio ex alunno, ha avuto un’esperienza… — sento che racconta, con la sua buffa e sottile voce nasale, prima che il traffico cancelli quella conversazione.
*
121 - Amsterdam, 2004
Una giovane ragazza ci osserva mentre passiamo con il passo sveltissimo di fronte alla sua vetrina.
Le riservo un’occhiata furtiva: nel posto da cui vengo, quel ruolo di solito viene riservato agli agnellini e ai giovanissimi cuccioli di maiale che ammaliano il cliente penzolando perpendicolari agganciati per la gola ad una sbarra in ferro.
Strizza l’occhio e sorride, seminuda.
Almeno ha la possibilità di lavorare al caldo, al riparo dalle intemperie, penso, ma in realtà son concentrato su ben altri obbiettivi.
Divoro la distanza che mi separa dal numero 12 di Warmoesstraat.
Conscious Dreams.
Ai lati delle strade, gruppi di ragazzi, per lo più di colore, cercano di adescare i passanti più giovani per rifilare loro qualche sostanza psicoattiva illegale.
— Pssss.
Un sibilo sottilissimo, come se un palloncino si stesse sgonfiando dall’altra parte del mondo.
Un omone barbuto, con una maglietta attillata nera che si sforza di tenere a bada una pancia gigantesca, conversa al telefono, poggiato ad una panchina in legno di fronte all’Hotel International.
Mi guardo intorno, smarrito.
— Pssssssssss. Ehi uomo bianco! — ancora un flebile fischio.
All’angolo con Nieuwebrugsteeg, semi nascosto da un cestino dei rifiuti, c’è un ragazzetto con la pelle nerissima, al sicuro dentro un’enorme felpa verde con il cappuccio che gli ingloba il cranio.
Mi fa un cenno rapidissimo con la mano, lo sguardo serio, duro, che subito si combina con una smorfia furba, diabolica.
Ormai è palese, ce l’ha con me. Mi dirigo verso di lui ostentando una sicurezza che in realtà non ho. Mi viene incontro, mi afferra il collo, avvicina quelle piccole, mollicce labbra carnose e mi dice: — Ho un piccolo segreto per te, uomo bianco. Voglio raccontarti una storia.
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122 - Andare in giro per il mondo a spusherare minuscoli blocchetti della propria vita può essere pericoloso. In realtà, raccontare chi siamo e come la pensiamo a proposito degli argomenti più disparati è un ottimo modo per abbattere quelle barriere invisibili, ma tangibili, al pari del cemento armato, dietro le quali siamo murati.
Se è vero, come sostengono alcuni, che l’uomo è un animale altamente sociale, i rapporti interpersonali assumono un peso fondamentale, al pari del cibo, dell’acqua, o del calore minimo indispensabile per sopravvivere.
Può succedere che qualcuno abusi delle tue confidenze: il rischio di venire rapinati è altissimo, ma in ballo c’è un bene dal valore inestimabile, non oggettivabile in termini economici; il dialogo è uno dei presupposti indispensabili per conoscersi, e questo non è altro che il preludio per un’eventuale amicizia.
A conti fatti, il gioco vale la candela.
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123 - Sopravvalutare le proprie cicatrici è un gravissimo errore strategico: talvolta mi scordo che su questo scarno palcoscenico in tanti hanno recitato una parte triste e lacrimevole.
L’incontro con X. è servito tra le altre cose a fissare il concetto in profondità, in maniera permanente.
Con un movimento repentino si siede vicino a me, mi ripaga con la stessa moneta, dopo aver ascoltato alcune vicende legate al mio passato. Un assalto.
Racconta della sera in cui il padre e il fratello uscirono in macchina per non fare mai più ritorno a casa, cancellati da un’incidente automobilistico. In seguito, arrivò il turno della madre, sorpresa da una morte lieve e beffarda come il sonno al termine di una giornata troppo faticosa.
— Come hai reagito?
— All’inizio la rabbia ha preso il sopravvento, non riuscivo nemmeno a piangere. Il dolore è svanito, molto lentamente. Ho accettato la situazione, sono buddhista — ripeterà più volte.
Come se questo significasse avere addosso un giubbotto antiproiettile capace di ammortizzare qualsiasi tipo di urto, all’infinito. Come se l’intera nostra storia non fosse altro che un film in cui un regista sadico si diverte ad intrecciare coincidenze improbabili ad avvenimenti drammatici.
— Non si è mai comportato così con nessuno — esclama un amico stupito per quanto sta accadendo.
X. trasmette una serenità disarmante, nonostante gli argomenti che tratta.
— Ad esempio — continua — so esattamente come ci si senta ad essere pugnalati. Un tipo mi ha ficcato una lama in un fianco, spingendo in profondità con tutto il suo peso.
Ride.
Io ho la sensazione di avere un cubo di marmo al posto della faccia.
Per quanto riguarda invece il suo percorso scolastico si è chiuso in maniera spericolata, influenzato irrimediabilmente delle tensioni accumulate nel frattempo.
— Una professoressa voleva sbattermi fuori dalla classe, io insistevo sul fatto che avrebbe potuto soltanto mettermi una nota sul registro o, al massimo, mandarmi dal preside.
La discussione si accese, diventò sempre più violenta. Ci fu un contatto fisico, la donna cadde a terra. L’intervento di due colleghi non fece altro che aggravare le cose. Nell’ufficio del dirigente scolastico si sfiorò una rissa. La conseguenza fu l’espulsione, oltre a diverse ripercussioni sul piano disciplinare.
Gli parlo dell’autobiografia di Aldo Nove: se lui ha trovato gli stimoli per scrivere la sua storia, X. potrebbe fare altrettanto, visto che gli elementi intriganti non mancano di certo.
Eppure è una prospettiva che non gli interessa affatto. Mi invita anzi a scordare le sue peripezie.
A mezzanotte scocca il momento degli auguri per il suo compleanno, a cui mi unisco volentieri. Pian piano, la festa perde i suoi partecipanti.
Rimaniamo solo noi due, così gli offro un passaggio verso casa. Sono in compagnia di un perfetto estraneo, ma è come se ci conoscessimo da millenni.
Prima di salutarci ci godiamo il panorama da un’ampia terrazza, in prossimità del vecchio carcere, a pochi minuti dall’alba.
L’aria fresca solletica il sonno di una città intera, spalmata silenziosa sotto uno specchio infinito di stelle luccicanti.
*
124 — Conoscerai quattro persone, poi altre quattro, poi altre quattro ancora, e così via.
Ci congediamo con un abbraccio.
Ho lasciato che quelle parole cadessero nel profondo di una notte misteriosa, senza capirne il senso.
*
125 - La solitudine è una bestia crudele: ti paralizza il cuore, lo rende duro come la pietra. Il muscolo rosso, grande poco più di un pugno, si contrae a fatica, intrappolato nelle spesse bende del tempo.
Mastodontiche sfere di acciaio si espandono con il passare dei minuti, ingombrano la scatola cranica, soffocano il pensiero.
Lo sguardo svolazza annoiato, saltando da un oggetto ad un altro; una farfalla obesa che si arrende al suo triste ed ineluttabile destino.
Un labirinto senza uscita, un’infinità di miele amaro a cui abbandonarsi: cerchi un rimedio?
Il contatto con gli altri si trasforma in un bisogno, una dipendenza come tutte le altre.
La solitudine è un veleno, una malattia mortale, non c’è un’età minima per cadere preda delle sue grinfie .
I bambini ed i vecchi, quando mostrano i sintomi dell’infezione, sono le creature che ispirano la tristezza più sincera: i primi comunque hanno tutto il tempo per rifarsi.
Ci penserà il sistema ad accoppiarci: vicini di banco, o di pianerottolo; colleghi in ufficio, padri e madri con i pargoli rinchiusi nella stessa scuola, pendolari pendolanti sullo stesso mezzo pubblico.
Qualcuno si prenderà la briga, un po’ per passione, forse, un po’ per necessità dettate dall’ordinamento economico globale, di spiegarci ed istruirci sulle manovre che conducono ad una corretta socializzazione.
Effetti collaterali: i numeri, fusi in statistiche, descriveranno individui perfettamente calati nella propria costellazione relazionale, eppure la belva feroce regna indisturbata sulla radura scura delle nostre insicurezze.
Il trucco è farsene una ragione. I vecchi ci riescono così bene! Li osservavo con rispettosa ammirazione, mentre popolavano le sale d’attesa della stazione nel grande deserto delle domeniche pomeriggio: che strani animali, con le facce che cadono a pezzi, uno strato di malta che dice addio per sempre alla superficie del muro.
Nessuno si preoccupa di loro: si dà per scontato che non sentano più il dolore, o che comunque abbiano già vissuto la loro bella vita.
I bambini, a differenza degli anziani, ingaggiano dei teneri, epici duelli con la solitudine e con la noia, sua sorellastra, armati soltanto della propria vispa, beata fantasia. Un bastoncino di legno si trasforma in una spada; una corsa equivale ad un volo degno dell’aquila reale.
L’immaginazione: prerogativa assoluta, a quanto pare, di questo fragile animale bipede implume.
*
126 - Un bambino di sette anni, rinchiuso dentro ad un poligono irregolare di cemento, rincorre un pallone: plastica sottilissima piena d’aria, rimbalza sulle pareti e ritorna sopra i suoi piedi, ancora, ed ancora.
Corre, palla al piede, verso il cancello chiuso, che lo separa dal traffico motorizzato che non cessa mai di scorrere, un enorme frammento di pista perennemente acceso.
Ormai è così vicino che non può fallire: tutti gli occhi sono puntati su di lui, che responsabilità, calcia forte, a botta sicura, il Super Tele che si schianta contro le sbarre di ferro pitturate di blu.
Spetta sempre a lui segnare il punto decisivo e salvare la squadra da una disfatta che sembrava ormai inevitabile.
La palla rimbalza contro il cemento muto e ritorna sui suoi piedi, ancora ed ancora, per lui è come giocare con una persona in carne e ossa: Marco, Alessandro, Gianluca, Mauro, Simone, Andrea, Claudio, Martino, Mattia, Roberto, sono alcuni dei pezzi forti della squadra con cui realizza quegli interminabili fraseggi. Si smarca da avversari invisibili, riceve la sfera, si sforza di migliorare, di volta in volta, quei controlli approssimativi, del resto non può deluderli, per poi cederla, con grande altruismo, nell’ennesima triangolazione quasi perfetta.
Il momento più bello, però, è quando fa gol: le urla di gioia e gli abbracci degli amici, l’odore dolciastro del sudore.
*
127 - Sull’amicizia, pt. 1
“Amicizia: vivo e scambievole affetto fra due o più persone, ispirato in genere da affinità di sentimenti e da reciproca stima”.
Mi. mi confessa che ha imparato da Ma. a salutare gli altri con un abbraccio.
Ora fa i selfie con i suoi giovani fans, racconta con un sorriso consapevole, ma è una pratica che è maturata nel tempo.
In passato non ero particolarmente espansivo, anzi, tutto il contrario.
Eppure, con A. mi è venuto spontaneo esserlo sin da subito.
La prima volta che ci ho parlato, l’argomento ruotava attorno alle crisi d’asma.
Ne ho avuta soltanto una, sino ad ora, ma si è trattato di un’esperienza particolarissima.
Tenti, con tutte le tue forze, di buttare l’ossigeno dentro i polmoni, ma una pellicola di cellophane trasparente, tesa all’altezza dei bronchi, te lo impedisce.
I suoi occhi hanno iniziato a brillare, senza nessun motivo apparente. Chissà che tasto ho pigiato, in maniera involontaria, per scatenare quell’esplosione emotiva.
— Non mi sono ancora drogato! — assicura con enfasi, stringendo tra l’indice e il pollice una piccola bustina in plastica con dentro dell’**.
È come se le mie molecole, tutte le singole particelle che compongono il mio fisico, abbiano iniziato a vibrare armonicamente con le sue. Sembra che l’altro ti capisca alla perfezione, con un’immediatezza soprannaturale.
Una combinazione, magica e misteriosa allo stesso tempo, che quasi ti inganna, ti porta davvero a credere che questa vita, nonostante le brutture e i paradossi spiacevoli, abbia qualcosa di buono da offrire in cambio.
Il passo successivo è arrivato di conseguenza: ho trascinato fuori dal nascondiglio una delle paure più profonde, robaccia a proposito di serrature difettose e passe–partout introvabili.
Una battaglia che combatto ancora oggi con notevole dispendio di energie nervose sebbene, è giusto sottolinearlo, la situazione sia nettamente mutata in meglio, soprattutto nell’ultimo periodo.
A. ascolta e poi aggiunge appena: — Ho tutte le risposte che cerchi — spalancando le braccia per offrirmi un abbraccio, come i calciatori dopo un gol che decide la partita.
*
128 - Probabilmente custodiamo un enorme potenziale terapeutico, senza rendercene conto.
Rappresentiamo un limpido rimedio per il prossimo: i gesti, gli sguardi, gli atteggiamenti, le parole, i sentimenti che riusciamo a provare e a provocare a nostra volta, i nostri stessi ricordi, le esperienze negative, si trasformano in una benda, in un balsamo lenitivo; potremmo trascorrere le giornate a leccarci le ferite a vicenda; costruire corde da calare in ogni baratro, esplorare il fondo dell’abisso solo per vedere se qualche preda è stata catturata da quella stessa trappola da cui noi siamo riusciti faticosamente a scappare. La soluzione che ci siamo costruiti può essere la chiave per aprire la gabbia poggiata sul sedile a fianco al nostro: dentro c’è un individuo che non conosciamo e che forse non conosceremo mai.
Timidezza, incomunicabilità reciproca, paura dell’altro, assenza totale di sensibilità e sincerità, dilagare delle apparenze e culto dell’immagine sono solo alcuni ingredienti che contribuiscono a sbriciolare la società.
Le singole parti corrono in una competizione perenne, alla conquista del primo posto sul podio. Ringhiosi e aggressivi, un milione di cani alle prese con un unico osso di cartone.
Potrebbe essere tutto così facile, ed invece è come se siano riusciti a disattivare definitivamente la capacità di provare, anche a gradi minimi, empatia per i nostri simili.
**
129 - Sul gregge pt. 1
Settembre, 2012
Io sono del parere che chiunque, in linea di massima, abbia la capacità di correggere la propria rotta e tendere verso il meglio.
G. non la pensa allo stesso modo. Abbraccia con sguardo cinico e sprezzante una moltitudine di individui.
Intorno a me ci saranno 1000, forse 2000 persone. Domenica sera, ore 22.00: l’ora di maggiore affluenza alla festa in onore di S. G.
— Dimmi la verità: per quanti di questi sprecheresti il tuo tempo? — mette a dura prova il mio entusiasmo libertario.
Di fronte a noi sfila il peggio del campionario vivente degli orrori: l’inconsapevolezza ambulante che spinge dentro a carrozzine di plastica pallette di DNA da plasmare a propria immagine e somiglianza.
Ci penso un attimo, quindi decido di rigirare la domanda alla mia classe di hooligans.
Il primo ad alzare la mano è sempre il solito, l’anarcoide in fissa con Michel Foucault: — Se fossimo degli anarchici coerenti, o se tentassimo quanto meno di rifarci a questo ideale, la risposta sarebbe semplice: tutti.
Perchè la schiavitù di uno, come dice Bakunin, sia essa fisica o mentale, comprometterebbe irrimediabilmente la libertà degli altri.
In effetti, non fa una piega, ma qualcosa dentro di me mi suggerisce che è un’argomentazione debole, almeno in questo caso specifico.
*
130 - Sarei uno stupido sprovveduto se mi abbandonassi all’ottimismo più sfrenato e considerassi gli altri, senza distinzioni, come tanti fratelli illuminati pronti a fare del bene al prossimo, in maniera disinteressata.
In realtà, il recinto è diviso in compartimenti stagni: ognuno ha la faccia immersa nella ciotola delle proprie convinzioni, spesso incompatibili, antitetiche con quelle del vicino, e si preoccupa della propria sopravvivenza e quando va bene, di quella dei cari più stretti.
La natura pare ci abbia programmato perfettamente, con abbondanza di premure, in questo senso.
Ricopriamo, volenti o nolenti, dei ruoli che spesso ci mettono in contrapposizione: chi vende, ad esempio, non sempre può fare il pieno interesse di chi compra.
L’etica deve inchinarsi alle leggi di un mercato che, per definizione, non può permettersi il lusso di fare sconti a nessuno, e quando questo accade, è soltanto l’ennesima illusione montata ad arte da quel prodigio creato dalla ragione umana chiamato comunemente marketing.
Sotto le magliette e i giubbotti, nascosta da un sottilissimo strato di cute e adipe, celiamo la nostra identità sociale: occupiamo un gradino preciso all’interno di una scala gerarchica determinata.
Il nostro conto in banca definisce le nostre scelte, gli ambienti che frequentiamo; le nostre idee politiche e religiose influiscono sul modo in cui ci relazioniamo, sui nostri fini, sugli obbiettivi e sui mezzi, leciti e non, per raggiungerli.
Possiamo contare su energie limitate, e conseguentemente anche il nostro margine di intervento sull’esistente è tutt’altro che infinito.
Come se non bastasse, il mondo, almeno ad una prima, sommaria analisi, sembra irrimediabilmente in mano ai figli di puttana.
Il gregge, in costante aumento, si trasforma in un enorme materasso su cui si adagiano le chiappe del re.
Quattro poveri tarli soffocano piano, a stretto contatto con le sue natiche, mentre reclamano timidamente pari dignità.
Forse, ci sarebbe poco per cui stupirsi e ancora meno da scandalizzarsi, i tarli ambiscono soltanto ad una notte nell’attico per seppellire per qualche ora le proprie fantasie arroventate dalla frustrazione.
*
Aggiornamento: Ci sarebbe da capire che ruolo giocano, nel processo di trasformazione dell’esistente, l’arte e l’artista. Per G. quest’ultimo non è altro che un condensatore di idee.
Attraverso i discorsi che porta avanti con il suo gruppo, mi racconta un pomeriggio, è come se stessero puntando la luce di una piccola torcia elettrica contro il buio che ci avvolge, nel tentativo, difficile visti i tempi che corrono ma comunque possibile, di illuminare alcuni tra i problemi più significativi che affliggono le masse soggiogate dal potere. La speranza è quella di risvegliare qualche giovane pecorella dal sonno profondo in cui è sprofondata praticamente dalla nascita.
Secondo me, invece, bisognerebbe provare ad illuminare questa sudicia caverna in cui viviamo al pari del cielo sopra Baghdad durante la Guerra del Golfo, con razzi traccianti che sfrecciano da più parti e contribuiscono a rendere le manovre del nemico, le sue strategie d’attacco, finalmente decifrabili.
Verso il momento del contrattacco.
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131 - 24 dicembre 2013
Mi sveglio prima dell’alba, accompagnato da una strana sovreccitazione elettrica che alimenta il mio cervello.
Il pensiero corre veloce, come sopra ad una slitta trainata da un centinaio di cani che nel bel mezzo di un paesaggio innevato, privo di qualsiasi punto di riferimento, segue una rotta invisibile, a me sconosciuta.
“Bisognerebbe tentare di mutare la prospettiva dell’intera analisi — scrivo in un sms diretto al numero per le emergenze — e, quindi, capovolgere i termini del confronto: non si tratta più di capire quale possa essere il modo migliore per rapportarsi al resto del gregge, con tutti i vari discorsi sul conformismo e sullo spezzare le regole che legittimano il quieto (ed ipocrita) vivere collettivo, ma piuttosto impegnare, senza mezze misure, tutte le energie per formare un branco.
L’affinità di emozioni ed intenti è il criterio cardinale: va ben al di là dei legami affettivi determinati dai vincoli di sangue”.
Un branco di lupi ed un gregge presentano numerosi punti in comune: hanno a che fare con le medesime problematiche, ma allo stesso tempo godono di differenze peculiari. Entrambi i gruppi, infatti, necessitano di una copertura e di cibo.
Le pecore si affidano al pastore che si occupa di mettere a disposizione un ovile per dar loro riparo dalle intemperie e dal buio della notte e si incarica di condurle al pascolo, scortate dai cani da guardia che vigilano attentamente per impedire a qualsiasi elemento esterno di incrinare gli equilibri.
I lupi sono costretti, di conseguenza, a cibarsi di avanzi, di scarti, simili in questo senso ai cani randagi delle grandi città che rovistano, proprio come i mendicanti, tra le buste che zampillano da cassonetti sempre troppo pieni.
Trascorrono l’esistenza in rifugi di fortuna, ai margini, dove attendono pazienti le sere di luna piena in cui ululeranno all’unisono scagliando le proprie preghiere, o bestemmie, scegliete voi, verso quell’unico, luminosissimo bersaglio.
Un lupo non dovrebbe concentrare i suoi discorsi sulla dignità della pecora, ma pensare a come migliorare la propria condizione attuale.
Non si modifica una situazione se ci si limita soltanto a contare, elencare, criticare gli errori, presunti o reali, delle varie fazioni in campo. Al contrario, si incide su dati e variabili proponendo alternative, spedendo cartoline di saluti da un altro mondo, fornendo paradigmi nuovi con cui declinare il quotidiano.
Ancora una volta è l’intento che fa la differenza: il lupo sviluppa la propria identità, compatibilmente con i bisogni del suo branco e con gli stimoli forniti dall’ambiente di appartenenza che per definizione sono, almeno in partenza, sensibilmente diversi da quelli del gregge.
Partendo dal presupposto che il recinto, il mondo che ci contiene tutti, è il medesimo, il compito del lupo è quello di conquistarsi uno spazio in cui spendere il proprio tempo, contro le forze omologanti che agiscono per un fine opposto.
*
132 – Il mio è un pianto, una triste sinfonia dedicata alla nostra presunta o reale incapacità di cambiare le cose.
Osservo le formiche: ognuna di loro trascina una briciola dentro il formicaio.
Noi non siamo riusciti a fare molto meglio: spostiamo quintali di mais da un continente all’altro, barili di greggio, oro, pietre preziose, pesce, così come la carne ed il grano.
Stiviamo le provviste nei magazzini, poi affidiamo il compito alla grande distribuzione che centellina le risorse, oncia dopo oncia, nelle nostre umide case. Un disegno perfetto.
Rispettare i ruoli, ubbidire al dogma.
Il pensiero è un accessorio non richiesto. La velocità d’esecuzione è la chiave del nostro sistema.
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133 - Un lupo dovrebbe tentare di craccare lo spazio ed il tempo: sottrarli all’autorità esclusiva del potere e del capitale e renderli fruibili, liberamente, ai propri simili.
Un lupo dovrebbe essere in grado, anche alla luce delle esperienze passate, di ridisegnare i rapporti conflittuali con il pastore e con i cani da guardia, oltre che con il resto del gregge.
Per definizione un lupo è un elemento estraneo, non compreso, se non in senso puramente negativo, nel sistema architettato dal pastore.
Si può tentare, per innumerevoli volte, di ammazzare il pastore di turno, ma chi prenderà il suo posto, agirà, magari con più accortezza, per perpetuare lo stato di cose presenti.
Un aspetto inevitabile, poiché un gregge ha, per sua ragione d’essere, un bisogno irrisolvibile di essere guidato.
Il branco dunque sarà chiamato a muoversi in maniera autonoma, rispetto al messaggio diffuso dal pastore; sarà chiamato a difendere i propri spazi e la propria identità.
Si consideri, in aggiunta, per completare l’analisi, che tutto ciò a cui una pecora aspira è stare in pace nel proprio metro quadro di ovile.
Inoltre un lupo dovrà sviluppare, senza soluzione di continuità, gli anticorpi che permetteranno di resistere, di sopravvivere a dosi sempre più massicce di veleno.
Sempre alla luce delle esperienze passate, il cui esito disastroso può essere riassunto dai litri di sangue versati e dall’altissimo numero delle perdite, andrebbe riconfigurato il rapporto con il cane da guardia.
Quest’ultimo viene costruito, addestrato e retribuito per annichilire, fisicamente e mentalmente l’avversario di turno.
Un confronto impari: da una parte un esercito di sprovveduti, dall’altra uomini capaci di distruggere, con precisione chirurgico-matematica, il corpo del nemico, come se si trattasse di una struttura in carta pesta.
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134 - “I don’t know why people are so keen to put the details of their private life in public; they forget that invisibility is a superpower”.
Banksy
Tra i tanti super poteri immaginabili, l’invisibilità è quello che più mi attira. Se nessuno ti vede puoi agire sul reale in maniera indisturbata. Puoi intervenire, incidere in una data situazione senza che i responsabili si accorgano di cosa sta accadendo.
Meglio: l’invisibilità rende più difficile l’identificazione del soggetto operante.
Se riuscissimo davvero a diventare invisibili costringeremmo i cani da guardia ad abbaiare verso una presenza che può essere percepita ma non svelata del tutto.
Come sappiamo sono tanti gli strumenti, soprattutto in ambito informatico, che ti permettono di giocare le tue carte stando ben trincerato nell’ombra, ma la nuova malattia di massa conduce ad una sovraesposizione patologica in cui, paradossalmente, il successo, la vittoria, consiste nel lasciare più tracce possibili. Quanto più riesci a fare di spettacolare sotto la luce dei riflettori, più esisti, più conti, più pesi, più vali.
Sembrano lontani i tempi in cui la nicchia veniva considerata la dimensione ideale per progettare e sperimentare il nuovo con la preziosa collaborazione dei cervelli più brillanti reperibili in circolazione.
Ad un certo punto però la nicchia si è trasformata da luogo intimo, familiare ed accogliente, in disgrazia, sfortuna inaudita, piaga, condanna, costrizione castrante e svilente, infernale, intollerabile, inaccettabile.
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135 - Chissà quante volte, anche tu, sarai morto ed avrai iniziato una nuova vita — mi dice F. a corollario della nostra chiacchierata, incominciata con il pretesto di farmi un’idea più precisa sulla sua musica e sulla sua idea di rap.
In effetti, colpisce in pieno il bersaglio.
Ha ragione, sfonda una porta aperta: mai come ora sono convinto che si possa scegliere come vivere tra tanti ruoli diversi.
La mia professoressa di estetica alla Fuckoltà sosteneva che la maggior parte degli uomini trascorrono il loro tempo in maniera simile ai pacchi sui vagoni merci: subiscono in maniera passiva il divenire, il tragitto.
Tra le tante configurazioni, un uomo può assumere quella specifica del viandante che si muove nello spazio seguendo la curiosità, che si perde tra i suoi simili, speranzoso di poter racimolare un barlume di felicità (ma va bene anche un pizzico di sollievo, o conforto).
Le buone intenzioni talvolta non bastano, così capita che un viandante si trovi coinvolto in situazioni negative, complicate, poco simpatiche, come ad esempio una rissa.
Ancora una volta, è una questione di buon senso: si tratta di scegliere e sviluppare la metodologia più efficace per fronteggiare e gestire l’attacco dell’avversario.
Quella che segue è una delle tante strategie. Non per forza la migliore. Ma è quella in cui mi riconosco maggiormente.
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136 - Mi no atari to iu koto (Attaccare con il corpo)
Mi – No – Atari significa trovare una breccia nella guardia dell’avversario e gettarvisi dentro per colpirlo con il corpo: piegando lateralmente la testa e sporgendo in avanti la spalla sinistra, mira risolutamente a sfondargli il torace.
Usa tutta la tua energia nel raccoglierti, controlla il respiro, sii solido come una roccia che precipita per spazzarlo via, e mira direttamente al suo torace.
Diventare abile in questa tecnica di caricare l’avversario significa poterlo scagliare a quattro o cinque metri di distanza, arrivando talvolta ad ucciderlo.
Miyamoto Musashi – Il libro dei cinque anelli
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137 - Ottobre, 2008
La prima volta non si scorda mai, dicono.
Una scarica di corrente che investe nella sua totalità il sistema nervoso centrale; è simile all’eccitazione sessuale ma più intensa, raffinata, avvolgente. Assomiglia ad un’esplosione, un’espansione estremamente rapida e violenta di cui non sai nulla, ignori la causa scatenante e gli effetti a breve termine, puoi soltanto osservare lo svolgersi degli eventi da una posizione privilegiata; impossibile ammaestrare il demone una volta che guadagna la scena.
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138 - Non sono altro che una molecola d’acqua, identica a tutte le altre che compongono il torrente. Un uomo, sui 30 anni, aspetto curato, sta in piedi al centro della strada, come una roccia che affiora in superficie. Scruta, scandaglia le decine, centinaia di facce che secondo dopo secondo gli scorrono a fianco. Non so perché abbia scelto proprio me, forse per qualche dettaglio del mio aspetto, ma quando mi individua il suo sguardo si accende all’improvviso. È una questione di centesimi di secondo: tutti e due capiamo che qualcosa sta per succedere; è lì per quel motivo, io probabilmente pure, ma ad un livello meno consapevole.
Il secondo passo è l’approccio.
— Ciao — mi ferma sbarrandomi il passaggio, saltellandomi di fronte — hai mai letto un libro?
In ogni manuale di tattica e strategia militare che si rispetti c’è una sezione dedicata all’effetto sorpresa, un’arma a buon mercato che può, da sola, decidere le sorti di una battaglia.
Se il tuo avversario ti sottovaluta, nello sport, ad esempio, come in tutti i confronti che sbocciano nell’arco di una giornata, ti regala già un piccolo, incommensurabile vantaggio.
Come uno sbirro in borghese che si infiltra con abilità subdola tra le maglie intime dello schieramento opposto, mento spudoratamente senza lasciare spazio ai tentennamenti.
— Assolutamente no.
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139 - A pochi passi, sulla mia destra, un rachitico banco in legno sopporta silenziosamente il peso di diversi volumi, tutti piuttosto grossi; il tizio ne prende in mano uno e rilancia: — Questo può cambiare il mondo.
Il pianeta è popolato da figli di puttana di ogni sorta: lupi mannari che cercano, in ogni modo, di sbranarti il cervello, il cuore, il portafoglio, in ordine variabile; non so cosa giustifichi il loro comportamento, ma il punto è che questi loschi figuri esistono e ci provano incessantemente con tutta l’enorme, sterminata varietà di mezzi a disposizione.
È un’esca troppo appetitosa per non cascarci.
Mi sento un cucciolo di squalo che addenta verme ed amo nella speranza di trascinare nel fondo il pescatore e la canna da pesca.
— Vuoi farmi credere che in queste pagine c’è la soluzione al problema della fame in Africa, alla crisi tra Israele e Palestina, al conflitto Russo-Ceceno, alla disparità della redistribuzione delle risorse, alle questioni legate all’inquinamento senza scrupoli?
— Si — risponde poco convinto, mentre si accende la prima sigaretta.
— Fammi capire: hai tra le mani un libro dai potenziali incredibili e passi il tuo tempo a parlare con un fesso come me? Dovresti essere al palazzo di vetro dell’ONU, o in Vaticano, a colloquio con il Papa, o da Putin, da Gorbaciov, da Stalin, da Bush, ed invece sei qui — gli dico, nel frattempo che Adriano Pappalardo si dedica alla prova suoni per lo spettacolo che andrà in scena poche ore più tardi, regalandoci una clamorosa anteprima di ‘Ricominciamo’, vero e proprio cavallo di battaglia del suo repertorio.
— In realtà — obietta il giovane, ripartendo alla carica – si parte dal trasformare se stessi, concentrandosi sulle tensioni negative che ci accechiano e ci distruggono, per poi migliorare il mondo circostante.
Iniziativa lodevole, penso tra me e me mentre una brezzolina fresca solletica appena, leggera, i piccoli lenzuolini con il logo di Scientology stampato sopra, che decorano quel fortino improvvisato.
— Prima di voi ci hanno provato in tanti, dai Buddhisti passando per Aristotele e la sua ‘Etica Nicomachea’, sino ad arrivare a tutti i campioni della morale di stampo occidentale. Un compito sicuramente non facile…..
Il mio interlocutore sputa fuori il fumo dalle narici, con la bocca sigillata in una smorfia indecifrabile.
— Quanto costano i libri? — provo a smorzare i toni della diatriba.
— 25 euro — risponde come un commesso efficiente durante il suo turno di lavoro, indicando con lo sguardo il tomo che continua a stringere tra le zampe; — mentre questi — prosegue avvicinandosi al tavolino — vengono 30, 35 e 40 per la versione completa e aggiornata.
— Il tuo capo dove si trova in questo momento secondo te?
— Chi ha scritto i libri è stato preso dagli alieni…
— No — lo blocco — intendo chi si mette in tasca i quattrini, l’editore, il responsabile del progetto.
— Vive in un resort sulla costa occidentale della Spagna — afferma candido.
— E tu invece sei qui al freddo a fare il pupazzo con il primo deficiente che ti capita a tiro.
Ancora fumo che esce copioso dai grossi fori neri del naso.
Alle spalle del mio interlocutore sbuca un omino asciutto, sui 50 anni, in giacca e cravatta, che entra prepotentemente nella discussione con la stessa irruenza di un terzino in scivolata.
— Chi sei? Cosa vuoi?
— A dire il vero siete voi che mi avete fermato — rispondo mentre il giovane sembra leggermente rinfrancato dall’intervento provvidenziale del collega più esperto.
— Non abbiamo più nulla da dirti, vai via — conclude secco.
Mi sento come un bambino costretto a scendere dalla giostrina dopo appena mezzo giro.
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140 – Parentesi: Ci sono persone che bussano alla tua porta e hanno il potere di risultare decisive, irrompono nella tua esistenza, stravolgendola con la stessa intensità di un uragano che nasce all’improvviso dentro ad una stanzetta di tre metri quadrati.
Il primo della lista fu K.: eravamo entrambi iscritti ad un gruppo di discussione via mail molto attivo nei primi anni del duemila; lo colpì un mio commento su un certo cugino di mia madre, che conciliava senza problemi l’ultimo modello di casa Audi e una barchetta di quattro metri con il suo essere “intimamente comunista”.
Si armò di pazienza e scrostò dalla facciata diversi strati di ingenuità; ci scrivevamo quotidianamente lunghissime mail, trattando gli argomenti più disparati. È grazie a lui se ho iniziato ad osservare il mondo con occhi diversi, con la giusta dose di disincanto; è grazie a lui se ho potuto toccare con mano la lotta degli acerrani per impedire la costruzione dell’inceneritore; è grazie a lui se ho potuto scorrazzare tra le strade di Napoli e Secondigliano con la stessa spensieratezza di un fanciullino al parco giochi; è grazie a lui se ho potuto ammirare da distanza ravvicinata le dinamiche controverse e affascinanti del commercio alternativo nel campeggio dell’Arezzo Wave; è grazie a lui se ho stretto amicizia con il dottor Albert Hofmann; se ho incominciato ad appassionarmi alla golden hour pure senza capirne nulla di fotografia.
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141 – Ci sono persone che bussano alla tua porta e hanno il potere di risultare decisive pt.2
Il secondo è senza dubbio M, conosciuto ad una festa a casa di P. Alcuni mesi dopo ho la possibilità di passare un po’ di tempo con lui a Santa Teresa di Gallura, in occasione di un notissimo festival jazz. Deve curare, per lavoro, alcune questioni legate alla comunicazione dell’evento; io posso permettermi il lusso di curiosare e vagabondare a mio piacimento, in totale libertà.
Nel bel mezzo di un momento di relax, impugna la videocamera e mi invita a dichiarare pubblicamente che una volta finiti gli studi avrei svolto un tirocinio presso la sua azienda.
Alcuni anni più tardi, in un piovoso pomeriggio dell’ottobre del 2011, ricevo una sua telefonata; mi invita calorosamente, col tepore a modo tipico della dinamite, a rispettare l’antica promessa.
In appena quindici giorni di permanenza nell’ufficio, getto le prime basi del progetto attuale, all’epoca chiamato Giorno 0, ed entro a far parte di quel meccanismo che tutt’ora mi permette di strappare la mia parte di bottino.
L’ultimo prestigio, in ordine cronologico, si è verificato in occasione della serata conclusiva dello Skepto Internation Film Festival, edizione del 2015.
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142 - Parentesi 2: Non c’è niente di più bello che vedere un uomo nel pieno turbinio delle sue faccende. Durante lo Skepto, M. si trasforma in un essere sovrannaturale, riesce ad essere contemporaneamente in più luoghi e a risolvere una serie di problemi di natura diversa.
— Ho trascorso 20 anni — mi racconta una sera — a cercare di capire, attraverso l’osservazione e l’esperienza diretta nei vari festival, come si organizza un evento. Lo immagino nel dettaglio; riesco a visualizzarlo nella mia testa ancora prima che venga realizzato. Mi piace occuparmi di ogni aspetto, calibrando i segmenti che compongono lo spettacolo in base alle reazioni che mi piacerebbe suscitare nel pubblico.
Invade il mio spazio visivo abbracciato ad un grosso omone dall’aria bonaria e divertita.
La mia intenzione era quella di abbandonare il posto in tempi rapidi, dopo alcune chiacchierate piacevoli, ma il mazzo della carta degli imprevisti, come nel Monopoli, esiste proprio per frantumare piani e inutili buoni propositi.
— Lui è G., insegna marketing alla Bocconi. G., questo è un mio amico, un ‘filosofo anarchico’
Lo speaker presenta al pubblico i due contendenti che si studiano dai due angoli opposti del ring.
A differenza del primo caso, in cui il mio interlocutore, giovane soldato di Scientology, non sapeva nulla di me, questa volta ho tutto da perdere: mi è stata applicata un’etichetta visibile e scomoda, che dichiara a chiare lettere il mio orientamento politico e, aspetto ben peggiore, sovrastima le mie competenze e le mie capacità.
Non so davvero se studiare fisica, ad esempio, e conseguire una laurea in questo campo sia sufficiente per essere definiti fisici; probabilmente per diventare avvocati basta sostenere gli esami previsti, presentare la tesi e superare l’esame di Stato; magari funziona così tra i medici e gli ingegneri, ma temo che con la filosofia le cose siano ben diverse.
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143 - Sgombro preventivamente il campo dagli equivoci e incasso il primo affondo, che conferma con disarmante puntualità lo schema classico.
— A quanto pare stai invecchiando anche tu.
Allude alla mia barba brizzolata.
— In realtà, mi piace molto il bianco, è un colore che mi dona — replico come se qualcuno avesse appena scritto la battuta su un foglietto di carta e me l’avesse sbattuta, con tempismo stupefacente, sotto il naso.
Le risate del mio interlocutore confermano che la connessione è avvenuta in maniera positiva; non resta che procedere con la mossa successiva, anche perché M. nel frattempo è stato assorbito da altre circostanze e mi ha lasciato l’onore di intrattenere il suo ospite.
— Ti va di fare un gioco? — propongo. — Parliamo del più e del meno, il primo che butta nella mischia un’affermazione claudicante, autorizza l’altro a scagliarcisi contro.
Decidiamo di prendere qualcosa da bere, con le due bariste che faticano, e non poco, a soddisfare in tempi rapidi tutte le richieste.
La mia attenzione si sposta sulle tante bottiglie in bella mostra; godono di forme sinuose e perfette, ammiccano come le famose signorine nelle vetrine del Red Light District di Amsterdam, ognuna con una particolarità che la distingue dalle altre. Ci dev’essere qualcuno pagato appositamente per dedicarsi a tali questioni, che tendiamo a dare per scontate, ma immagino ci sia dietro una ricerca ben mirata.
Poco prima di sederci a un tavolino, G. cerca di convincermi sull’esistenza di un fantomatico marketing etico: è proprio ciò di cui si occupa assieme ai suoi studenti. Il suono del gong riecheggia nelle mie orecchie.
Quasi come se un mago avesse realizzato uno stranissimo sortilegio: tra le decine di persone che dividono assieme a noi quello spazio, chiunque stia bevendo una birra, ha (per coincidenza?) scelto la medesima marca, un evento che sfiora il 100%.
Mi viene in mente un articolo apparso diversi anni prima sul Fatto Quotidiano dove l’autore evidenziava i prodigi della pubblicità: ad ogni regione in Italia era stata abilmente associata una marca di birra che si trasformava in un tassello fondamentale dell’identità culturale dei suoi abitanti, con ovvie conseguenze sui dati di vendita.
Per G. la soluzione di questo mistero è piuttosto scontata: secondo lui, si tenderebbe a consumare bevande prodotte nella propria zona, come gesto di solidarietà economica nei confronti dei nostri fratelli imprenditori, ma soprattutto perché il trasporto ne deteriorerebbe irrimediabilmente la qualità.
Viviamo in tempi bizzarri: il gioco perverso della globalizzazione rende difficile decifrare la provenienza delle materie prime che vanno a comporre gli alimenti che consumiamo ogni giorno. Si rischia così che l’unico elemento che lega un particolare prodotto alla presunta regione di appartenenza sia il luogo di nascita degli operai coinvolti nel processo standardizzato, discorso forse ormai reso obsoleto dalla continua espansione delle multinazionali e dalla conseguente delocalizzazione delle varie attività.
L’identificarsi con un marchio sembra più l’effetto di un’attenta strategia comunicativa che il frutto di un sentimento autentico e consapevole basato su dati attendibili.
Tuttavia, la teoria di G. non è cestinabile in blocco: benché la casa produttrice della birra maggiormente venduta nella mia regione sia stata assorbita, ormai da decenni, da un fondo straniero, è vero (a quanto si legge in giro) che l’acqua utilizzata venga presa da una fonte situata in prossimità della fabbrica. A quanto pare questo discorso vale solo per il contenuto delle bottiglie in vetro; c’è il rischio che il liquido che fuoriesce dalle lattine sia realizzato nello stabilimento di Pollen, in Valle d’Aosta, assieme a quello poi commercializzato da molti altri competitor.
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144 - Liquori al pistacchio con l’1% di pistacchio, latte di mandorle senza latte di mandorle dentro; ciliegie rosso fiammanti campeggiano fiere sul cucuzzolo di magnifiche torte, ma brillano per l’intervento decisivo del succo di barbabietola.
Non siamo mai usciti dalla caverna di cui parlava Platone, anzi, c’è qualcuno che studia e si ingegna per arredarla e perpetuare l’inganno, spacciando menzogne, vestendo bugie con abiti eleganti in nome del grande Leviatano economico.
— Come si può parlare di etica — chiedo a G., — in un circo in cui a regnare è l’apparenza spinta sino al raggiro?
Per qualcuno, la lista degli ingredienti è piuttosto chiara; basterebbe leggerla per avere un’idea sufficientemente attendibile sulla natura di ciò che ci infiliamo in bocca; eppure sulla facciata scintillano informazioni controverse, le parole assumano significati diversi, i sensi vengono confusi da immagini subdole.
Un papà prende un coltello e taglia una fetta di pane, ci spalma sopra un’abbondante cucchiaiata di crema alla nocciola e la porge, sorridente, al proprio figlio.
Cosa dovrebbe rispondere quest’ultimo: grazie o vaffanculo?
Dentro a quei barattoloni non c’è nient’altro che olio di palma, di provenienza ignota, e zucchero di dubbia qualità.
— Ma la Nutella è buona — risponde G. con un’esclamazione gioiosa, tipica dei bambini.
Il mio interlocutore, lo do per scontato, è un professionista che conosce esattamente il peso specifico di ogni singolo termine.
Come può essere definita tale una mistura che a conti fatti ha più ripercussioni negative che positive sul nostro organismo? Quando e per merito di quale genio, le papille gustative hanno guadagnato il ruolo di giudici assoluti? Come ci si può abbandonare ad un dato sensibile che viene completamente inquinato da un bombardamento di aromi naturali e artificiali?
Elenco una piccola lista di trappole posizionate in modo strategico sugli scaffali dei nostri supermercati.
— Perché te la prendi proprio con le ditte con cui ho collaborato?
— Ho partecipato ad un seminario, un giorno; mi hanno spiegato che ci sono una serie di bersagli invisibili che riusciamo a colpire pur senza vederli.
*
145 - Nell’ultimo periodo avrò fatto ad A. e B. la stessa domanda per decine di volte, proprio per essere sicuro di aver compreso appieno la loro risposta.
Entrambi sono accomunati dal fatto di appartenere alla stessa scuola di arti marziali, i Dog Brothers.
— Mettiamo il caso che vi troviate in un bar e nel frattempo che scambiate serenamente due chiacchiere con un amico, arrivi qualcuno, magari sbronzo, che prova a darvi, senza nessun motivo apparente, un cazzottone in faccia, ignorando totalmente il vostro livello di addestramento.
Come reagireste ad un fatto del genere?
Per B., una delle regole principali tra quelle che ha appreso è quella di non frequentare persone stupide in luoghi stupidi e non ficcarsi, dunque, in situazioni stupide. Allo stesso tempo, però, ammette che sia inevitabile difendersi, proprio perchè nel contenere un colpo, cosa peraltro assolutamente legittima, è già sottintesa una replica nei confronti dell’avversario.
La posizione di A. è ancora più esplicita: bisognerebbe reagire con il massimo della decisione e della forza necessaria richiesta nel momento.
Ho raccolto il loro punto di vista alcuni mesi dopo il fatto che mi accingo a raccontare.
*
146 – 24 Aprile 2015
Son seduto ad un tavolo assieme a L. quando si avvicinano quattro ragazzetti, due uomini e due donne, tutti piuttosto giovani: si presentano con modi cordiali e decidono di accomodarsi con noi.
Dopo alcune chiacchiere leggere, inizio a parlare con il tizio affianco a me, alla mia sinistra: come spesso capita, dopo il suo esplicito invito, illustro il funzionamento dei miei soliti arnesi.
A quanto dicono, quando si mangia viene spontaneo parlare di cibo e ricette; al sottoscritto capita di discutere di legalizzazione nel frattempo che ci si dedica al THC.
— Penso si debba andare oltre all’uso per fini ricreativi o terapeutici, sono in un certo senso limitanti; perché non provare ad aprire una terza strada, indirizzata alla psicona…
— E tu che cazzo sei, un rastafariano? — il tizio posizionato a ore 2 mi interrompe bruscamente, senza nemmeno farmi finire il concetto.
Non conosco molto di quel particolare movimento politico-religioso, ma da quello che mi è sembrato di capire sbirciando su Wikipedia, l’unico elemento in comune con ciò a cui mi riferivo, è la marijuana. Poco, se devo essere sincero, per meritarmi un parallelo del genere.
— No — rispondo con tutta la calma di cui son capace, nonostante il ragazzo abbia pescato dal cilindro una delle giocate che ha il potere, come poche altre cose, di scardinare il vaso di Pandora e portare alla ribalta il peggio di me — ma penso che sia una questione che possa avere grossissime ripercussioni sul piano economico e sociale, oltre che in termini di libertà.
— In ogni caso non si tratta sicuramente di una priorità — mi sento controbattere — ci sono tante altre cose su cui impegnarsi.
Pur essendo fermamente convinto che ognuno sia legittimato a puntare il proprio personalissimo zoom sugli obbiettivi che ritiene più importanti, sto al gioco, curioso di sbirciare le carte in mano al mio avversario.
— Al primo posto ci metto il diritto alla casa — replica sicuro.
La mia curiosità sgattaiola fuori come una marmotta dalla sua umida tana.
— Chi dovrebbe concederti questo diritto? Lo Stato che cerchiamo di pugnalare al cuore e distruggere? — Punto d’azzardo sulle sue posizioni politiche. — Oppure ti riferisci alle varie dottrine giusnaturalistiche che prevedono, per ogni essere umano, un bouquet di libertà e garanzie in omaggio per il solo fatto di essere stati defecati su questo mondo?
Difficile, in ogni caso, sostenere simili pretese nei confronti di un Repubblica fondata sul lavoro e che in cambio del lavoro elargisce le varie possibilità.
Certo, i meno abbienti possono sempre reclamare un aiuto da parte del governo ma, intesa così, assomiglia più ad un’elemosina che può venire concessa o meno in base alla disponibilità o ai sentimenti del momento.
Come e dove sistemare centinaia di pargoli, assieme ai loro genitori disperati, in un paese in cui spetta ai nonni giocare il ruolo di ammortizzatori sociali nei confronti dei più giovani?
— Per diritti naturali ti riferisci a Darwin? — Spara.
La discussione si incarta drammaticamente: i miei punti di vista vengono liquidati come astrazioni inutili, seghe mentali attorno ai massimi sistemi che non si concretizzeranno mai. Un vicolo cieco.
Ho la sensazione di aver esagerato, non so perché ma la faccia del mio interlocutore mi sembra ancora più pallida rispetto a quando è iniziato il tutto. Così alzo le mani in aria, come suggeriva Shulgin per evitare problemi nelle sue sessioni sperimentali.
— Ti arrendi già?
— È una sorta di segnale convenzionale — cerco di spiegargli — in alcuni casi specifici significa “fine del gioco”.
Decide, invece, non so davvero perché, di insistere esponendomi una bizzarra teoria che collega il problema del disboscamento globale alla produzione di anfetamine, ottenuta strizzando energicamente i tronchi di certi alberi non meglio identificati.
Mi sento un vecchio rimbambito, vorrei essere solo lasciato in pace, perché sembra ormai chiaro che proseguire con quella discussione è inutile per entrambi, se non addirittura controproducente, così metto fine alla contesa.
Quando penso che il peggio sia passato, L. parte all’attacco in una versione tanto aggressiva da risultare inedita per me.
In sostanza, secondo la sua visione delle cose, avevo irrimediabilmente bruciato il terreno su cui instaurare un dialogo costruttivo, innalzando al contrario un muro invalicabile ed indistruttibile tra il sottoscritto e il mio giovane interlocutore. Non si sarebbe più fidato di me, non avrei mai più avuto l’occasione di parlarci. Il tutto aveva il carattere di una sentenza definitiva, irrevocabile, inappellabile. Ero stato, in definitiva, un pessimo educatore.
Fino a prova contraria, ci trovavamo però in un locale pubblico, non in una scuola elementare e né tanto meno in un asilo nido, luoghi in cui effettivamente ci si aspetterebbe toni e modalità ben diverse.
Il punto focale della questione era, però, un altro: dalla mia bocca, sfido chiunque a testimoniare il contrario, non sono mai uscite le parole magiche “io sono un educatore”.
Non ho nessuna intenzione di andare in giro per il mondo a coccolare al vostro posto i vostri figli, colmandone le eventuali carenze affettive, cognitive, etiche o morali, soprattutto se si parte da una situazione orientata allo scontro come in questo caso.
Mi piacerebbe, questo sì, contribuire ad accendere dei confronti fertili, sugli argomenti più disparati, in qualsiasi teatro possibile e immaginabile, in modo che i vari attori protagonisti possano tornare a casa con uno spunto inedito, un’interpretazione differente, un dubbio in più, una paura in meno o, va benissimo uguale, un contatto nuovo in rubrica.
Per il resto, il mio interlocutore potrà tranquillamente andare a mangiare la pizza dove meglio crede; se nel mio locale ha ricevuto un servizio poco curato e insoddisfacente dovrà soltanto preoccuparsi di non metterci più piede, anche se ovviamente per lui, come per chiunque, le porte sono sempre aperte.
*
Aggiornamento: L. si sbagliava.
Ho riaperto la questione con R. il 13 marzo scorso: ci tenevo quanto meno a fargli sapere che il confronto di alcuni mesi prima aveva, per quanto riguarda il sottoscritto, lasciato il segno, aggiudicandosi un posto d’onore nella sezione dedicata alle risse.
— Spero di esserne uscito bene — bofonchia tenero.
In realtà, le modalità di innesco e le argomentazioni spuntate fuori in quella circostanza sono state abbondantemente ruminate in seguito e riproposte più volte all’attenzione di terzi, tutti aspetti positivi a mio giudizio.
Ho modo di capire meglio il suo punto di vista in merito al diritto alla casa, molto simile a quello offerto da M. A., in una splendida chiacchierata chiarificatrice.
Si tratta di una strategia di lotta, se ho capito bene, tesa ad ottenere i maggiori benefici immediati; se provo ad accedere ad un quadro più generale della questione, R. mi stoppa con il classico “non serve a nulla perdere tempo con i massimi sistemi”.
A mio avviso, però, evidenziare il fine ultimo di un’azione è utile, fondamentale direi, per comprendere se si sta procedendo verso la medesima direzione oppure no.
Per quanto riguarda le questioni legate alla scuola, ad esempio, R. sembra preferire posizioni riformiste, a differenza del sottoscritto. Nessun problema, sia chiaro, ognuno procede per la sua strada.
Colgo l’occasione anche per riportare in vita le mie considerazioni sull’antiproibizionismo, brutalmente assassinate con un proiettile alla testa dopo appena un metro di strada.
Il discorso delle strategie e degli obbiettivi a medio termine vale per tutti: cercare di evitare che tanti miei simili continuino a finire dietro le sbarre mi sembra un’iniziativa non così deprecabile, come invece poteva esserlo diversi mesi prima.
Si tratta di un problema che in Spagna, giusto per citare un posto ad un’ora di aereo da casa mia e che in materia ha leggi simili alle nostre, è stato decisamente attenuato in termini di ripercussioni penali negative nei confronti del singolo individuo.
L’aspetto più importante di tutti, comunque, è che il rapporto dialettico non si è compromesso.
— Fatico a capire chi si offende dopo una discussione — afferma R., e su questo sono assolutamente d’accordo. Anzi, rilancio: se due persone provano piacere, nel mio caso è immenso, a discutere anche con toni accesi, al limite del regolamento, dovrebbero mettere in piedi un fight-club.
*
Aggiornamento 2 – “Finché i fight club non prolifereranno universalmente, start up, agenzie di pubblicità, bar alla moda e camionette di sbirri non cesseranno di pullulare con una crescita esponenziale”.
Tiqqun – La comunità terribile \ Sulla miseria dell’ambiente sovversivo [2001]
Ho avuto modo di leggere il testo in questione durante il corso d’aggiornamento tenuto nel mese di Luglio nel villaggio di Tre Fontane.
Mi sembra il tassello giusto per chiudere nel migliore dei modi questo discorso e per guardare con rinnovata determinazione al futuro prossimo.
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147 - Il caso Gravellu
Osservo lo spettacolo dell’immenso cielo stellato. Non posso ancora vederlo, eppure lo percepisco, si avvicina, centimetro dopo centimetro, silenzioso.
Una delle lezioni più inflazionate, somministrate con puntigliosa insistenza: non è detto che, solo perché il sole è sorto sino ad oggi, debba fare lo stesso domani.
Abitiamo, con gradi di serenità variabili, il nostro bel castello di abitudini, convinti che niente e nessuno possa scalfire la fortezza. Un singolo, minuscolo granellino di polvere può corrompere l’intera illusione.
Un meteorite gigantesco si avvicina, minaccioso. L’impatto è prossimo. Squarcerà l’atmosfera, mandando in mille pezzi il muro del suono. Punterà dritto, verso questo minuscolo cumulo di ferro e cemento. Traiettoria calcolata, necessità ineliminabile. Potremo solo ammirarlo in tutta la sua sconvolgente, terribile forza distruttrice. Cancellerà in un colpo solo, secco, letale, i suoni, gli odori, gli umori, la miriade di sensazioni, l’affetto.
La notte è un piccolo scrigno che custodisce fedele quanto di più prezioso possediamo; sbirciamo dalla minuscola fessura, il coperchio semi aperto, sperando che tutto sia al suo posto, come l’avevamo lasciato.
Il miracolo si ripete.
Talvolta è un buffo starnuto, spesso è il suo abbaiare, decisamente più scontato.
Il suono che mi strappa dalle tenebre confuse del sonno, spalanca le porte della realtà. Anche quest’oggi mi sarà servito un pasto di cui non mi stancherei mai, ma sotto questo cielo, tutto è destinato ad esaurirsi.
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148 - La stessa tecnica utilizzata con mia nonna e, sino a quando è stato possibile, con mio nonno, prima che la demenza lo convincesse del fatto che ci stessi provando con la moglie.
Dissetarsi il più possibile, prima della grande, eterna siccità.
Spendevo volentieri molto del mio tempo in quella stanza, seduto nello stesso sgabellino che usavo da piccolo. Stavo semplicemente in mezzo a loro, anche senza dire nulla. Li osservavo, cercavo di rubare un briciolo del segreto di quella armonia, ormai pluridecennale. Mi nutrivo dei loro sguardi, delle pieghe di ogni singola ruga; una immensa fortuna a portata di mano.
Sentivo già il coro triste risuonare tra le pareti dell’immediato futuro prossimo: i loro “eppur mi mancano”, incomprensibili in un presente vincolato a impegni e priorità di ogni sorta, che seppellivano in anticipo, nell’ultimo scaffale del magazzino dimenticatoio, la radice visibile del nostro passato.
Ogni giorno scarto con rinnovato entusiasmo lo stesso pacco regalo, un fenomeno che si autoalimenta: influenza inevitabilmente i miei bioritmi; è lui che mi sveglia e che spesso mi contagia sbadigli, torpore, sonno.
Osservo lo spettacolo del cielo stellato: apparentemente non c’è traccia alcuna di quell’asteroide che lo spazzerà via e, al solo pensiero, la paura sibila, diabolica, e gode.
Un obbiettivo: se riuscirò a risparmiare anche solo una lacrima delle mille messe già in preventivo, sarà stata una piccola, sofferta vittoria.
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149 - Secondo S., i cui consigli si rivelano sempre azzeccati, avrei fatto bene a scambiare quattro chiacchiere con P., un suo amico di vecchia data, a proposito della storia intensa che questi ha avuto con un cane chiamato Gandalf.
L’epilogo, a quanto mi hanno anticipato, è stato decisamente turbolento: P. ha reagito agli eventi con un’intensità che per qualcuno potrebbe apparire spropositata.
Ci incontriamo una sera di maggio a Sa Domu, in occasione di un concerto dei TMD, gruppo con cui suona, ma non si verificarono le condizioni per intavolare un discorso di quel tipo; inutile forzare le cose.
Poche settimane dopo, S. mi gira l’email di P. a cui avevo scritto alcune righe con l’intento di conoscere più nel dettaglio la sua storia. Nient’altro che uno scambio di anticorpi tra due sconosciuti.
*
150 - Entro in contatto con S. e C. per caso; il copione più o meno é sempre lo stesso: si siedono vicine a me ma in realtà sono lì per vedersi con B. Io continuo a chiacchierare con gli altri, stando attento a non invadere gli spazi, anche se è inevitabile, a distanze così ridotte, che pezzetti di conversazione finiscano accidentalmente nelle orecchie dei non destinatari del messaggio.
— Sei acceleratissimo — esclama S. per commentare la quantità di sillabe sparate dalla mia lingua, intercettando un rapido scambio di battute che ho con B.
Faccio di tutto per far cadere quell’allusione nel vuoto e rispondo vagamente.
Il materiale esplosivo di per sé è innocuo; l’elemento che sposta gli equilibri, dalla potenza all’atto, è l’innesco.
P. mi lancia il guanto della la sfida: vuole vedere, in diretta, come funziona questa Guerriglia Filosofica di cui vado delirando da un po’.
— Per il momento è abbastanza semplice: mi piace parlare con gli sconosciuti, fare tre domande, cinque minuti in tutto, senza sapere nulla dell’altro, e vedere che piega prende la discussione.
— Vuoi fare un gioco? — chiedo pacatamente a C.
— Io, io, io, lo voglio fare io — schiamazza S. in preda a quello che sembra un inaspettato attacco di entusiasmo preadolescenziale, manco ci fosse in palio una crociera.
— Mi dispiace, ma non è il tuo turno — condisco la frase con un sorriso garbato.
Porgo a C., come da protocollo, il cartoncino con i contatti del progetto stampati sopra: lei lo guarda di sfuggita per poi accartocciarlo con noncuranza.
Le illustro brevemente le condizioni: tutto quello che mi dirai, finirà dentro quel contenitore.
*
151 — Qual è l’ultima canzone che hai ascoltato?
— Il disco appena pubblicato dei Chemical Brothers, in macchina, proprio prima di arrivare qui.
Secondo punto.
— Andavi bene in geografia?
— Sì, perché?
— Sai dirmi quanto è lungo il Nilo, per caso?
— Ora non me lo ricordo – ammette.
— Secondo te è normale che a scuola ci facciano imparare tutta una serie di nozioni e dati che poi nel corso della nostra vita non utilizzeremo mai, se non per rispondere da casa agli input di qualche stupidissimo quiz a premi?
— È la terza domanda?
— Se vuoi si.
— Penso che bisognerebbe fornire una preparazione più adeguata ai docenti – considera.
— Che studi fai al momento?
— Scienze della formazione.
Ora capisco meglio la natura della sua riflessione.
— La cosa più triste, secondo me — concludo — è che ci sono ragazzi che perdono diversi anni, quasi si trattasse di una punizione, appresso ad informazioni di cui non rimarrà traccia alcuna nella memoria, a distanza di poco tempo. Quando va male vengono bocciati, tenuti fermi per un giro, costretti a ripetere tutto da capo.
— Sarebbe il caso, probabilmente, di rivedere i programmi — riflette con aria perplessa.
P., che sino a quel momento aveva osservato la scena in silenzio, irrompe nella discussione.
— È stato troppo aggressivo? Ti ha messo in imbarazzo? Ti è sembrato inopportuno? Ti sei sentita a disagio?
— No, in realtà lo ritengo piuttosto interessante. E poi mi sembra lo stia facendo per una giusta causa — mi difende da quella sorta di attacco indiretto.
*
152 - Terza regola del mio nuovo mondo.
— Se un pesce è abbastanza grande, lo dividiamo e ce lo mangiamo assieme. Se è troppo piccolo…
— Lo ributtiamo in mare! — grida P., gettando con la coda dell’occhio uno sguardo furtivo a C., per stabilire se è ancora connessa.
— …lo usiamo come esca — rispondo.
*
153 - Non saranno certo quattro chiacchiere con una brunetta a modificare il corso degli eventi; si tratta soltanto di un tentativo: capire, assieme, come è stato possibile mettere in piedi un letamaio così complesso. Non c’è via di scampo? Allora, tanto vale arrendersi.
Un motivo in più per scavarmi una tana in cui stare, il più isolato possibile, sino alla fine dei miei giorni. Oppure, magari suona anche meglio, è tutto un pretesto per far fare qualche minuto di ginnastica alle nostre bocche. D’altronde, dico a P., si tratta soltanto di trovare la combinazione che sblocca la cassaforte, poi si viene investiti da un fiume in piena, un Rio Grande di parole.
— Dammi una dimostrazione pratica — ecco ancora P. in versione Tommaso che manda in avanscoperta il suo ditino impertinente.
— Ti piacciono i cani? — chiedo all’improvviso a S., voltandomi di scatto verso di lei.
— Sì, moltissimo. Ne avevo uno che si chiamava Gravellu, in italiano significa garofano.
Ride di gusto. — Vuoi sentire la sua storia?
— Son qui per questo.
— Davvero ti interessa? — ribatte stupita.
— Mai stato così serio.
*
154 - La narrazione orale è un privilegio tutto umano, un prodigio che ormai ha perso gran parte del suo valore.
Chi trasmette rivive quei momenti, lo capisci da quella patina umida che ricopre come brina i bulbi oculari; chi riceve viene travolto da una colata di sensazioni genuine. Può godere senza sforzi delle esperienze altrui, rubando se possibile, la morale di una favola vissuta in maniera indiretta.
Lo stesso avviene con i film e con i romanzi; in questo caso è un’alternativa più economica, semplice e spontanea, oltre che intima.
Non importa se non ci si conosce; estraneo è un termine trascurabile quando si ha una storia da raccontare.
Così, posso vedere anche io quello scricciolo di cane che saltella al sicuro di un cortile, per mesi e lunghi anni, centro unico delle attenzioni di una famiglia intera; pura passione, amore indescrivibile.
Un triste giorno, mentre il cognato di S. è alle prese con una manovra alla guida del suo furgone, Gravellu scompare disgraziatamente sotto una delle ruote. Nel locale rumoroso ognuno è perso nei propri discorsi ma è come se lo scricchiolio di minuscole ossa fracassate sovrasti distintamente il mormorare diffuso. Il velo sopra gli occhi si fa più spesso.
— È morto di fronte a me, non ho potuto farci niente.
Ho l’impressione che stia per urlare, come se la scena stesse accadendo nuovamente o, fa lo stesso, per la prima volta, tra il tavolino e il bancone del bar. Si interrompe, esausta.
— Mi dispiace — riesco appena a sussurrare — anche io ho un cane, il primo nella mia vita, e non so ancora cosa si prova…beh, questo fatto un po’ mi spaventa — le confesso.
— Un dolore atroce, il più grande che tu possa provare.
Sto zitto, provo ad immaginare, seguendo le indicazioni come si fa con la voce artificiale di un navigatore.
— Simile a quando ti viene a mancare un parente stretto — rincara la dose.
Dal naso e dalla bocca espello nuvolette gonfie di adrenalina e paura.
S. probabilmente se ne accorge. Insiste.
— Hai già affrontato un lutto?
I fonemi si seccano nella valle desertica che è la mia lingua, immobile come un serpente obeso farcito di piombo e poi infilato dentro ad un freezer. Alzo tre dita, sventolando quella risposta silenziosa.
— Oh…. — sembra quasi delusa nel saggiare il mio personalissimo assortimento di cadaveri. — In ogni caso si tratta di una sofferenza immensa, vedrai, ti sembrerà di impazzire.
Un altro calcio piazzato con maestria tra i testicoli.
— Il dolore più grande che tu possa provare, credimi.
Secondo me ci sta prendendo gusto, anche troppo forse. Il meccanismo scatta in automatico, il salvavita che interrompe l’erogazione di corrente elettrica, la sicura che blocca sul nascere il pericolo ed evita il peggio.
— Lo so — esco allo scoperto — è proprio per questo che ritengo che la natura ci abbia messo a disposizione i suoi prodigi, per aiutarci a guarire dalle ferite e dai traumi più profondi, compresa la morte dei nostri cari.
È disorientata, non riesce a capire a cosa mi sto riferendo.
— Hai presente la musica dei Chemical Brothers a cui accennavi prima? — mi rivolgo a C.
— Parla con me, parla con me, non scappare — S. mi richiama immediatamente all’ordine pretendendo l’esclusiva.
— Pare — dico stando ben attento a rivolgermi ad entrambe in eguale misura — che alcuni passaggi, alcune frequenze, si apprezzino meglio sotto l’effetto di determinate sostanze. I più maliziosi sostengono che certe canzoni vengano scritte appositamente per fare da cornice, da colonna sonora, a quei viaggi. Durante il viaggio, si possono trovare delle risposte che nella vita di tutti i giorni ci sfuggono.
Smorfie schifate accartocciano le loro tenere boccucce. Il “non mi interessano queste cose” con cui C. seppellisce la questione è una diretta conseguenza.
— Comunque sia — mi concentro su S. — mi ha fatto piacere scambiare due parole con te. Mi hai appena insegnato, e ti ringrazio tanto, che la perdita di un quattrozampe è uno shock a cui si sopravvive.
Scuote energicamente la testa e mi guarda sbigottita con l’aria di chi è pronta a dire “non hai capito nulla, sto sostenendo l’esatto opposto”.
Ma non è intenzionata a mollare la presa: — Certo, ci mancherebbe, ma si tratta del dolore più grande che si possa provare.
Ancora.
— Sai qual è la cosa più bella? Avremmo potuto trascorrere il tempo a parlare di futilità, e invece mi stai aiutando ad affrontare una delle paranoie più dense che mi porto appresso. C’è ancora speranza: riusciamo ancora a mettere in piedi un discorso intelligente, anche tra sconosciuti.
— Ti prego, ora non incominciare con la filastrocca che la società è una merda, perchè con me non attacca. – Aumenta i decibel, alzandosi dalla sedia.
Si infila il cappotto elegante e si dirige verso la porta. Prima di sparire, si gira e urla: — Il dolore più grande che si possa provare.
*
26\03\16
Aggiornamento: Effettuare una ecografia total body ad un quadrupede di più di nove anni è un po’ come andare a cercare funghi in un pomeriggio di sole dopo una settimana di acquazzoni o, ancora meglio, spaccare un uovo di Pasqua: qualcosa la si trova sempre.
Ho decisamente cantato vittoria troppo presto: prostata e reni a posto, ma piccole tracce di merda si nascondono nella cistifellea e in un testicolo.
La situazione mi pare piuttosto semplice, in tutta la sua banalità: l’animale non ha coscienza della morte, continuerà ad andare avanti come se niente fosse in attesa che qualcosa se lo porti via. Probabilmente perderà le palle, ma è una cosa per cui un cane non soffre così tanto, a quanto dice il vet.
Il punto è questo: tutti siamo costretti a saltare dall’altra parte.
Io posso solo fare in modo di ridurre al minimo il dolore fisico.
Mi chiedo da diverso tempo perché le sponde che separano le due dimensioni, sistema binario vita-morte, spesso sono così alte: che bisogno c’era di metterci in mezzo la sofferenza?
Chiudo la stanza degli orrori con un grosso masso: prima o poi dovrà succedere.
Certi pronostici ottimistici sulle presunte aspettative di vita di un quadrupede di tipo X e di peso tot ora appaiono un tantino sgradevoli, ma come dice Heidegger, un bambino appena nato è già abbastanza vecchio per morire.
Resta una questione aperta: come reagirò io.
Ho l’impressione di trovarmi di fronte all’ennesima sfida: posso nuovamente testare sul campo l’efficacia delle mie teorie, è da tanto che mi preparo in questo senso, con previdenza e con tutte le cautele del caso, anche se si vorrebbe sempre rimandare l’ora fatidica. Ma il regista se ne fotte di quello che noi riteniamo più o meno opportuno.
Devo solo arrestare i pensieri, mantenere un grado sufficiente di dignità nel dolore e farmi cullare tra le braccia della “serena accettazione”.
*
Aggiornamento 2: frammenti dal mio manuale di auto medicazione.
[…] Ti prepari a parare un gancio al mento, invece arriva una ginocchiata all’altezza del femore. L’osso si spezza in due, ma c’è poco da fare: in questa maratona si può soltanto andare avanti, senza mettersi troppe domande, trascinando silenziosamente lungo la strada quell’arto ormai inutilizzabile […] È assurdo notare con quanta velocità cambino le prospettive: le armate dell’esercito nemico si spostano rapide sul campo di battaglia. Organizzi la difesa ma l’ennesima mossa a sorpresa ti spiazza.
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155 - Quando inizi a spusherare piccoli blocchetti marroni della tua vita, devi mettere in conto contrattempi e malintesi vari. Non tutti reagiscono allo stesso modo ad una somministrazione limitata e scandita regolarmente nel tempo. Alcuni ad esempio, non mi spiego come questo sia possibile, possono soffrire di lievissimi stati di ansia o di agitazione. È il caso di S., che per diversi, lunghissimi minuti mi ha gettato in un laghetto rovente di imbarazzo, mettendomi al corrente di quegli strani effetti collaterali.
Prendendo per buono il fatto, non ho nessun dubbio a proposito in realtà, che fosse sincera, ho dovuto mio malgrado giocare al dottore, improvvisarmi farmacista.
— Se è così, sospendi il trattamento — sentenzio in maniera dura avvolto nel mio bellissimo camice bianco metaforico virtuale, con quell’accenno di arroganza che solo i medici sanno tirare fuori. Il suo “Vaffanculo!”, schietto e ben diretto, è stata una reazione apprezzabile, segno inequivocabile del buon stato di salute del paziente.
Un piccolo assaggio di quello che bolliva e bolle in pentola, accompagnato dalla cortesia che contraddistingue i migliori cuochi, e qualche riga spedita via mail nei giorni seguenti, con il tatto del diplomatico, hanno contribuito a dipanare il piccolo equivoco.
*
156 - Con G., se si vuole, lo scambio di pareri è stato ancora più elettrico. Secondo lui dovevo smetterla di lucrare, son state queste le esatte parole che si sono arrampicate dal profondo del suo gigantesco torace, sui miei amici morti; un espediente poco elegante per promuovere il prodotto, considerando poi che, secondo il suo modestissimo parere, avrei dovuto raccontare ai miei coetanei storie di natura ben diversa.
All’improvviso son stato scaraventato sullo scomodo lettino di uno strizzacervelli, che offre, a titolo gratuito, la sua diagnosi insindacabile: avevo evidentissimi problemi con l’elaborazione del lutto, forse è vero, ho ammesso buttando un canotto sgonfio in quel mare in tempesta di parole, quando invece avrei dovuto semplicemente dimenticare e andare avanti.
Nutro nei confronti di G. una stima e un affetto sincero; lo conosco da troppo tempo per non capire che le sue esternazioni, come capita di solito, sono animate da nobili intenti; tutto ciò che voleva era colpirmi nel profondo, titillando violentemente le zone nascoste del mio subconscio, per saggiare la mia resistenza.
Certi attacchi lasciano il segno: un punto di domanda inciso in bella mostra sulla carne.
È stato T. ad applicare un piccolo cerotto su quella ferita nuova di zecca: — È così? Pensi che abbia ragione? E allora di cosa ti preoccupi — conclude dopo il mio no silenzioso.
In effetti, per meritare un’osservazione del genere, avrei dovuto guadagnarci qualcosa, cosa che, mi pare, non sia avvenuta affatto. A meno che non si consideri la questione in termini di punti visibilità, un’interpretazione che sta in piedi anche alla luce di quanto sostenuto da L. che con un sorriso cordiale ha esposto la sua versione: la mia non è altro che una strategia di marketing, una tra le tante.
*
157 - Per B. invece, me l’ha detto una sera con aria seccata, non era elegante lavare i panni sporchi in pubblico, riferendosi alle buffe storielle relative ad un insignificante complessino musicale.
Una critica legittima, ma forse un tantino avventata : il pubblico di cui si parla, la bellezza di quattro lettori in tutto, era già a conoscenza di quelle vicende per averle assorbite in maniera diretta, senza filtri. Io non ho fatto altro che illustrare il mio punto di vista sull’intera storia, cosa comunque assolutamente evitabile, è vero, tanto che in un primo momento non era stata manco messa in preventivo.
L’elemento scatenante, in questo senso, è stata una lettera a Babbo Natale scritta da V. e postata sul nostro social network preferito, in cui il mio caro amico esprimeva candidamente il desiderio di assistere ad un ultimo concerto (che parolone) del complessino succitato.
I miei (ex) compagni di avventura hanno avuto il buon gusto di piazzare ciliegine e candeline accese su questa enorme torta ricoperta di merda, dichiarando pubblicamente che, se fosse dipeso esclusivamente da loro, il regalo sarebbe potuto essere confezionato già dal sabato seguente, come se in definitiva l’intera questione ruotasse attorno ai capricci del sottoscritto.
Bisogna stare attenti, mantenere un atteggiamento cauto con i propri desideri, perchè gli effetti spesso trovano sbocchi imprevisti.
Prima di affrontare un lungo viaggio, ne sono convinto, è bene accertarsi che all’interno delle scarpe non ci siano rimasti sassolini; seppur così piccoli, a lungo andare, possono trasformarsi in un autentico supplizio per il viandante.
*
158 - Per G. la parte a sfondo musicale non è altro che gossip di bassissima qualità, storie di vicinato, così le ha definite, che annoiano tutti coloro che sono estranei alla vicenda (chissà, mi son chiesto per diverso tempo, se qualcuno ha riservato il medesimo giudizio ai ‘Ragazzi della via Pal’).
Un po’ meglio invece la prima metà, che sporadicamente offre qualche timido spunto interessante, come ad esempio “quando racconti dell’invasione dei puffi nel tuo domicilio”.
Di parere diametralmente opposto, V. ha letto per ben due volte il racconto porno di sei deficienti alle prese con l’hard-core, ma si sarebbe evitato tutto il resto.
Per L. invece, i personaggi non sono sviluppati a sufficienza, ad eccezione del ritratto del sottoscritto, che in maniera sproporzionata adombra con il suo irriducibile egocentrismo le varie sfumature dell’universo ricco e variopinto in cui fioriscono gli accadimenti; la scelta di utilizzare soltanto le iniziali dei nomi, senza altri riferimenti, rende molto difficile capire chi è il soggetto delle azioni.
Ancora una volta, emerge il dubbio che quanto proposto possa interessare anche a persone che non mi conoscono direttamente; proprio per questo L. aveva in mente di spusherare le pillole ad una sua amica, per studiarne le reazioni e avere un’idea più chiara.
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159 - Io non sono un romanziere, mai detto di esserlo, dubito tra l’altro di esserne capace.
Non mi interessa regalarvi qualche momento di sollazzo, non ho nessuna intenzione di tessere una trama capace di strappare qualche molecola di adrenalina, che vi faccia sorridere o sbatacchiare il cuore più velocemente.
— Si tratta soltanto del mio curriculum — dico a G.
— Puoi sempre leggere altro — rispondo a L., dalla Gazzetta dello Sport all’ultimo numero di Topolino; in mezzo, una scelta sterminata. Io son semplicemente partito dal punto zero, gli spiego, indicando con il dito la prima riga che domina due paginette piene zeppe di appunti e diagrammi. Con il tempo, spero di poter sviluppare tutto il resto.
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Aggiornamento: F. prende la mira e mi definisce “un provocatore che gioca con le paure degli altri”, ma non ho capito bene se si riferisca alle pillole spacciate un anno fa, alle righe pubblicate attualmente o a qualche altra vicenda che al momento ignoro.
Le sue parole, acchiappate fortunosamente come farfalle in una sera di fine giugno, mi riportano indietro di un anno esatto: X. assiste da spettatrice alla discussione esplosa tra me e G.; dopo aver chiuso la sessione legata al marketing, ci dedichiamo a Castaneda, passando per mescalina e triptamine varie, alla Teoria dei tre mondi di Popper, riveduta e corretta, fino ad arrivare alle esperienze trascendentali e di pre-morte.
— Mi stai mettendo ansia — avvisa X., con un pizzico di disagio che guadagna progressivamente terreno nello spiazzo della sua espressione.
— Si? — sto al gioco. — E quando guardi il telegiornale, allora, come ti senti?
— Normale. Non ci penso più di tanto.
— Beh, non dovevi dirmelo. Perchè ora mi avvinghio al tuo orecchio destro e ti faccio schiattare dalla paranoia — le rispondo ridendo, un attimo prima di abbandonare definitivamente la scena.
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Aggiornamento 2: Ormai ho fatto l’abitudine ai picchi improvvisi di C. in termini di scontrosità: riesce a passare dalla modalità “complice” a quella “ostile intransigente” in un attimo.
— La maggior parte delle volte parlare con te non è affatto divertente, sappilo.
Le sbatto una sonora, divertitissima risata dritta nel grugno. Il fatto che sia una sorta di parente acquisita limita la mia reazione. Così lascio cadere nel vuoto il suo assalto.
Per evitare fraintendimenti però è giusto ribadire che non mi sento propriamente un giullare, soprattutto in questo periodo, e che divertirvi o intrattenervi serenamente non è, al momento, tra i miei obbiettivi primari.
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160 - Lo spazio di fronte al bancone di un bar è un ottimo punto di osservazione a livello strategico: ci puoi trovare guerrieri che barcollano vistosamente sfidando il proprio baricentro o brutti ceffi solitari in attesa del segnale giusto per scatenare il putiferio.
Per il resto, è tutto un via vai di comparse più o meno sorridenti, più o meno tristi, pensierose, preoccupate. Ognuno prende la sua dose di antidoto e scompare, per poi riapparire in occasione di un nuovo rifornimento di carburante.
— Non ti accorgi che il mondo ti è cambiato sotto i piedi?
R. U si avvicina ulteriormente, prima di proseguire.
— Il tuo è una sorta di esperimento sociologico, ma cosa vuoi mai farci con quelli che ascoltano reggaeton dalla mattina alla sera? Sono tanti, forse la maggioranza.
Non so se le sue considerazioni derivino dai discorsi fatti le sere precedenti, tra i tanti lidi su cui atterrare e trascorrere qualche buona mezz’ora lui è senza ombra di dubbio uno dei miei preferiti, tra i più fertili: ogni singola considerazione spalanca le porte a nuove, vispe riflessioni; come gli ripeto spesso, sarebbe il preside perfetto della mia scuola ideale.
Gli parlavo del mio sogno, o meglio del delirio, di riportare, per quanto mi è possibile, il pensiero critico, l’amore per il sapere nelle strade, sopra i tavoli, tra le lattine di birra e Coca Cola, ma secondo lui avrei trovato ostacoli ineliminabili: cervelli più piccoli di una noce, nascosti in un labirinto di ottusità e pressapochismo a prova di scasso.
Di solito, la radice del problema viene individuata nel dominio ventennale, politico e culturale, di Silvio Berlusconi, in grado di spazzare via buon senso e intelligenze, uno tsunami che si è abbattuto sulle nostre coscienze senza alcuna possibilità di riscatto. L’ho sempre considerata un po’ riduttiva come analisi, ed è comunque inutile piangere sul latte versato.
Dietro ad una inconsapevolezza apparentemente senza senso, brutalizzata da quintalate di ritmi latino-americani, bassi distorti e tastieroni fastidiosi come una merda appiccicata sulla suola delle scarpe, si nasconde una sfida, difficile sicuramente, ma non impossibile. Una partita che mi auguro di giocare sempre più spesso.
È comunque la prima volta che qualcuno definisce in quel modo le scorribande dialettiche a cui mi lascio piacevolmente andare nei fine settimana, ma non ho tempo per ribattere perché devo preoccuparmi di un altro attacco.
— Sei un egocentrico — mi sbatte dritto in faccia.
C’è davvero poco da aggiungere, ma se proprio si insiste per gettare nella mischia il carissimo, esimio signor Freud, è a lui che penso inevitabilmente quando sento qualcuno parlare con allegra disinvoltura di Ego, bisognerebbe essere abbastanza accorti da lasciare un piccolo spazio anche per l’inconscio, l’Es, giusto per soppesare meglio il ruolo che questo aspetto ricopre nel risiko del quotidiano.
Non faccio nemmeno in tempo a fissare l’impalcatura per la mia argomentazione, che il mio interlocutore mi sorprende con un altro affondo: — Non ascolti minimamente quello che ti dicono gli altri.
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161 — Allora come ti spieghi il fatto, — chiedo a M. — che ho due quaderni dove annoto i resoconti dei dialoghi avuti con tutti voi?
Come risposta ottengo un mezzo sorrisetto furbo.
Lo scambio di battute con R. U. si è interrotto per motivi accidentali; turbolenze varie, flussi migratori tipici da sbronzatoio; entrambi ci ripromettiamo di riprendere il filo alla prossima occasione utile, per questa volta ormai è andata, così vado a medicarmi le ferite dalle parti di quella minuta fanciullina, chiedendo un po’ di ospitalità dopo l’inaspettata grandinata di sensazioni contrastanti.
Parliamo brevemente del più e del meno, le racconto quanto mi è appena accaduto su quel ring estemporaneo, sotto lo sguardo disattento di un barista improvvisato.
Poi tira fuori un’autentica perla.
— Ho smesso di fumare — mi dice.
Certe dichiarazioni, certi avvenimenti, andrebbero celebrati in maniera sontuosa; se fosse dipeso da me tutt’intorno sarebbe scoppiato un applauso fragoroso, come quelli che si sentono a teatro, assieme a qualche grido di giubilo.
Dalle casse acustiche, al posto di quella mistura di vibrazioni sintetico-digitali, avrei fatto fuoriuscire l’Inno alla Gioia, la giusta colonna sonora per una vittoria di quelle proporzioni.
Avere la meglio nei confronti di una propria dipendenza non è affatto facile, soprattutto se si è radicata come un cancro nel profondo delle nostre abitudini.
Scandisce come un crudelissimo orologio a cucù i nostri ritmi biologici, un trapano conficcato nel polpettone del cervello che si attiva a cadenze spaventosamente regolari, e quando si accende non c’è nessun modo per fermarlo o limitarne l’azione.
Serve uno sforzo sovrumano, si ha l’impressione che sia quasi più facile tagliarsi un braccio di netto piuttosto che iniziare a rosicchiare quella catena. Il nemico si nutre cinicamente di ogni più piccolo tentennamento; una partita snervante a scacchi tra bianchi e neri e questi ultimi, le armate del vizio, sanno bene che nella maggior parte dei casi si tratta soltanto di aspettare. L’altro farà tutto da solo, consegnando la propria resa su un piatto d’argento, accompagnando il tutto con una tiepida salsa composta da quattro spicchi di senso di colpa e due chiletti di buoni propositi e giustificazioni così maturi da essere ormai prossimi al marcio.
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162 — Conosco bene l’astinenza da nicotina —, mi scrive E. in un messaggio su WhatsApp. — I primi due-tre giorni è una merda, mi sto mangiando lo stomaco dal nervoso; superato il momento di difficoltà iniziale, incomincia la lotta contro le abitudini.
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163 - Siamo rinchiusi dentro ad una cella umida e buia. All’improvviso, quasi per magia, la porta blindata si spalanca, accompagnata da un fragore metallico, come spinta da un tornado di proporzioni incredibili.
Ci avviciniamo titubanti all’uscio, increduli: finalmente liberi?
Nel momento esatto in cui ci poniamo la domanda, prendiamo confidenza con la sfida vera: proseguire, guadagnare definitivamente la fuga, scandita dalle sirene di allarme, tra le mitragliate delle sentinelle e i cani lupo che ringhiano, oppure accucciarci nel solito angolino, tra i rimpianti.
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164 - Miliardi di pustole rossastre sudano il loro nettare bianco e puzzolente; un esercito di ingegneri e architetti lavorano incessantemente per progettare le nuove cattedrali del bisogno compulsivo, agli artisti dell’assillo patologico spetta il posto d’onore.
Litri di pus giallognolo sgorgano dalla fontana piazzata nel centro del villaggio; le pareti degli edifici, all’interno come all’esterno, secernono in continuazione nuove dipendenze. Basta appoggiarci sopra la lingua, non spingete, ce n’è per tutti i gusti.
Calcio, basket, baseball, football americano, formula 1, poker on line, videogames, slot machine, quiz a premi, lotterie. Cibi grassi, iper-zuccherati; alcool, tabacco, un assortimento di droghe inimmaginabile.
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165 - Il mio pisello è appeso ad una ruota della fortuna in perenne movimento. Gratto? Vinco.
Spero, sbavo come un raver sotto ketamina, seguendo con lo sguardo dadi, cubi meccanici.
Scatti ritmati, combinazioni calibrate al centesimo di secondo regalano frammenti di eccitazione dolciastra. Smarrito nell’utero di un’utopia, la vincita che rivoluzioni il mio triste naufragare. Che io possa trasformarmi in una super-star, l’attore protagonista candidato all’oscar. In cambio, la macchinetta pretende piccoli dischetti, leggeri come una piuma, con dentro il mio tempo e la mia vita. Tutto così divertente, certo.
Uccidete il dottor Ivan Pavlov prima che sia troppo tardi.
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166 - A rifletterci ora sembra incredibile: il mio umore dipendeva da ventidue stronzi appresso ad un pallone. Un processo subdolo, che coinvolgeva lo stomaco, le palle, l’intestino, il cervello, il cuore.
Rinunciavo senza la minima esitazione a decine di alternative: un pomeriggio al mare? Sì, ma con la radiolina a portata di mano, per essere sempre aggiornato, poter gioire, godere o affliggermi per le sorti dei miei beniamini. Un pomeriggio d’amore? Sì, ma solo dopo le 17, quando la battaglia sarà ormai finita, e solo in caso di successo, altrimenti dovrò dedicarmi, anima e corpo, a questa strana malinconia passeggera.
Impossibile non pensarci: correre, presto, correre, atterrare sul divano prima del fischio dell’arbitro. Urlare, in preda ad uno strazio atroce, per l’errore madornale del numero nove, passato in un attimo da idolo a traditore.
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167 - Il signor Shulgin si infila in bocca la sua lunga, grossa cannuccia e succhia in un attimo il contenuto del mio serbatoio serotoninico: — Per una settimana, facciamo anche dieci giorni, ti dimenticherai di essere in grado di provare anche solo un’emozione — mi avvisa. L’apatia diventerà la tua unica compagna, dovrai amarla teneramente e lasciarti andare con docile arrendevolezza.
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168 - The show must go on, anche quando nevica. Basta sostituire il pallone classico ed usarne uno arancione fosforescente; per il resto, le regole non cambiano. Lo schermo della TV diventa una lastra di marmo bianco uniforme; novanta minuti passati a sforzarsi di distinguere un movimento, uno scatto, tra ombre e contorni appena accennati.
Il coinquilino si dimena come al solito, un orango-tango strafatto di speed; lo spettacolo latita, dev’essere fuggito altrove, al caldo dei Caraibi. Il terzino cede la sfera al portiere, che scarica la responsabilità al difensore centrale, il quale si regge a malapena in piedi, scivola, annaspa goffo.
Novanta minuti di nulla assoluto, a pagamento. L’orango-tango si percuote il petto e si strofina violentemente la testa, agita i pugni per aria.
Io lo osservo, non riesco a capire, ma non faccio testo: non batterei ciglio, probabilmente, nemmeno se un caccia bombardiere russo ci lanciasse addosso un missile.
L’unica cosa che si percepisce chiaramente sono le pubblicità di birre e macchine nei quindici minuti di intervallo tra un tempo e l’altro. L’apatia mi mordicchia un lobo, seducente.
Triplice fischio, zero a zero, spazio alle interviste, ai commenti a caldo, alla moviola. Per me può bastare così: l’incantesimo si spezza, che modo bizzarro di trascorrere le serate.
Sarebbe stata l’ultima volta che avrei guardato una partita.
*
169 - La verità è che siamo dei teneri orsacchiotti ghiotti di adrenalina.
Si incomincia con le giostrine da bambini, poi non ne possiamo più fare a meno e arriviamo agli sport estremi: paracadutismo, bungee jumping, combattimenti dentro a gabbie d’acciaio senza esclusione di colpi. Nel mezzo, la varietà degli intrattenimenti da salotto: dai film horror a quelli d’azione.
Vaghiamo svogliati nella grande steppa della noia, ma proprio quando siamo ridotti allo stremo, quando ci sembra di impazzire, si materializza dal nulla quella che a prima vista sembra una gelateria: un omino simpatico e sorridente ci accoglie all’interno, aspettava proprio noi: un cono? Certo, va bene. Quanti gusti? Un po’ di tennis, ti consiglio il bowling, vuoi assaggiare questa storia d’amore che sa di panna e fragola? Gradisci due spruzzi di rock and roll? Fanno 5 euro in tutto, torna pure quando vuoi. Un cuoco sa perfettamente che i suoi clienti avranno fame anche il giorno dopo.
Orde di disperati in preda ad un’insoddisfazione cronica e vorace: quanto saresti disposto a spendere per un microgrammo di piacere?
Le vie del signore sono infinite dicono, così come quelle per saziare le nostre voglie; vengono allevate in vitro e somministrate democraticamente sottopelle, da zelanti operatori mai stanchi, sempre svegli e pronti.
Così come i facchini si occupano dei nostri pesanti bagagli, i vari operatori culturali diventano dei docili animali da soma, ci aiutano a trascinare l’insostenibile vuoto di ogni inutile secondo che ci piove addosso.
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170 — Dovresti leggere Momo, il romanzo di Michael Ende — mi suggerisce F., prendendo spunto dal discorso.
Tornare a casa con il titolo di un libro che non conosco per me è un po’ come scassinare un bancomat e riuscire a fuggire con il bottino. Ritrovarsi un po’ più ricchi e felici in maniera semplice, rapida ed indolore.
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Aggiornamento: R. U. è stato uno dei pochi ad avere la possibilità di precisare meglio una sua affermazione.
E’ successo una sera, all’interno di una sala prove. Mi sono immaginato la scena per centinaia di volte: vederla realizzata mi ha liberato dal peso, giusto per qualche ora, di sentirmi completamente pazzo, smarrito in un’altra dimensione, lontano anni luce da quella in cui vivete tutti voi.
Come sospettavo, quando disse “non ascolti gli altri quando parlano” non intendeva in senso letterale. Voleva soltanto sottolineare il fatto che il mio modo di dialogare con le persone è piuttosto inusuale: agisco esclusivamente per soddisfare il mio scopo, quasi stessi portando avanti una ricerca; catalogo le parole, dirigo il discorso per centrare un obbiettivo di cui solo io sono a conoscenza; il mio interlocutore, povera, misera vittima intrappolata nella tela del ragno, staziona in un livello diverso, subalterno. Sottoposto ad una raffica verbale spossante, sincopata.
I momenti morti, come se si trattasse di un concerto hard-core, non sono previsti.
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171 — Non parli con le persone, esponi la tua teoria. E giri intorno sempre alle stesse cose.
Colpito e affondato. Le stilettate di U. lasciano sempre il segno, sa bene come e dove colpire.
Affetto da un’ipersensibilità che se non è innata mi trascino appresso da più di un trentennio, ci ho messo svariate ore per riprendermi.
— Che male c’è a dare una riordinata alle proprie opinioni?
Parlare di teorie mi sembra un tantino esagerato, e comunque non posso farci niente; tutto quello che mi passa per la testa finisce incasellato all’interno di un piccolo e rudimentale sistema, più simile ad un grosso scatolone in cartone che ad una libreria. Prendere o lasciare.
Per confutare la presunta monotematicità, invece, non trovo niente di meglio da fare che prendere in mano il cellulare, pigiare sull’icona contraddistinta dalla T nera, aprire il documento e stilare l’elenco.
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172 — Vista così, sembra un po’ una cosa da psicopatico — commenta F. mentre scorre col dito sullo schermo del telefono, il menù della taverna.
— Game of Thrones — legge a voce alta il sedicesimo punto dei ventitré presenti nella lista — questo ce l’ho! — dice riferendosi a L.
Sorvolo sulla questione dello psicopatico perché in realtà, visto lo sport che mi piacerebbe praticare, detta in quella maniera assume i toni di un complimento.
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173 - Tra i tanti modi di stare al mondo, c’è anche quello tipico del pellegrino, il quale decide di dedicare una parte del proprio tempo per raggiungere un luogo sacro. I motivi sono molteplici: spesso si tratta di devozione, talvolta è una questione legata alla penitenza, oppure alla ricerca spirituale.
In questa epoca così oscura e incomprensibile emerge con forza l’aspetto prettamente goliardico della faccenda: i vari significati religiosi vengono messi in secondo piano, in favore di giostre e locande.
Si può sorvolare sulle intenzioni che spingono gli individui a radunarsi in occasione delle feste paesane, ad esempio, ma ciò che più conta, alla luce del nostro discorso, è che queste sono un propiziatore di incontri di un’intensità eccezionale.
Mi imbatto in L. e F. dopo la mezzanotte del martedì, tappa finale dei festeggiamenti in onore di S. G.; nei due giorni precedenti ho dormito per un totale di cinque ore ma, miracolosamente, è il caso di dirlo, la stanchezza è soltanto un fantasmino innocuo, seppellito sotto tonnellate di adrenalina appena sfornata.
L. si premura di chiedermi come vadano le cose con l’attività con cui racimolo qualche spicciolo, invitandomi ad accennare alla sua giovane amica il rapporto controverso, odio e amore, che nutro nei confronti dell’universo del calcio dilettantistico della mia regione.
Poiché si tratta di un argomento che rientra nella lista dei “famosi ventitré temi ricorrenti”, cerco di limitare al minimo il numero delle parole, rimandandola, tramite il solito trucco del bigliettino da visita, alle righe in cui spiego, con esagerazione di dettagli, la mia situazione.
Ad un certo punto, non so bene perché, ma non sono certo i primi che adottano quella strategia, iniziano a saltellarmi davanti, come due folletti visibilmente divertiti, prendendosi gioco delle grosse vene che di tanto in tanto affiorano prepotenti sulla fronte, a formare una V, e ai lati del cranio. Ricambio i sorrisi e mi affretto a chiedere: — Siete sicuri di quello che state facendo? Perché non vedo l’ora di spassarmela anche io…
Il solito, piacevole calore divampa dalla pianta dei piedi per poi esplodere come un petardo tra le tonsille. Mi sento come il dottor Robert Bruce Banner quando si rende conto che la sua imminente trasformazione in quell’essere mastodontico invasato dalla furia, che tutti conoscono con il nome di Hulk, è ormai prossima e inevitabile. Quanto accaduto in seguito, quasi quattro ore di discorsi, è andato ben oltre il mio controllo.
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174 - Il nodo polemico più intricato da sciogliere riguardava, per pura coincidenza, la natura del pensiero di Michel Foucault: secondo F. il filosofo francese puntava il suo zoom, così l’ha definito, sugli elementi più controversi del sistema socio-politico; per me invece si trattava del mirino di un bazooka. Ci passa una bella differenza tra un reportage fotografico e un assalto, ma nessuno dei due era intenzionato ad arretrare di un millimetro dalle rispettive posizioni.
Superato a fatica quello scoglio, tra birre ed il mio energizzante naturale preferito, il dibattito si spostava ad analizzare, anche grazie al contributo illuminante di L., l’autenticità di due correnti musicali come il rap e l’hard core; in mezzo, e per contorno, ci si domandava, tra l’altro, se fosse il caso di mettere in circolazione un figlio in un mondo bizzarro come il nostro.
Arrivava poi il momento della presentazione di Pesi Leggeri, un romanzo sulla boxe scritto da un mio conterraneo, di cui i miei interlocutori mi consigliavano la lettura.
Venivo inoltre rapidamente introdotto alla Teoria della Comunicazione, disciplina inedita per me e quindi interessantissima, oltre che utile. C’era pure il tempo per interrogarsi sull’esistenza, o meno, del silenzio assoluto.
Ho sgraffignato diversi spunti, al pari dei pupazzetti che si vincono al tiro al bersaglio: uno scritto di Bateson intitolato Mente e natura, una tesi di laurea che mi ha permesso di venire a conoscenza della “ricerca qualitativa”, ma non solo, ovviamente; un riferimento, da approfondire, al CMM (Coordinated Management of Meaning), oltre a due suggerimenti sulle opere di Fromm.
Al termine di questo vero e proprio Niagara di parole, ho ricevuto in omaggio l’ennesima diagnosi compresa nel pacchetto: era evidente la mia grande paura nei confronti del silenzio, che cercavo di colmare disperatamente in ogni modo, come, secondo alcuni, fa la natura con il vuoto.
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175 - Io con lui non ci parlo minimamente, una situazione che va avanti da diversi anni. Ci incrociamo sporadicamente, come due spettri reclusi in un vecchio castello abbandonato, giusto il tempo di lanciare qualcosa nello stomaco, uno di fianco all’altro.
Non è una cosa che scelgo, a dire il vero: succede e basta.
Le voci e i suoni sparati fuori perennemente dagli altoparlanti della Tv coprono, con la grazia di un immacolato lenzuolo bianco in lino su un cadavere, lo scricchiolare di mascelle, mentre la saliva contribuisce a trasformare quelle tiepide vivande in viscido, mucoso bolo.
Nessuno dei due ormai prova ad interrompere quella tregua silenziosa; una partita a dama in cui i giocatori si guardano bene da fare la prima mossa: pareggio a reti inviolate, recita la bella signorina che informa il pubblico sui risultati dell’ultima giornata di campionato.
I meccanismi che trasformano due sconosciuti in amici intimi e fraterni sono misteriosi ed affascinanti; allo stesso tempo la consanguineità, che si riduce ad avere due piastrelline di acido nucleico in comune, non sfocia automaticamente in affinità. Ho l’impressione che le cose fra me e lui non debbano andare esattamente così; forse dovrei partire intervenendo proprio da questa situazione, eppure G. me lo sconsiglia vivamente. Tengo in grande considerazione il suo parere, così come quello di tutti gli altri.
Eppure basterebbe così poco: un briciolo di quel portento è sufficiente per spedire lo stronzo introverso che sono dritto all’obitorio; in cambio ottengo un AK47 al posto della bocca.
Lui si accorge subito delle modifiche apportate al sistema, d’altronde faceva parte del suo lavoro: gli occhi sgranati in quell’espressione sbirresca scolpita a regola d’arte, sparano raggi X in tutte le direzioni; un segugio annusa ogni centimetro quadrato del mio organismo, a caccia del trucco e dell’inganno malefico. Peccato solo che non ci troviamo in un treno, peccato che lui sia soltanto un povero controllore frustrato ormai in pensione. Dispiace, perché in quello stato di grazia mi sento capace di investirlo di un amore smisurato; ma il fine non giustifica i mezzi.
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176 - Io con lui ci parlo giusto lo stretto necessario: fermo, finiscila, non fare il coglione, attraversa la strada, sputa quella schifezza, torniamo a casa, quanto sei bello, quanto mi mancherai.
Come risposta, spesso più chiara e gratificante di un intero container di sillabe, ottengo uno sguardo languido, o uno scodinzolio deciso.
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177 - Con loro parlo più di quanto vorrei: mi trasformo in un chirurgo estetico, faccio il lifting alle dichiarazioni sbilenche e le trasformo in una esposizione snella, agile, fluida. So con esattezza dove andranno a parare con la risposta successiva, l’esperienza mi permette di poter ridurre quel pappone disgustoso in semplici tag: lavoro \ sacrificio \ risultati \ alibi \ arbitro \ società.
In quest’ultimo periodo stiamo lavorando piuttosto bene, i ragazzi si allenano con grandi sacrifici, siamo tutti convinti del fatto che prima o poi i risultati arriveranno, sono da tanto nel mondo del calcio e non mi piace nascondermi dietro agli alibi, ma l’arbitro domenica non è stato all’altezza della situazione, alcune decisioni ci hanno chiaramente danneggiato, per fortuna godiamo della fiducia della società, un aspetto fondamentale in questo momento così delicato.
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178 - Uno sciame di mammut prende a testate le pareti del cranio; reclama spazio, fuga, aria aperta. Boom. Boom. Boom. Boom.
Un gigante incazzato, con le nocche delle mani enormi in granito bussa contro una porticina fragile: — Voglio uscire, cazzo, hai capito?
All’epoca non aveva ancora un nome.
Il primo rimedio è stato il dolore fisico: un black-out momentaneo. Ecco il silenzio di cui parlate. Ma si trattava di quindici minuti di intervallo nel bel mezzo di una finale di Coppa Campioni con centomila tifosi urlanti.
Poi è arrivata la musica a salvarmi: si trattava “solo”, tutt’altro che uno scherzo, di incanalare le energie in maniera meno distruttiva.
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Aggiornamento:
“Il significato della lesione corporale è plurimo, e lo si può comprendere soltanto attraverso una storia personale. […] Sulla scia di Charles Blondel, gli psichiatri associano l’automutilazione a una ricerca di autopunizione; in seguito Karl Menninger avrebbe ripreso questo principio interpretativo, servendosi di una griglia psicoanalitica entro la quale l’atto rappresenta un modo per respingere la pressione esercitata dal super-io”.
David Le Breton – La pelle e la traccia \ Le ferite del sé
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179 - P. sbotta, ma in realtà sorride: — Ti rispondo sempre così perché mi fai sempre la stessa domanda!
Ordina una birra, con la voce rauca, segno evidente di due ore trascorse in sala prove a gridare dentro ad un microfono.
— Ma chi te lo fa fare ancora? — Lo provoco.
— Senza impazzirei, non potrei vivere.
E’ vero. So bene cosa significa. C’è stato un periodo in cui pensavo fosse impossibile stare senza. Una dipendenza. Una tra le tante.
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180 - Con M. è stato “quasi” amore. Se fosse stato una bella ragazza, probabilmente avrei fatto di tutto per conquistarla; difficile rimanere indifferenti di fronte ad una dichiarazione del genere: — Scusami, sto parlando troppo vero? — mi domanda premuroso.
Un logorroico che chiede perdono ad un altro logorroico.
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181 - Ogni generazione è costretta, praticamente condannata, a dover fare i conti con i mali e i paradossi della propria epoca. Una situazione inedita, indelegabile.
Nei telequiz delle 19.00 il conduttore offre un aiuto; in casi particolari puoi comprare una vocale, o chiedere la collaborazione del pubblico a casa. Ma sopra quei divani, a godersi lo spettacolo, ci sono gli stessi che hanno pisciato in lungo e in largo sulla moquette del transatlantico che per un problema al navigatore satellitare giace spaparanzato sugli scogli, con la sua mastodontica pancia, ed imbarca acqua (e merda) manco fosse un dromedario di ritorno da una lunga gita nel deserto.
“Potrebbe andare peggio” assomiglia un po’ troppo al ritornello stonato “mal comune, mezzo gaudio”.
Che triste consolazione ammirare alla moviola gli altri mentre muoiono scontando i nostri sbagli.
«Potrebbe andare tutto molto meglio», recita Beata Ingenuità tenuta per mano alla sua amichetta scema Utopia, mentre una platea di sette miliardi e mezzo di sordomuti si distrae ipnotizzata dallo spot-lancio di una nuova linea di farmaci chemioterapici a dir poco miracolosi.
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182 - Una macchina dei carabinieri con due dei loro dentro mi si piazza davanti; quello alla guida abbassa il finestrino: — Potresti farci vedere i documenti?
— Mi spiace — rispondo tranquillo — ma quando esco con il cane non me li porto mai appresso.
— Sei di qui? — chiede il collega seduto a fianco.
— Se mi fate questa domanda siete voi a non essere di qui — ribatto.
— Giusta osservazione — i due si guardano.
— Che lavoro fai? — insiste il primo.
— Scrivo per una rivista on-line di calcio.
— Un aspirante giornalista! — esclama. — Chissà, magari andrai in Afghanistan o in Iraq a fare il reporter di guerra.
Ridono tra di loro, manco fossimo al cabaret.
— In realtà penso che non ci sia bisogno di andare così tanto lontano per raccontare qualcosa di interessante. Anzi, in Sardegna c’è molto materiale a disposizione, se solo si volesse…
— …In bocca al lupo per la tua carriera allora — provoca il secondo allegando un sorriso odioso.
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183 - Potrei giocare al siriano disperato, [attivare il cronometro e] usare tutta la mia immaginazione per far finta di soffriggere in un’attesa composta e dignitosa nel conto alla rovescia verso il prossimo bombardamento nemico, che potrebbe essere l’ultimo, il decisivo.
Potrei maledire i governi stranieri e i miliardi di loro servi; potrei pregare, lasciarmi sorprendere dallo sconforto e dalle lacrime.
Potrei fare tutto questo, la fantasia è uno strumento dalle potenzialità vastissime, ma non sarebbe la mia partita.
Probabilmente al termine di questa terapia arriverei dritto alla conclusione che nascere e crescere sopra questa zattera di terra non è stato poi così tanto male.
Una conclusione che sta in equilibrio sino a quando una tragedia immane non si abbatte su di noi: qualcosa di incredibile tipo un incidente nucleare, o la contaminazione delle falde acquifere.
La valutazione di una situazione è una pesata tra aspetti positivi e negativi. Spesso non è così facile stabilire quale sia il percorso migliore per arrivare a destinazione.
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184 - È meglio sparire, assieme ad un centinaio di passeggeri in preda al panico, sopra ad un aereo che si infila come una supposta di burro morbido dentro le chiappe del triangolo delle Bermuda? È preferibile salutare tutti con il cranio fracassato da una spranga in acciaio per opera di qualche invasato pseudo-neo nazista? Meglio venire investito sulle strisce pedonali, o puntare senza tentennamenti sul lento spegnersi tutto moderno-occidentale nelle fantastiche strutture ospedaliere a cinque stelle, magari in compagnia, virtuale, del buon Gerry Scotti che sculetta irriverente da dentro la TV?
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185 - Il problema più grande non è tanto la fine: una patata bollente che ciascuno di noi è chiamato a sbucciare nel momento opportuno.
La questione decisiva, facile confezionare banalità, è il durante.
Stanno peggio i bambini scalzi che in Costa d’Avorio inseguono i cani per strada, incuranti dei quintali di miseria che attendono ben stipati nei capienti magazzini del domani, o i nostri pargoli cicciotti che brindano con calici pieni sino all’orlo di Coca Cola, prima di perdersi in una follia nuova di zecca rivestita da antidepressivi e realtà virtuali stile Matrix?
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186 - È più brutta un’umida cella piena di scarafaggi in qualche complesso penitenziario alle Filippine o è meglio venire rinchiusi in una camera di sicurezza nel manicomio con vista sull’Oceano Atlantico?
Sono peggio le pinze roventi, le tenaglie che strappano unghie e capezzoli, le scosse elettriche e gli aguzzini sadici, o la tortura moderna che annulla, in maniera assoluta, il senso dei giorni e delle ore?
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187 - Probabilmente sarebbe una disgrazia immane se qualcuno, con un artificio magico, ci svelasse la trama del romanzo di cui siamo protagonisti: che peso immenso da gestire sarebbe, che strazio angosciante. La natura, o chissà chi per lei, ha blindato le porte del futuro.
Di tanto in tanto c’è chi prova a sbirciare dal buco della serratura; c’è chi sostiene di riuscirci, vuoi con lo studio e l’osservazione attenta delle costellazioni, o con i fondi del caffè.
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188 - Se mio nonno, ad esempio, azzardo, avesse saputo in anticipo, poniamo all’età di otto anni, che a venti sarebbe finito in Grecia, a combattere la Seconda Guerra Mondiale tra le fila dell’esercito italiano, e a seguito alla rottura dell’alleanza con la Germania, tenuto prigioniero in una cella, a pelare patate per i suoi nuovi nemici, costretto a cibarsi della buccia dura, ruvida, indigesta di quei tuberi, probabilmente avrebbe avuto la tentazione di scendere dalla giostra.
E’ scampato alle esecuzioni sommarie e alla morte sul campo di battaglia per miracolo, buona sorte, coincidenza favorevole, destino.
E’ stato ad un passo dal prendere moglie greca (chissà, magari anche io starei raccontando un’altra storia), prima che gli assetti politici internazionali mischiassero le carte e lo trasformassero in un disertore, gettandolo in una fuga disperata verso la sua terra, a conflitto ormai quasi concluso.
La sua è soltanto una delle centinaia di migliaia di storie che finiscono nel vaso senza fondo, nel dimenticatoio cerebrale di una badante ucraina.
Mi sarebbe piaciuto saperne di più, ma è sempre stato molto ermetico nei confronti del suo passato: se qualcuno accennava, anche solo con una battuta ingenua, agli accadimenti di quegli anni, provocava una durissima reazione.
Mi sarebbe piaciuto sapere tutto su di lui, ma non ne ho approfittato quando ne avevo la possibilità: una strana forma di demenza senile gli ha maciullato la ragione; una mattina, all’improvviso, si è convinto che fossi l’amante segreto della moglie e ha incominciato a disprezzarmi profondamente. Il resto del parentado la considerava una cosa buffa, degna delle commedie all’italiana degli anni ’80; per me era decisamente meno spiritosa come faccenda.
Se n’è andato avvolto in un silenzioso bozzolo di inconsapevolezza, senza fare troppo rumore.
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189 - Tra i tanti modi a disposizione per passeggiare sopra questo mondo c’è sicuramente quello tipico del testimone: i nostri occhi e la nostra memoria, combinati assieme, diventano un’infallibile videocamera; in teoria la modalità di registrazione, con il pallino rosso lampeggiante in evidenza, dovrebbe essere costantemente attiva, a caccia del meraviglioso e dell’orribile.
Trovare e documentare nuove strade per accedere alle infinite e sconosciute sorgenti di bellezza, scavare e mappare altri tunnel per sfuggire al mortifero.
La nostra esperienza diretta diventa così una piccola risorsa gratuita per i contemporanei e un punto di riferimento genuino per i posteri.
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190 - C’è chi ha trasformato questa vocazione naturale dell’uomo in un’arte, in un lavoro.
Arrivi tardi, direbbe Pierfranceso Diliberto, in arte Pif, se potesse leggere queste righe: lui il ruolo del testimone l’ha addirittura trasformato in un programma di successo per MTV, traslando il format che ha fatto e fa ancora oggi la fortuna delle Iene.
Eccellente, in questo senso, il saggio offerto da Roberto Saviano che ha raccontato in maniera coinvolgente un fenomeno particolare come la camorra.
Nicolaj Lilin è partito dalla sua infanzia (non si conosce la percentuale esatta di finto e autentico) e dall’educazione ricevuta all’interno della sua comunità, per poi arrivare a condividere i ricordi legati al conflitto russo-ceceno.
Una dimensione ad accesso libero: chi vuole, chi se la sente, può tranquillamente oggettivare un segmento particolare dell’infinita retta in continuo scorrere che è la realtà, nel modo che ritiene più opportuno; la multimedialità del resto ha abbattuto tanti vincoli.
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191 - “Proprio davanti a noi, sulla carreggiata, se ne stava impalato un brav’uomo, sulla quarantina, la faccia stanca, la barba ingrigita, che teneva per mano un bambino e reggeva sull’altro braccio un esserino troppo debole per camminare. Faceva da bambinaia e portava i suoi figli, la sera, a prendere un po’ d’aria. Cenciosi tutti e tre. Quei tre visi erano straordinariamente seri e quei sei occhi contemplavano e fissavano il caffè nuovo con pari ammirazione benché con diverse sfumature a seconda dell’età.
Gli occhi del padre dicevano: «Come è bello! Come è bello! Si direbbe che tutto l’oro della povera gente sia venuto a mettersi su questi muri». Gli occhi del bambino: «Come è bello! Come è bello! Ma è una casa dove possono entrare solo quelli che non sono come noi». Quanto agli occhi del più piccolo, erano troppo affascinati per esprimere qualcosa di diverso da una gioia profonda e ottusa”.
C. Baudelaire – Gli occhi dei poveri
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192 - Sarebbe bene rendersi conto, una volta per tutte, in tanti già lo dicono ma probabilmente ancora non basta, che il mondo abitato dai nostri genitori è ormai destinato ad esaurirsi in brevissimo tempo.
Temo funzioni come le mega-offerte delle grosse catene di supermercati: chi fa in tempo si butta a capofitto sul prodotto, svuotando avidamente lo scaffale e riempendo il proprio carrello; chi arriva tardi dovrà ripiegare sull’unica alternativa prevista con la quale il banco, di solito, recupera con gli interessi quanto concesso in precedenza. Quel finto sconto, in definitiva, si trasforma in una pistola puntata sulle testoline immacolate degli eredi inconsapevoli.
Saltano allegramente in aria tabelle di marcia, griglie, previsioni e statistiche; a cambiare è l’uomo stesso, ed è inutile fare riferimento alle versioni precedenti: nel recente passato a quindici anni si veniva considerati adulti e arruolabili per ogni tipo di mansione.
Assistiamo ad un progressivo rallentamento, un processo di imbalsamazione collettivo.
Ci troviamo in un limbo con le sponde ripide, altissime, dove si entra seguendo un percorso obbligato e si esce, dopo un’attesa dilatata a dismisura, solo se si verifica la combinazione giusta. Ad attenderci non c’è il paradiso terrestre, ma una sorta di baraccopoli tirata su tra paludi e sabbie mobili.
Così non ci rimane altro da fare che scandagliare ogni centimetro quadrato della cella e rendere pubblici i risultati dell’analisi e dell’osservazione. Siamo le pupille che garantiscono il corretto funzionamento dell’apparato visivo.
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193 - Vivo imprigionato in una bolla trasparente, fluttua sospesa dentro ad una bolla più grande. Una situazione decisamente complicata, soprattutto se il tuo obbiettivo è evadere.
È difficile continuare ad insistere. Puoi strizzare gli occhi, come si faceva da bambini, immaginando, con tutte le tue forze, una situazione diversa; purtroppo però quando li riapri di fronte hai sempre lo stesso quadro.
Scelte, strategie, mosse, contromosse: pedine del monopoli; dadi, contratti, soldi, prestiti, mutui. Azzardi. Ci provo? Mi butto? È saggio? Conveniente?
Potrei anche tentare di pattinare leggero su queste sabbie mobili.
Felicità, infelicità, mazzolini di disagio venduti ai semafori da uomini con i denti gialli e lo sguardo spento. Prospettive. Margini di investimento. Sogni. Desideri. Uno strano muschio colloso mi ricopre la pelle, lo sento che conquista gli alveoli. Paralisi.
Pazienza, serve pazienza. L’attesa è un ottimo esercizio, nel frattempo che la candela si consuma. Magari a questo giro risolvono il rompicapo.
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194 - Un filosofo: un uomo, cioè, che costantemente vive, vede, ascolta, sospetta, spera, sogna cose fuori dell’ordinario; che vien colto dai suoi stessi pensieri quasi dal di fuori, dall’alto e dal basso, come da quel genere di avvenimenti e di fulmini che è suo proprio; e forse è egli stesso una procella che si avanza gravida di nuovi fulmini; un uomo fatale, intorno al quale c’è sempre un brontolio e un rovinio, qualcosa che si cretta e sinistramente accade. Un filosofo: ahimè, un essere che spesso sfugge a se stesso, spesso ha timore di sé – tuttavia è troppo curioso per non “tornare” sempre di nuovo “a sé” …
Friedrich Nietzsche – Al di là del bene e del male \ Preludio di una filosofia dell’avvenire (1886)
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195 - Tra i tanti modi a disposizione di un individuo per calpestare il suolo di questo pianeta c’è sicuramente quello relativo al pazzo.
Si trascorrono le ore a farneticare di cose che gli altri, seppur con tutta la buona volontà, non comprendono, e a raccontare di prospettive che gli altri non vedono e che nella maggior parte dei casi si ritengono assurde, impossibili.
Anche in questo caso, per l’ennesima volta, è una questione di abitudine: si tratta di prendere confidenza e familiarità con le proprie visioni e legittimarle, un tentativo snervante, nel confronto con le grandi illusioni collettive che animano le nostre fatiche.
Se viene considerato “normale” chi gratta la superficie argentata di un cartoncino, spinto dalla speranza di poter cambiare in quel modo la propria situazione socio-economica, non vedo perché si debba sentire “sbagliato” colui che ritiene che le idee, e le azioni, possano modificare, in parte o radicalmente, una determinata situazione socio-economica, nonché l’insieme delle percezioni, delle opinioni e delle convinzioni che ci fanno tendere verso certi fini a discapito di certi altri.
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196 - Partorire un pensiero forte, capace di trainare l’esistente ad un livello superiore, non è compito affatto semplice, soprattutto se si considera che, generalmente, le scatole craniche dei comuni mortali sono riempite di segatura, cotone, polistirolo: materiali perfetti per smorzare, attutire sino al livello zero il moto scricchiolante delle rotelle della nostra fantasia e della nostra razionalità.
Non ho ancora capito se ci sia un metodo ben preciso da seguire per cagare fuori la cosiddetta perla o se questo traguardo sia più il frutto di decine, centinaia di coincidenze.
Che strano arnese, il cervello umano: assomiglia ad un bizzarro albero da frutto che una stagione regala doni succosissimi a lunga scadenza, penso ad esempio al Capitale di Marx, per poi sprofondare in un processo regressivo che al massimo sfocia nell’ennesimo romanzo giallo di qualche scrittore nord europeo.
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197 - Io non sono un filosofo, mai detto di esserlo.
G. M., durante il ciclo di lezioni tenute nel suo piccolo studio, era stato piuttosto chiaro.
— Per diventarlo, dovreste vivere con il vostro maestro, mangiare con lui, passeggiare con lui, trascorrere l’intera giornata in sua compagnia e dedicarvi allo studio in maniera assoluta; tutte cose che l’istruzione pubblica, al momento, non può garantire per nulla.
Io posso solo spiegarvi il modo per leggere e comprendere un libro come se si trattasse di un quotidiano.
Mi nutro di pagine, affondo le radici nelle opere e nei pensieri altrui. Sminuzzo, grattugio, trito, scompongo sostanze complesse in particelle elementari e compongo il mio personalissimo mosaico, la mia visione distorta e grottesca. Rumino, rumino, rumino, rumino, come una vacca.
Io sono solo un appassionato di tale disciplina; un signor nessuno che ha soltanto una curiosità: capire quanto vale, in termini filosofici, la carta nascosta nella mia manica.
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198 - Io non sono assolutamente in grado di pensare, è il primo comandamento per entrare a far parte dell’esercito degli inermi, figurarsi di produrre un pensiero forte.
Per questo, al momento, mi dedico al collage: ritaglio alla bell’e meglio, con un paio di forbici dalla punta arrotondata, gli aspetti più interessanti dei vostri ragionamenti e poi li appiccico assieme, cercando di ottenere un quadro che abbia un senso compiuto e possa risultarmi utile.
Le idee sono come grosse lanterne che rischiarano il nostro cammino tra le viscere di questa notte buia. Le più belle producono così tanta luce da reggere il confronto con gli astri più brillanti del firmamento.
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199 - Requiem dell’impossibile – II atto
Prima della prima missione spaziale, nessuno aveva mai effettuato una missione spaziale; prima che si iniziassero a vendere i droni nei supermercati, era impossibile pensare di andare a comprare un drone al supermercato.
Prima della Apple e dei suoi prodotti innovativi, non c’era la Apple con tutti i suoi prodotti innovativi.
Prima della scoperta dell’elettricità, era impossibile pensare ad una chitarra elettrica. Prima della stampa, non esistevano i volumi stampati.
Prima della nascita del calcio, era impossibile immaginare 70.000 persone gridare contemporaneamente per un palloncino rivestito di cuoio che rotola in fondo ad una rete.
Prima dell’invenzione del walkman, era impossibile ascoltare musica a spasso.
Prima della nascita del primo “centro sociale” nella mia città, non c’era mai stato nessun “centro sociale” nella mia città.
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200 - Un pazzo è necessariamente condannato, per definizione, ad un’incessante delirare, ma se è fortunato (se così si può definire) può passare dall’essere l’oggetto incompreso e compatito di un auditorio occasionale ad elemento bizzarro che, se ispirato, può strappare addirittura qualche sorriso, qualche risatina, ai suoi interlocutori.
Ecco che una dose di follia diventa l’ingrediente decisivo nel ruolo controverso del giullare, cugino nobile del moderno pagliaccio.
— Fin tanto che si ride —, mi ripeto per farmi coraggio, — non c’è nulla di male.
Nel frattempo, mi spalmo sulla faccia mezzo tubetto di cerone bianco.
— I problemi, piuttosto, arrivano quando si piange — concludo prima di armarmi di rossetto e proseguire nella trasformazione.
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201 - Durante il periodo prenatalizio, ho assistito, con enorme interesse, allo spettacolo di un’artista di strada che per circa un’ora ha tenuto stretta in pugno l’attenzione dei suoi piccoli spettatori: riusciva a coinvolgere attivamente i più vivaci, trasformandoli in un attimo in simpaticissimi assistenti.
Snocciolava, come da regola, un repertorio efficace, fatto di battute, smorfiacce e giochi di prestigio con palline e bastoni infuocati.
Ciò che mi ha sorpreso più di ogni altra cosa però, è stata l’assoluta abilità di improvvisare e interagire con tutti gli elementi dello spazio: sia con gli oggetti, che diventavano una risorsa ulteriore per i suoi numeri, e sia con gli ignari passanti, delle volte poco propensi a scambiare il proprio malumore di default con quelle futilità infantili.
Il nudo asfalto diventava un palco, le persone potenziali obbiettivi da attivare a prescindere, è questo il bello, dalla loro età; l’apice in questo senso è stato raggiunto quando il nostro, preda di un’irrefrenabile slancio affettivo, ha abbracciato calorosamente una giovane mammina bionda, stampandoli poi, con innocenza bambinesca, uno-due-tre baciotti sulle belle guance, replicando l’impresa per la seconda volta alcuni minuti più tardi.
Chissà se si tratta, mi riferisco in particolare all’aspetto puramente inter-relazionale, di una predisposizione o di una capacità affinata con la pratica e con lo studio.
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202 - Ci sono vari modi per andare in giro in questo mondo e relazionarsi agli spazi e agli altri individui: uno, ad esempio, è quello del kamikaze.
Ti muovi invisibile e silenzioso tra le bancarelle del mercato, tra le cassette di frutta matura e verdura, tra piccoli assembramenti di donne e uomini e bambini, intenti a vivere le loro giornate, anestetizzati dalla pace quotidiana che abbassa al limite la loro attenzione, la sensibilità animale assopita nonostante il pericolo imminente.
Nessuno sembra notarti, se non di sfuggita, distrattamente: vieni catalogato come l’ennesima buccia di banana da evitare con un saltello elegante. Ti muovi invisibile, un granello di carne umana incanalato perfettamente nei corridoi obbligati: la folla è il substrato ideale, nascondiglio e teatro perfetto.
Un respiro, forse un sospiro, il frastuono, l’esplosione, il boato, un brivido gelido, appena un alito di vento.
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203 - E’ come se la scatola cranica esplodesse letteralmente in aria; decine, centinaia di schegge schizzano fuori dalla bocca, un processo irreversibile; che senso ha pretendere pazienza, self-control e pacatezza da una bomba? La sua funzione, il suo fine ultimo è quello di deflagrare, espandersi, piegare e spostare la materia con l’onda d’urto, la vibrazione frenetica, travolgente.
Il cecchino prende la mira, segue il suo bersaglio con cura, può addirittura studiarne i tratti somatici, entra in un rapporto intimo, seppur subdolo perchè univoco, con la sua preda.
Il kamikaze che si fa esplodere vive gli attimi conclusivi della sua storia in maniera meno romantica; i bersagli colpiti non vengono conteggiati per unità, solo al telegiornale perdono ancora del tempo con nomi, cognomi, età, nazionalità e professione; in realtà si parla semplicemente di quintalate di carne bruciata, ridotta a brandelli.
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MANUALE DI SOPRAVVIVENZA PER GIOVANI SCIMMIE ALL'INFERNO
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INTRODUZIONE
Secondo l’astrologia cinese, i nati sotto il segno della Scimmia sono arguti, intelligenti ed hanno una personalità magnetica. I tratti caratteriali, come la malizia, la curiosità e l’astuzia, li rendono veramente molto giocherelloni. Sebbene non abbiano mai cattive intenzioni, a volte il loro comportamento può ferire i sentimenti di terzi.
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I Cani sono leali ed onesti, amabili e gentili, cauti e prudenti. A causa del loro forte senso di lealtà e sincerità, i Cani fanno qualunque cosa per le persone che ritengono importanti.
Poiché i Cani non sono buoni comunicatori, è difficile per loro condividere i propri pensieri con gli altri.
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L’LSD (dietilammide-25 dell’acido lisergico) è una fra le più potenti sostanze psichedeliche conosciute. La sigla è un’abbreviazione nel nome in tedesco del composto Lysergsäurediethylamid. Sintetizzato per la prima volta nel 1938 nei Laboratori Sandoz di Basilea da Albert Hofmann.
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Dalla combinazione di questi tre elementi con la città di Cagliari nasce il Manuale di sopravvivenza per giovani scimmie all’inferno.
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204 – “Sono esperimenti questi, in cui, prima o poi, ci avventuriamo in sentieri pericolosi, e ci possiamo considerare fortunati se riusciamo a fuggire solo con un occhio ammaccato”
Da una lettera di Ernst Junger ad Albert Hofmann, in:
Albert Hofmann – ‘LSD – Il mio bambino difficile’
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205 – Io conosco solo una scorciatoia, il modo per entrare dalla piccola porta nascosta sul retro.
Tutto quello che succede all’interno del recinto del giardino incantato, vale sia per il meraviglioso che per l’orribile, non dipende assolutamente dalla mia volontà.
Il giardino può essere popolato e attraversato da branchi di lupi ferocissimi: essi non agiscono sotto la mia responsabilità.
Non date da mangiare ai lupi se dovessero avvicinarsi.
Non fate manovre o gesti bruschi e azzardati.
Siate rispettosi.
Non prendetevi confidenze eccessive.
[La direzione declina ogni responsabilità per danni a persone o cose causate dall’uso improprio delle strutture o degli oggetti presenti nel giardino]
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206 – Prima di intraprendere la grande scalata sull’albero che sale verso il sole, la scimmia farebbe bene a rivolgere qualche pensiero buono ai guerrieri del suo esercito celeste.
Nel mio caso, di solito, mi affido a mia nonna, mio nonno, a Mauro e Cristian.
“Aiutatemi a trovare quel che cerco, e se perdo la rotta, se la situazione si complica, lottate con me per permettermi di fare ritorno a casa”.
*
207 – La scimmia si siede sulla sabbia, di fronte ad un gigantesco rudere, quello che sino ai primissimi anni ’80, era un ospedale, costruito a pochi metri dal mare. Nel tempo è diventato, la scimmia lo considera così, il suo ufficio. E’ da li che di solito parte la scalata all’albero che sale verso il sole.
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208 — Se siamo qui — recita con voce seria — è, in primis, perchè qualcuno un giorno ha fatto una scoperta incredibile e fortunatamente ha deciso di renderla nota agli altri uomini. Lo ringraziamo per questo.
Se siamo qui è perché qualcuno ha replicato il frutto di quella meravigliosa scoperta e ha deciso di condividerla con tutti noi. Lo ringraziamo per questo.
Se siamo qui, è perché qualcuno ha costruito un’oasi in cui l’acqua fresca non manca e ci si può abbeverare in tutta tranquillità al riparo dei nemici. Ringraziamo tutti loro per questo.
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209 – Da una mail di mia cugina F. del 24 settembre 2013, a proposito degli studi condotti dal Dottor Timothy Leary sul ‘Libro tibetano dei morti‘:
— Cosa mi dici della paura e del tuo rapporto con essa?
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210 – Condizione necessaria per entrare nel giardino: la curiosità deve superare, in intensità, la paura.
La scimmia dovrebbe lasciare a terra il bagaglio, prima di intraprendere la scalata sull’albero che sale verso il sole: via i pensieri inutili, le paranoie quotidiane. Precauzione preziosa: tenere il telefono cellulare ben lontano, e soprattutto spento.
*
211 – 23 dicembre 2014
La scimmia trova una sedia poggiata nel nulla di una spiaggia, il secondo giorno di inverno. Si siede.
Il cane gironzola, scodinzola, annusa tutt’attorno alla scimmia.
I due animali hanno appena ascoltato un file mp3 artigianale per l’ipnosi regressiva.
La scimmia si arrampica sull’albero che porta al sole. Arriva abbastanza in alto da poter osservare, con occhio diverso, il passato, tant’è che il passato assume il sapore tutto particolare del deja-vu.
La serratura si sblocca quando la scimmia racconta al cane della ‘Brotherhood of eternal love’, bislacco esperimento nato negli anni ’60 in California.
Scena già vista e già vissuta!, sentenzia la razionalità con la lingua impastata.
Ora arrivano gli sbirri e ti incastrano, sussurra la razionalità a se stessa.
Il cane inizia a giocherellare, probabilmente in maniera inconsapevole.
Ignora che nel giardino incantato le cose assumono forme opposte rispetto al normale: sguardi, toni, modi.
Il cane incalza, abbaia giocoso e ingenuo. La scimmia si arrampica ancora più in alto, sull’albero che sale verso il sole.
La terra, la città, tutto è così lontano ora, tutto sembra strano e diverso.
Il cane continua ad abbaiare, anzi pare un ringhio. La scimmia non l’ha mai visto così: ha lo sguardo perfido di un poliziotto. Maledettissimo fenomeno della trasfigurazione del volto.
Così si distrae un attimo, forse si spaventa un po’, scivola e incomincia a precipitare verso il suolo.
*
212 – La scimmia, con il tempo, ha imparato a mantenere la calma, anche quando sta per piantarsi come un chiodo sul terreno, perché sa che c’è sempre un ramo a cui appendersi, per evitare lo schianto.
— Fai pure il coglione — dico a X — tanto fra un po’ U. viene a prendermi. Fine della storia.
Il ramo. La scimmia tende la mano, pronta ad agguantarlo.
Il cane continua a giocare, anche se si tratta della sua prima volta nel giardino incantato.
— Tu dici? — provoca.
La scimmia sente la puzza acida della sua stessa adrenalina; il ramo scompare all’improvviso, come un prestigio, un trucco di cattivo gusto.
La scimmia precipita, a testa in giù, verso il suolo.
*
213 - La spiaggia è deserta. Ci siamo solo io, X. e una sedia in plastica bianca. Incomincio a sentirmi fisicamente minacciato. X. continua ad armeggiare con quel suo grosso telefono nero.
Arrivano i rinforzi, penso, fine della storia, fine del delirio, ora mi blindano; placcato, ancora prima di fare mezza yard.
Per un attimo mi passa per la testa l’idea di piazzargli un cazzottone all’altezza dell’orecchio e tentare l’ultima carta disponibile: la fuga; è un’eventualità che sorge e tramonta nell’arco di un decimo di secondo.
*
214 - La scimmia riapre gli occhi, cerca di stare calma, anche se la sensazione di cadere nel vuoto non è affatto piacevole. Ecco un altro ramo. Afferralo presto, si fa coraggio.
Mi viene in mente una frase di Don Kaos, dall’album ‘Karma‘, ultima traccia, ‘La fine‘ .
‘Davvero vuoi provare a rubare in casa del ladro?’
*
215 - Mi alzo dalla sedia bianca, invito X. a darmi il cambio, lo faccio accomodare ed inizio a girargli intorno come un avvoltoio.
*
216 – La scimmia si aggrappa al ramo, riconquista le sue sicurezze, la sua posizione. Sente l’ira macchiargli il bianco degli occhi con intense macchioline color porpora.
*
217 – Conosco almeno un punto debole di X., un ricordo particolarmente doloroso. Per evocarlo potrebbe bastare appena un sussurro, ed ecco che le porte dell’inferno si spalancherebbero per accoglierci entrambi. Il cuore soffrigge in una pozza di rabbia bollente. Secondo gli insegnamenti di Don Juan, trasmessi a Castaneda, uno dei cinque attributi del guerriero è il controllo.
Il cane diventa un agnello innocuo e indifeso.
*
218 - Bere molta acqua, in quei casi, aiuta la scimmia a ricordarsi che ha ancora un corpo.
La vescica si gonfia, rientri in contatto, giusto per il tempo di una pisciata, con l’aspetto prettamente materiale dell’esistenza.
Tiro su la lampo dei pantaloni e applaudo un regista invisibile, perchè l’incubo che ho appena vissuto è quanto di più verosimile mi sia capitato di esperire in tutta la mia vita.
Torno a casa con quello che considero un risultato importante: avrei potuto spazzare via X., è questa l’impressione, ma non l’ho fatto.
Da quel giorno però, per tutto un lunghissimo anno, ho dovuto fare i conti con una spiacevolissima sensazione: chiunque entri assieme a me nel giardino incantato si trasforma, da un momento all’altro, come l’agente Smith in Matrix, in un infame infiltrato, da anni, nei segreti della mia vita.
*
219 – 23 dicembre 2015
Ci accomodiamo nel mio ufficio, come da consuetudine. Aspettiamo che un omino grassoccio, nella sua tutina blu da guardia privata, proceda oltre nel suo giro di perlustrazione.
Lancia uno sguardo rapido, io non posso fare a meno di notare la pistola infilata nella fondina nera.
*
220 – Metodo McKenna: Se non sei sicuro che la quantità di una sostanza produca l’effetto desiderato, prendine il doppio.
*
221 – X. si mantiene sul cauto: è un cane saggio, piuttosto prudente. Così la scimmia si ritrova in mano, quasi trecentocinquanta micro-schegge di polvere di stelle, condensate in tre piccolissimi frammenti, di cui due uguali, di dimensioni ridottissime.
Spariscono, come il cibo dentro ad una ciotola consegnata ad un animale che non mangia da tre giorni.
Non sono sicuro si tratti di una buona idea, ma ormai non si può più tornare indietro.
Mi aspetto di sentire, da un momento all’altro, il ritornello degli ‘esageri sempre’.
*
222 – Di solito fila tutto liscio, le cose iniziano sempre nello stesso modo; si tratta di mantenere la calma al comparire dei primi sintomi.
— Hai notato anche tu quel dettaglio? — chiede la razionalità a se stessa.
— Quale dettaglio? — risponde la razionalità.
— Quella foglia sembrava più brillante delle altre — insiste la razionalità.
— Sei sicura?
— No, non proprio. Ma non ci crederai: la scritta viola su quel muro, è proprio di un viola elettrico vivo.
— Sei sicura?
— Temo proprio di si.
*
223 – Antefatto.
La barra verde scorre rapida, da sinistra a destra: connessione con la rete TOR avvenuta con successo. Da questo momento in poi, il segnale rimbalza, alla velocità della luce, da una parte all’altra del globo, riflesso da migliaia di specchi: sono invisibile, tecnologia militare garantita al 100%. Sono anonimo.
Entro nella stanza e mi unisco al coro dei ‘non ci credo’, ‘dio vi benedica’, ‘è fantastico’.
Lascio qualche messaggio nella sezione ‘chiacchiere sparse’ del forum prima di piazzare l’ordine.
Sembra quasi, scrivo, ma non sono il solo a pensarla così, che la Storia stia concedendo a tutti noi una seconda chance.
Mi viene voglia di approfondire: uno degli obbiettivi principali è capire cosa sia andato storto nella precedente avventura. Magari, che ne so, metti che mi capita la palla buona da spedire dritta in rete; non posso mica fare gli stessi sbagli del dottor Timothy.
*
224 – E’ diventato in assoluto il mio sport preferito: salto con l’asta.
Arrivo all’appuntamento che aspetto da un anno intero al massimo della forma: 90 giorni di esercizi yoga e alimentazione controllata, pasti leggeri, molta verdura e pochissima carne. Un calciatore a poche ore dalla finalissima dei mondiali.
*
225 – Conosco già il piatto forte dello chef. Cucina bene: pulizia, precisione e affidabilità sono le sue caratteristiche principali. Mi godo le piccole scariche di amarognolo che mi punzecchiano la lingua mentre X. prende in mano ‘Autobiografia di uno yogi’ di Yogananda. Cerca alcuni passi dedicati al karma, ed inizia a leggere a voce alta.
Adoro questa salsa pseudo intellettuale con cui condiamo la faccenda; l’anno prima era toccato a Platone, con la sua teoria della trasmigrazione delle anime. Tutto eccellente, tutto perfetto.
Il clima è ben al di sopra della media stagionale, anche se ho l’impressione che si stia alzando un po’ di vento. Ma certe impressioni ormai valgono meno di zero.
*
226 – Riempi una teiera con dell’acqua, mettila sul fornello e aspetta.
Percepisco come un gorgoglio di bolle, salgono dal profondo del torace. E’ ora di fare quattro (mila) passi.
X. è stranamente silenzioso; di tanto in tanto cerco di interagire, di scambiare qualche battuta, ma la linea è occupata.
Ad un certo punto, capita l’imponderabile.
Mi trovo nella stessa, identica zona, esattamente 365 giorni dopo, con la medesima persona.
Una serie catastrofica di coincidenze che si tramuta all’istante in una tagliola, si serra come la bocca di uno squalo attorno alla mia caviglia. X. continua ad essere stranamente silenzioso.
— Perchè ti sei fermato? — La faccia è seria, troppo, per i miei gusti. — Vieni, continuiamo ad andare verso questa parte.
Il sistema intero entra in blocco. In automatico. Mi irrigidisco. Pianto i piedi nella sabbia, come due ancore.
*
227 - La scimmia ha sviluppato un istinto tutto suo. Quest’ultimo prende il comando delle operazioni, non c’è razionalità che tenga.
*
228 — Io direi di tornare indietro, invece.
Zaffate di adrenalina acida e dolciastra escono fuori dalla bocca. Stiamo nuovamente andando verso quella maledettissima sedia bianca e io non ho nessunissima intenzione di calarmi un altro interrogatorio con gli agenti Smith che vengono a darmi la caccia e tutto il resto.
*
229 - Punto verso il caos, il traffico di ciclisti e appassionati di jogging.
La scimmia si immerge nel disordine delle variabili impazzite del tessuto urbano. Otto ragazzetti palleggiano a bordo strada, sotto la supervisione di quello che ha tutta l’aria di essere un allenatore di calcio.
*
230 – Il cane è silenzioso, un po’ spiazzato, probabilmente. La scimmia non può fare altro che continuare a salire sempre più su, nel suo albero preferito.
*
231 – Entriamo a rifornirci d’acqua dentro ad un chiosco. Il cane manda segnali di allarme: una macchina con due sbirri dentro si piazza di fronte alla vetrata. La scimmia agisce d’impulso e si gira di spalle.
Troppi sbirri. La situazione sta per incrinarsi.
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232 – Schizziamo fuori dal prefabbricato in legno.
— Vuoi tornare nel tuo ufficio? — mi chiede X.
Perdo il controllo della navicella spaziale.
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233 – La scimmia continua ad arrampicarsi sul grande albero che sale verso il sole. Prende sempre più slancio, sempre più velocità. Poi fa un balzo. Si stacca dall’albero. Spicca il volo, nel grande, immenso vuoto cosmico.
*
234 – “La prima fase (Chikhai Bardo) è quella della totale trascendenza – oltre le parole, oltre lo spazio tempo, oltre il se. Non ci sono visioni, nessun senso di se, niente pensieri. C’è solamente pura consapevolezza e la libertà estatica da ogni gioco e coinvolgimento biologico”
Timothy Leary – L’esperienza psichedelica basata su ‘Il libro tibetano dei morti’
*
235 – Mi butto mezza bottiglietta d’acqua in testa, nel tentativo di riprendere contatto con il corpo. Tutto inutile. Maledettissimo metodo McKenna.
Non sento più il cuore battere. Mi riempio la bocca di liquido, lo sputo, niente da fare.
Poi, all’improvviso, il vento aumenta: è come se la faccia si stesse sgretolando in tanti piccolissimi pezzettini. Percepisco un freddo immenso espandersi dai testicoli, in tutto il corpo.
Un buco azzurro intenso mi attira a se e mi ingoia.
*
236 – La scimmia fluttua nel freddo nulla cosmico.
*
237 – D’incanto, lo spazio circostante assume le sembianze di un ambiente militarizzato, artificiale, alieno, ostile.
Dicono che a poche centinaia di metri dal mio ufficio ci sia una base americana con tanto di sommergibili nucleari. Ne percepisco quasi il silenzioso ronzare.
*
238 – Svanisco progressivamente in questo grande vuoto cosmico. Cerco di alzarmi in piedi, ma spostarsi è inutile. Il contorno è una finzione, una scenografia, un ammasso di colori e forme. Un paesaggio virtuale. I movimenti sono un’illusione.
E’ come se un’immensa carica negativa stia dilaniando il velo di Maya, mostrando l’universo per quello che è: uno scherzo cretino.
Provo a stringere la sabbia in un pugno: la materia è una proiezione della mia mente.
*
239 – Il cane borbotta, lancia messaggi che la scimmia, persa nel grande e freddo nulla cosmico non può comprendere.
— Vuoi un fazzoletto per asciugarti?
— Perchè fai quelle facce?
— Perchè rendi tutto così difficile?
*
240 – Non è la prima volta che succede: è come se dovessi togliere il disturbo, lasciare questo mondo per spezzare, interrompere la sofferenza mia e soprattutto quella di tutti gli altri nodi della rete.
X. mi stringe il braccio: — Coraggio!
Devo andare. L’ultimo viaggio. Ecco la fine. Peccato che sia così freddo.
— Se preferisci procedere in direzione del sole — avvisa il polo di tensione negativa che gioca a nascondino con la mia follia, fai pure. Che differenza fa?
Almeno mi fa sentire meglio, più tranquillo.
Ma X., il cane, chissà chi è l’individuo che mi ha seguito in questa pazzia, non ne vuole sapere di abbandonare la sua postazione.
*
241 – Sono in trappola: da un momento all’altro la tempesta di impulsi elettrici nel mio cervello si placherà e la realtà cesserà di essere. Mi manca il fiato. Cristalli di panico puro.
Tutto inizia a girare vorticosamente.
La fine. La sento arrivare. Eppure sono ancora.
Resisto.
Tutt’attorno, il buio straripa da centinaia di crepe. Eppure sono ancora. Anche se non so cosa.
L’unico ente che sopravvive oltre a me è la grossa massa di negatività che sta per spazzarmi via come se fossi un insignificante granello di polvere. A volte si nasconde dietro la figura di X., ma ormai non siamo altro che manichini, metafore dell’eterna lotta tra il bene e il male.
Questo dualismo mi consola: seppur terribile, con la sua distruttiva forza annichilente, è l’unica compagnia che vaga con me nel nulla assoluto.
Il dubbio si accende, pulsa ad intermittenze regolari: la tua mente è l’origine unica di ciò che chiami l’esistente.
Non lo accetto. Non posso. Qualcuno venga a svegliarmi. Ditemi che è tutto un incubo.
*
242 – E’ l’ultima cosa che la scimmia ricorda di quell’escursione nelle altissime, inaccessibili vette dell’incomprensibile.
*
243 – Secondo le leggi della fisica, un corpo catapultato in alto raggiunge l’apice della sua traiettoria, si gode il panorama per qualche istante, poi è destinato inevitabilmente a ridiscendere giù.
*
244 – “Nell’esperienza psicotico-simile (secondo la classificazione di Pahnke), caratterizzata da confusione mentale, da vari gradi di paura, dall’ansia al panico, la destrutturazione dell’Io è estremamente profonda e rapida.
L’esperienza psicodinamica è caratterizzata dal ritorno in superficie di materiale precedentemente inconscio o preconscio. Abreazione e catarsi sono elementi di ciò che può essere vissuto come un’attualizzazione di traumi del passato o la rappresentazione simbolica di conflitti rimossi.
L’esperienza transpersonale, detta anche esperienza trascendentale, è quella più difficile da descrivere e da valutare, e presenta evidenti analogie con le esperienze mistiche ed estatiche. Consiste, in parole povere, in una destrutturazione dell’Io, alla quale segue una ristrutturazione più integra e completa”.
Gilberto Camilla \ Etnopsicologo, Socio fondatore e presidente della Società Italiana per lo Studio degli Stati di Coscienza
*
245 – Dopo che assisti al collasso dell’universo intero su se stesso, un fragile e instabile castello di carte, niente è più un problema.
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246 – Il terrore mi avvolge, manco fosse la mantellina sulle spalle esili di un vecchio demente.
Non è la prima volta che intraprendo quel lungo e tortuoso viaggio di ritorno, ma più ti allontani dal giaciglio e più pazienza e fatica ci vogliono per centrare quell’impercettibile fessura, poco più grande del culo di una gallina, e riprendere possesso della tua coscienza.
Per completare la missione e non rimanere appeso a mezz’aria, è necessario riunire tutti i pezzetti del vaso. E’ consigliabile non avere troppi segreti, zone d’ombra, duplici o triplici identità, amanti o tradimenti in sospeso. La confusione potrebbe essere così abbondante, specie in presenza di un pubblico, da complicare rocambolescamente l’atterraggio e il processo di normalizzazione.
*
247 – Come vi sentireste se all’improvviso diventasse evidente che la vostra storia personale, famiglia, amici, fidanzato\a, animali domestici, lavoro, hobby, non sono mai esistiti ma sono soltanto una favoletta che vi siete raccontati in uno di quei lunghi pomeriggi in manicomio?
Giusto un diversivo per aspettare l’ora della cena e la pillola della nanna.
Ti sembra di esserne quasi certo: scrivi per un giornale on-line che si chiama ****** ********, ma non c’è nessun quattro zampe ad aspettarti a casa.
Non ci siamo. Riprova.
Forse hai una ragazza, ficcata in qualche dimensione parallela, ma quel forse si gonfia a dismisura sino a diventare inconfutabile. L’agitazione ed il malessere crescono come ortiche in un orticello.
*
248 – Prendo in mano il telefono: che errore!
Otto messaggi non letti, quattro chat aperte su whattsapp. File di lombrichi ballano la lambada strisciando sullo schermo del telefono.
Non sono semplici ricordi, sei ad un passo dall’addio: la verità è che sei in coma, sdraiato su un letto in qualche stanza tiepida di una schifosissima struttura ospedaliera e questi sono gli ultimi rantoli del tuo cervello.
Non c’è nessuna vigilia di Natale ad aspettarti il giorno dopo, niente regali, niente dolci, niente feste. L’illusione si squaglia in grossi goccioloni, un ghiacciolo malmenato dal caldo insopportabile estivo.
Ecco spiegate tutte le combinazioni, le coincidenze: il disegnino senza senso di un bambino autistico.
La più grande presa per i fondelli che ti abbiano mai confezionato: davvero pensavi che la tua felicità derivasse da fatti oggettivi?
Scemone, apri gli occhi, ti sei inventato tutto!!!
*
249 — Sono pazzo? — chiede la scimmia al cane, mentre affetta con la scimitarra nuvoloni di confusione.
— Se te lo domandi, puoi risponderti da solo — replica l’altro, con un’ambiguità rosso-fiammante che ovviamente non risolve la questione ma anzi la aggrava.
*
250 - L’ultimo appiglio che rimane, il sentimento più profondo che sono in grado di provare: l’Amore.
Farfuglio quasi in lacrime le due sillabe che compongono il suo nomignolo; non può essere svanito tutto dentro al cesso, anche se è l’ipotesi che sovrasta tutte le altre.
I pensieri si tamponano l’uno con l’altro, un ingorgo mastodontico di urla e clacson, un grande autoscontro metropolitano a cielo aperto.
Hai presente quel caro amico morto di cui parli sempre? In realtà sei tu ad essere morto, noi siamo il comitato che ti sta accompagnando nell’aldilà, caro il nostro fantasmino immateriale.
*
251 – Sono esausto, spossato oltre ogni misura. Intravedo la città in lontananza: voglio tornare a casa, anche se non so bene dove sia, ma un rifugio lo troverò. Va bene tutto, basta che non sia questa spiaggia maledetta.
*
252 – Se uno dei due animali si spaventa, l’altro ha la possibilità di tranquillizzarlo. Se entrambi perdono la bussola, sono destinati a vagare, smarriti negli angoli più bui del giardino.
*
253 – Ci immettiamo nel grande viale pedonale nuovo di zecca che costeggia il lungo-mare. Incrociare altri esseri umani, nelle loro caratteristiche tenute ginniche, attenua la collera della pattuglia di psicosi che hanno messo a dura prova la mia resistenza. Non faccio a tempo a godermi i primi attimi di serenità ritrovata, che due carabinieri ci vengono incontro.
Tengo lo sguardo su un punto immaginario di fronte: i rappresentanti delle forze dell’ordine sfilano accanto, tirandoci un’occhiataccia di ordinanza.
*
254 – Riprendo l’iniziativa.
Quello che ci vuole è un tè bollente.
Entriamo in un elegantissimo bar, con le pareti e gli arredi bianchi. Il sole tramonta rapido sulla baia di Bangkok.
Il cameriere che viene a prendere le ordinazioni è cortese, si comporta in maniera gentile, come se capisse che siamo appena scampati all’apocalisse.
X. ritorna dal bagno. — E’ un piacere rivederti, ero quasi convinto che non avrei più trovato nessuno in sala. Tu come stai? Ti sei ripreso?
Entro in simbiosi con quella luccicante sinfonia di colori caldi e brillanti, un gioco complicatissimo di riflessi e sfumature.
— Ora va tutto bene — lo rassicuro, mentre svuoto un’intera bustina di miele dentro la tazza. Il calore della bevanda che solletica le guance ed il naso incendia di piacere il mio corpo.
Fine primo tempo.
Secondo i calcoli, considerando la quantità, il metodo McKenna e tutto il resto, mancano ancora nove ore alla fine del viaggio.
*
255 – Grattugio la schiena contro un muro altissimo.
— Non mi sembra una buona idea — grido a X., ma la mia voce viene sovrastata dal rombo collettivo di decine di autovetture lanciate a folle corsa sul canale scivoloso, la grande arteria a scorrimento veloce. Tra noi e quei tirannosauri in acciaio luccicante ci sarà, si e no, appena mezzo metro.
*
256 – Come soldatini inesperti, conquistiamo la salvezza lanciandoci di corsa sul marciapiede dalla parte opposta della strada. Almeno, su quella distesa larga, non corriamo il rischio di finire sulle pagine del quotidiano locale del giorno dopo.
Proseguiamo a piedi per una mezz’ora, soffocati dalla geometria solida verticale di palazzi spenti tutti uguali. Colonne di cemento armato che tengono sospese, in equilibrio, una sopra l’altra, le cellette vuote di un alveare che si popola solo la notte di api stanche e assonnate.
Alle nostre spalle, si materializza un bagliore più intenso e duraturo degli altri: una stella cometa motorizzata apre con un sibilo le sue porte e ci porta dritti nel cuore pulsante della città.
*
257 – Fa un effetto strano rendersi conto di quante ore passiamo letteralmente intrappolati, incastrati, pressati in mezzo al traffico. Seduti a contemplare il nulla dal finestrino mentre il mezzo gioca ad ‘uno-due-tre stella’ con il semaforo, guadagna mezzo centimetro alla volta per poi fingere, immobile, di aver esaurito la spinta.
Riparte. Si ferma. Vittima di un singhiozzo millenario perpetuo.
Una donna con la faccia stropicciata, inscatolata dentro al suo SUV da quaranta mila euro succhia famelica una sigaretta. Mi sembra di percepire la puzza intima di ogni abitante dell’isola, che si sparge come gas nervino nei pochi metri cubici del bus destinati ai passeggeri.
Basta un cenno, l’intesa scocca immediatamente, pigio il bottone rosso e nel giro di venti secondi netti siamo fuori da quel budello costipato.
*
258 – Non so ancora bene se ho inteso in maniera corretta tutta la faccenda; diciamo che si tratta della mia personalissima, parziale interpretazione di ‘deriva psicogeografica’.
*
259 – Scappiamo dal caos di quel gregge sputa smog e ci incuneiamo nelle strade strette del vecchio quartiere della Marina, finalmente lontani dal traffico.
Camminiamo a passo svelto, sfrecciando come moscerini. Una marmellata di visi di mille colori, lingue e accenti diversi si spalmano contro le finestre appannate delle piccole case; le osservo, ne studio gli interni, è sempre stata una mia perversione. Sembrano tane accoglienti a dimensione di uomo.
Ci facciamo guidare dall’istinto, attratti dalle luci, dai suoni, dagli odori buoni; evitiamo i grossi assembramenti di persone, godiamo a pieni polmoni della quiete che si respira negli angoli deserti.
*
260 – Finiamo per caso nella fogna della città: due coriandoli tra i liquami e gli escrementi della via principale dello shopping.
Pacchetti, nastrini, fiocchetti. Il regno della plastica si svela in tutta la sua onnipotente maestosità.
Vetrine unte dagli sguardi carichi di desiderio, spesso irrealizzabile.
Le lampadine friggono nervose, producono un suono continuo e fastidioso, come un isterico digrignare di denti.
Abiti appesi, gioielli, spintoni.
Non manca proprio nulla in questa sagra del grottesco: la banda suona una terribile sinfonia a tema natalizio; i suoi componenti hanno tutti, uomini e donne, dei buffi cappelli di Babbo Natale.
Tutto l’assurdo sperimentato in spiaggia nelle ore precedenti non regge il confronto.
*
261 – C’è solo un luogo, dico a X., dove possiamo rifugiarci.
“Sa Domu è un laboratorio politico, Sa Domu è socialità.
Sa Domu va intesa come un luogo dove sviluppare idee, dibattiti e lotte; un luogo dove condividere momenti di allegria e spensieratezza coi compagni. Esperienze, fatica, sorrisi. […]
La socialità che vogliamo creare è differente rispetto a quella degli spazi a pagamento e delle discoteche. A chi frequenta lo spazio occupato, chiediamo quindi solo una cosa: RISPETTO.
[…] A Sa Domu tutti i giorni attive:
– Sala prove;
– Biblioteca autogestita
– Officina popolare
– Aula studio con wifi libero.
*
262 – Avevo scritto la sceneggiatura del mio film nei singoli dettagli: sembrava tutto così perfetto.
Nello zainetto, due libri di Proudhon da donare alla Biblioteca Autogestita di Zarmu; in cambio avremmo ottenuto un po’ di riparo da quel bombardamento spietato di consumismo compulsivo e frenetico caratteristico dell’antivigilia.
Vedevo già la scena: io e X. seduti al caldo nella quiete della sala lettura, a discutere di libertà, quella con la L maiuscola, in tutte le sue svariate forme, con dedica particolare, magari, all’esperienza che stavamo vivendo e che era ben lontana dall’essere conclusa.
*
263 – Due viandanti in fuga dalle grinfie del demonio, in una notte fredda e tempestosa.
Continuiamo a salire verso la zona alta della città, sicuri di andare a impattare dritti contro la nostra meta.
*
264 – Ci fermiamo a prendere fiato nei pressi di una piccola chiesa: la vetrata si tinge di azzurro, blu intenso, rosso vivo, rosa, viola, fucsia.
Di fronte, una sterminata, incantevole distesa di luci si tuffa nel porto, centinaia di migliaia di riflessi che rimbalzano verso il buio massiccio delle montagne che si stagliano nette all’orizzonte.
*
265 – Finalmente, di fronte all’ingresso: non resta che suonare il campanello.
Partono le note di ‘Per Elisa’, ma nessuno apre.
Secondo tentativo. Ancora pochi secondi, poi sarà fatta.
Si sentono delle voci provenire dall’interno. Magari non sentono.
Terzo tentativo. Proviamo a spingere la porta. Busso con decisione. Niente.
Quarto tentativo.
Il buonumore mi muore dentro.
Ho dei libri da donare, penso; aprite!
Quinto tentativo.
Mi sento respinto da una barriera invisibile, quando invece pensavo di venire accolto e salvato.
Non può essere chiuso proprio oggi.
Che ne sarà di tutti i poveri diseredati, degli avvelenati cronici dal capitale in cerca di un sorso di antidoto, prima dei giorni più duri dell’anno?
*
266 – Non ci resta che ripiegare verso il Default; camminare un altro po’ non potrà che farci bene; troverò M. e gli altri che di solito frequentano Sa Domu; li avviserò che probabilmente hanno dei problemi con il campanello.
Qualcuno poi, ne sono sicuro, mi accompagnerà in biblioteca e potrò donare i miei libri e magari parlare di libertà, quella con la L maiuscola, con X. e chissà chi altro.
*
267 – Conosco M. dai primi anni delle superiori: ricordo che si affacciava nella mia classe per invitarmi a gironzolare tra bagni e corridoi; una scusa come un’altra per fare due chiacchiere. Con il tempo sono diventate duecento mila, spero arrivino presto a toccare quota due miliardi.
Di lui mi fido ciecamente.
Ci incontrammo addirittura, per puro caso, a Genova, in mezzo a migliaia di persone.
Era la prima volta, si è rivelata purtroppo anche l’ultima, che parlavo con il padre.
In tutta l’immane violenza, quell’uomo riusciva a trasmettermi una calma genuina: sorrideva tranquillo, quasi a voler dire a noi giovani: “non preoccupatevi, tra poco sarà tutto finito”.
Fu un dialogo breve, piuttosto strano: eravamo ormai abituati ad abbassarci di scatto, come due orientali che si salutano in continuazione, ogni qualvolta, succedeva molto di frequente, che un blindato ci sfrecciava davanti, noncurante della folla; una reazione istintiva, provocata dal fatto che spesso dalla finestrella sul tetto si affacciava qualcuno di loro che puntava il lancia lacrimogeni ad altezza uomo.
*
268 – Il circolo è aperto. Io ho ancora quattro ore abbondanti di incantesimo da smaltire.
B. è seduto in un tavolo a lato della sala, sotto il televisore sintonizzato su una partita di pallone.
X. si avvicina a salutarlo.
Esigenze diverse.
Io punto dritto verso il bancone: la tizia che ci lavora si dedica a sferragliare a maglia, adagiata su un divano.
– C’è M., per caso? – le chiedo.
– No, mi sa che oggi è il giorno libero.
Merda. Merda. Merda.
*
269 – Durante il tragitto da Sa Domu al quartiere universitario in cui si trova il locale, gli interrogativi e i dubbi aumentano in maniera esponenziale: non riesco a capire perchè l’unico posto libero a Cagliari tenga le sue porte chiuse.
Il ticchettio del timer mi ricorda che ho una bomba incastonata dentro al cranio. L’esplosione è imminente.
*
270 – C’è una questione da chiarire. Decido il modo, i ritmi, l’intensità.
— Posso stare qui? — Dirigo il flusso verso F., il fratello maggiore di M. — In realtà, mi sarebbe piaciuto essere a Sa Domu, ci son passato poco fa ma nessuno mi ha aperto.
Spruzzo ansia e agitazione come un irrigatore da giardino. — Chiedo il permesso perchè questa in realtà è casa tua e non so se son ben accetto. Ci sono problemi se passo qualche ora qui in queste condizioni?
— Non capisco di cosa stai parlando, cerca di calmarti, cosa è successo? Tieni, bevi un bicchiere d’acqua.
Rovescio il liquido in gola, in un colpo solo, con un movimento secco.
Cosa è successo? Bella domanda.
— Niente di particolare. Ero giù in spiaggia a rilassarmi un po’, poi le cose si sono complicate. Sto cercando un riparo, ho provato a Sa Domu, ma nulla.
— Riparo da cosa? Cerca di calmarti!
Ho l’impressione che stia pensando ad un attacco dei fascisti nei miei confronti.
So bene come appaio visto da fuori: le pupille grosse come due palle da biliardo e un’eccitazione nervosa così intensa da non poter essere giustificata se non riconducendola ad una tragedia sfiorata per una questione di millimetri.
E’ inutile che stia a spiegare che in strada è pieno di zombie con il cappellino da Babbo Natale che suonano canzoni orribili con le loro trombette, tamburini e clarinetti.
*
271 – Stanislav Grof per descrivere questi momenti extra-ordinari, che possono verificarsi per mille ragioni, a prescindere dalle sostanze, utilizza magistralmente il concetto di emergenza psichica.
E’ un po’ come quando vi scappa la pipì, o ancora peggio da cagare, e andate forsennatamente in giro alla ricerca di un cesso.
Ci riprovo. La pazienza non mi manca.
— Come puoi vedere, sono un tantino….alterato?
Nello zaino ho due libri, volevo donarli alla Biblioteca Autogestita di Zarmu, a Sa Domu, ma nessuno mi ha aperto. Dunque son passato qui per sapere se si può risolvere in qualche modo….
— Ma io non ho capito: cosa è successo in spiaggia?
Niente di particolare. Ho assistito all’implosione del cosmo da un comodo posto in prima fila, ma è un dettaglio trascurabile, soprattutto perchè ho sempre la nettissima impressione che il mio interlocutore stia comunque sempre pensando ad un’aggressione da parte dei fasci, o della polizia, o chissà di cosa.
*
272 – Nella parete alle mie spalle, c’è un’infinità di libri in vendita.
Alcune settimane prima, ne avevo adocchiato uno in particolare.
Afferro ‘Il grande sacerdote’ di Timothy Leary, sperando che il sottotitolo possa aiutarmi nell’impresa ormai titanica di spiegarmi.
— Sai di che parla?
Scuote la testa. — Sinceramente no.
*
273 — LSD! — sbotto, nel frattempo che quattro ragazzette si alzano da un tavolino. Una di loro mi guarda, con un’espressione tra l’incredulo e lo sbigottito.
– Aaaaaaaaaahn! Forse ora ho capito! Tutto questo casino per niente?
*
274 – Ci riprovo. Sia benedetta la mia ostinazione.
Libri. Biblioteca. Donare. Porte chiuse.
Non è che posso inventarmi molti altri termini. Anche in preda a quella tonnellata di confusione, il punto centrale mi sembra sempre chiaro.
L’intervento di G., che seppur arrivato in ritardo prova a seguire quell’assurda discussione, è a dir poco esplosivo. — C’è una cosa che si chiama campanello.
In effetti non fa una piega.
Accalappio X., che nel frattempo prova ad invitarmi, invano, a lasciar perdere.
— Puoi gentilmente ricordarmi come si chiama la melodia che è partita quando abbiamo pigiato il bottone del citofono?
— Per Elisa — risponde pronto, come il super campione del quiz delle 19.00
F. e G. si scambiano uno sguardo.
— Io arrivo proprio da Sa Domu — dice il secondo — c’era un’assemblea, probabilmente non vi abbiamo sentito.
— Quali sono gli orari della sala lettura? — chiedo.
— Mi pare di ricordare dalle 15.00 alle 20.00
— E allora perchè io sono qui e non sono la? Posso andarci ora?
— Adesso è chiuso, non c’è più nessuno.
F. seppellisce definitivamente il discorso. — Se vuoi, i libri li posso portare io più tardi.
Mi arrendo: non è il finale che mi aspettavo per il mio film ma, come recita la nota filastrocca, ‘l’erba voglio è un’assoluta rarità anche nell’orticello dell’imperatore supremo del pianeta terra.
*
275 – Risolta la questione, posso finalmente bermi una tisana calda (si innesca un piccolo dibattito sulla natura del fruttosio presente nella bustina), salutare B. e scambiare ancora qualche interessantissima chiacchiera con F., che ringrazio per la pazienza e la disponibilità.
Comprendo dunque che Sa Domu non è un centro sociale ma uno studentato occupato in cui le persone abitano, la funzione principale è questa. Il circolo invece, lo avevo intuito, è il loro lavoro.
Ed è per questo spiego, con i primi barlumi di lucidità che inizia ad affiorare in tutto quel marasma, che avevo puntato inizialmente a stare da tutt’altra parte.
*
276 – Appurato che posso comunque rilassarmi senza problemi, si tratta di uno dei posti ‘più sicuri’ della città, anche grazie alla serietà di chi lo gestisce, do inizio ad una magnifica discussione con M., che è stato il primissimo batterista, giusto per due concerti, del mio amato, vecchio, morto, sepolto e dimenticato progetto musicale. Dalla bocca le parole sbucano come tante bolle di sapone, e a gonfiarle non mi sento io. Gli parlo delle potenzialità enormi racchiuse nell’esperienza psichedelica, degli esperimenti che mi piacerebbe sviluppare con vari artisti.
Mi promette che avrebbe realizzato un dipinto per ricordare la serata; io in cambio gli avrei dato tutto il materiale audio in mio possesso riguardante gli A., senza eccezione alcuna.
*
277 – Ormai sono quasi arrivato a destinazione. Mi scuso ripetutamente, venti, trenta volte con F e tutti gli altri, e cambio location.
*
278 – Una volta a casa sua, X. per prima cosa mette un pentolino d’acqua a scaldare sul fornello, per l’ennesima tisana della lunga giornata.
La torre di controllo trasmette le coordinate alla cabina di pilotaggio: procede tutto secondo i piani, anche se per l’atterraggio definitivo serviranno almeno altre quattro ore.
X., che nel frattempo è accorso in mio soccorso con l’autoveicolo che userò per raggiungere il mio domicilio, e X., coinquilino di X., ci aiutano a riavvolgere il nastro, evidenziando i punti principali.
*
279 – Discorsi sul metodo, pt. 2
Secondo X., al ‘Default’ ho sbagliato approccio.
Sarebbe sicuramente stato più opportuno ambientarci in tutta calma, e soltanto in un secondo momento avremmo dovuto chiamare in disparte F. ed esporli, pacatamente, tutti i nostri dubbi.
Agendo con così tanta irruenza, invece, ho irrimediabilmente corrotto la bontà del messaggio.
*
280 – Detta così, assomiglia alla critica che nei primi anni 2000 veniva mossa al cosiddetto blocco nero: gli scopi possono anche essere condivisibili, ma l’eccesso di violenza vanifica e distorce le intenzioni. Chi osserva, lo spettatore, arriva a conclusioni diametralmente opposte da quelle sperate dall’attore protagonista.
*
281 — Socrate, di cui tanto parlo, agiva con dinamiche ben diverse, prosegue X.
— Tu hai ben presente com’è morto, vero? — incalza X1.
*
282 – Non so bene, nessuno lo sa, se non in tristi casi specifici, quanti spiccioli di tempo mi rimangono in tasca da spendere ancora. Il punto è che mi sento animato da un’urgenza: porre una questione con estremo impeto aiuta ad individuare, con rapidità, chi è interessato da chi non lo è affatto, ed in questo caso specifico, ad esempio, F. appartiene senza ombra di dubbio al primo gruppo, come molti che hanno assistito alla scena.
M., invece, si è connesso immediatamente. Proprio per questo, almeno nella mia testa, la teoria del kamikaze sembra reggere: chi cade a terra viene ignorato, chi rimane in piedi e regge all’onda d’urto è un possibile alleato.
*
283 – Su una cosa X. ha piena ragione: poiché ci siamo arrivati assieme, avremmo dovuto pianificare una strategia in comune.
— La prossima volta portati appresso un trolley —, mi dirà 15 giorni più tardi, colpendo il bersaglio alla perfezione.
*
284 – Metto piede nella mia stanza alle due del mattino, dopo quattordici ore, ma il viaggio mi sembra durato quattordici anni. Ci impiego quaranta minuti a levarmi le scarpe piene di sabbia e a riprendere confidenza con quell’ambiente familiare e rassicurante, non perchè abbia particolari problemi motori, ma il tempo è ancora dilatato: mi godo ogni singolo secondo di quiete, ne assaporo l’essenza, senza fretta.
Il contatto con l’acqua calda della doccia mi fa quasi piangere: è bello ritrovarsi dentro il proprio corpo, sentire i muscoli, i nervi che mugugnano di piacere. Il pigiama asciutto, ne sono sicuro, vale più di qualsiasi abito firmato; il mio letto, nella sua semplicità, supera di gran lunga qualsiasi suite extra lusso costruita sul pianeta.
E’ come se una portentosa carica elettrica, un’energia viva e positiva, scorra in tutto il fisico. Ci sono abituato, difficilmente riesco a dormire profondamente in questi casi, ma il ‘miracolo’ si ripete puntuale la mattina dopo: mi alzo dal letto, completamente rigenerato, alle primissime luci dell’alba: non un dolore, non un singolo pensiero negativo, nessuna sensazione fastidiosa, soltanto una distesa sterminata di calma in cui planare, con moto lento e armonico. Nuovo di zecca, perfetto, completo.
Ricevo il dono dell’essenziale: giusto una spolverata alla bacheca dei miei bisogni primari.
Il quadrupede mi stampa la lingua umida sulla guancia, come ogni giorno; la sua saliva è quanto di più reale e prezioso potessi desiderare. Quanti affanni, lanciati ad inseguire ciò che ora percepisco chiaramente come l’inutile. Non è una critica al modo di fare altrui, si tratta semplicemente di una portentosa presa di coscienza sul numero esiguo di elementi che mi occorrono per stare da dio, come se avessi un bilancino di precisione per pesare l’importanza di ogni singolo evento, per estinguere ogni singolo dubbio in proposito. Scegliere non mi è mai sembrato un processo così semplice e lineare. Il giusto premio, dopo tanta fatica.
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285 – E’ una condizione che può perdurare, pressoché intatta, per diversi mesi: occorre però difenderla, non è facile, dalle nevrosi, dallo stress, dalla monotonia, dalla noia, dall’apatia, dall’insoddisfazione, dal veleno del lavoro, dalla falsità, dalle preoccupazioni futili.
E’ una cartolina spedita da un altro mondo possibile, che si consuma a contatto con lo schifo che ci accerchia e che nessuno sembra in grado di sconfiggere.
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286 – Per quanto riguarda invece le ‘sensazioni allucinate‘ provate in spiaggia, esplose con un’intensità senza precedenti, non ci sono parole adatte per descriverle.
Il fatto che si siano manifestate con connotati così scuri e negativi, a differenza del passato, può dipendere da una molteplicità di fattori: probabilmente il luogo che per cinque anni mi ha fatto da culla, sono venuto alla luce il 23 dicembre del 2011, ha esaurito tutti i suoi vantaggi.
Mi piace pensare però che il gran merito, se sono riuscito a raggiungere altezze simili, va tributato al mio socio, che seppur inesperto, ha giocato un ruolo fondamentale, mostrando una pazienza fuori dal comune nei miei confronti.
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287 – Se dovessi affidarmi ad una musica per descrivere l’esperienza marina, l’ho peraltro suonata (nel senso che l’ho riprodotta attraverso il mio impianto audio), la mattina del 24 dicembre, sceglierei senza indugi il ‘Dies Irae’ di Giuseppe Verdi, dal suo ‘Requiem’.
“Giorno dell’ira, quel giorno che dissolverà il mondo terreno in cenere come annunciato da Davide e dalla Sibilla.
Quanto terrore verrà quando il giudice giungerà a giudicare severamente ogni cosa.
La tromba diffondendo un suono mirabile tra i sepolcri del mondo spingerà tutti davanti al trono.
La Morte e la Natura si stupiranno quando risorgerà ogni creatura per rispondere al giudice.
Sarà presentato il libro scritto nel quale è contenuto tutto, dal quale si giudicherà il mondo.
E dunque quando il giudice si siederà, ogni cosa nascosta sarà svelata, niente rimarrà invendicato.
In quel momento che potrò dire io, misero, chi chiamerò a difendermi, quando a malapena il giusto potrà dirsi al sicuro? “
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288 – A X. invece, dedico queste righe, sperando di avere ancora l’onore, in un futuro prossimo, di andare dall’altra parte dello specchio assieme a lui.
“L’esperienza psichedelica secondo Alexander Shulgin
Certe regole sono osservate strettamente. Nei tre giorni precedenti non si deve essere fatto uso di alcuna droga; se qualcuno soffre di un qualche tipo di malattia, non importa quanto leggera, e specialmente se prende qualche medicina, non parteciperà all’assunzione della droga sperimentale, anche se può scegliere di essere presente durante la sessione.
Ci vediamo a casa di qualcuno del gruppo, e ognuno di noi porta da mangiare e da bere. Nella maggior parte dei casi, l’ospite è preparato ad ospitarci per la notte, e portiamo sacchi a pelo o materassi.
Ci devono essere stanze a sufficienza per permettere ad ognuno di noi di separarsi dal resto del gruppo se vuole stare da solo per un po’. Le case che usiamo hanno un giardino dove ognuno di noi può andare a passare del tempo tra le piante e l’aria fresca. Ci sono cassette musicali e libri d’arte per chiunque voglia usarle durante l’esperienza.
Vigono solo due regole. Si sa che le parole “Mani in aria” (sempre accompagnate da un’effettiva alzata di mani dell’oratore) dette prima di un qualcosa significano che qualunque cosa detta è un problema basato sulla realtà.
Se proclamo “Mani in aria” e poi dico che sento puzza di fumo, vuol dire che sono davvero preoccupato da una puzza di fumo, e non sto facendo qualche gioco o inseguendo un qualche tipo di fantasia. Questa regola è ribadita all’inizio di ogni sessione ed è strettamente osservata.
La seconda è il concetto di veto. Se qualcuno nel gruppo si sente a disagio o ansioso su una qualche proposta particolare su come dovrebbe andare la sessione, il potere di veto è completo e rispettato da tutti”.
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Aggiornamento: Ho acquistato il libro di Timothy Leary, ‘Il grande sacerdote’, in distribuzione presso l’Infoshop Sa Bardana, al circolo ‘Default‘; in un certo senso, mi ci ero affezionato.
— Voglio portarlo a casa, lo considero un cucciolo di cane rinchiuso in un canile — dico ridendo ad A.
— Sai già di che parla? — mi chiedono B. e A.
— Non proprio, ho iniziato a spulciare qualche pagina su e-book, l’introduzione di Ginsberg è davvero bellissima, ma per il resto so poco.
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Aggiornamento 2: Da quanto si apprende leggendo meglio il retro copertina, il volume contiene il resoconto di sedici viaggi psichedelici, guidati da alcuni personaggi di spicco di una delle più grandi correnti culturali e letterarie alternative americane degli anni ’60 e ’70: la beat-generation.
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Aggiornamento 3: Dedico queste righe al branco di cuccioli del collettivo Incontr’Arte, a Sa Domu, che quattro mesi dopo gli eventi qui narrati mi hanno adottato in uno dei momenti più difficili del mio cammino. Un ringraziamento particolare va a Medea, Federica, Tommy, Pueblo e Lorenzo.
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Manuale di sopravvivenza per giovani scimmie all’inferno pt.2
“Quando un uomo intraprende la via del guerriero diventa gradatamente consapevole di essersi lasciato per sempre alle spalle la vita ordinaria. Ciò significa che la realtà ordinaria non può più proteggerlo e che per sopravvivere dovrà adottare un nuovo modo di vita”.
Carlos Castaneda – Una realtà separata
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II – Il giorno dopo [A mente lucida, o quasi]
289 – Mi appresto a narrare i fatti che seguono come se si trattasse di un brutto, bruttissimo sogno. Ancora non ho la certezza di cosa sia effettivamente successo quella notte, probabilmente mi manca un tassello fondamentale per dare un senso compiuto a quest’esperienza che comunque, è questo ciò che conta in definitiva, rappresenta una vera e propria miniera di insegnamenti.
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290 – Settanta più trenta, uguale cento. In linea di massima funziona così, sempre che si parta da una situazione di partenza di zero. Ma se il sistema in cui si interviene è già profondamente alterato, e non se ne prende atto, ecco che la somma totale, aggiungendo il settanta e poi il trenta, può risultare, in maniera inaspettata, duecentoquarantatré.
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291 – X. ripete più volte: sto organizzando una cosa per stasera, spero vada tutto bene. Un antipasto particolare per incominciare la cena?
Lo annuncia la mattina, lo ribadisce il pomeriggio, alle 17.00.
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292 – Liquido che impatta su una superficie piatta.
Il sapore amaro dei giorni di festa rovinati da una brutta malattia.
Si muore dentro a stanze in penombra. Non puoi fermare il ricordo quando piroetta dispettoso, indisponente, all’indietro.
Dovresti dire al tuo ego che non è il caso che si prenda la scena.
Il caos che si espande come muffa e annulla il buon senso della scelta; l’inconscio è una brutta belva feroce, vai spiegaglielo che a giocare pesante si rischia grosso. Istinto è agire veloce.
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293 – Accuso un po’ di stanchezza, valuto addirittura l’idea di battere in ritirata, anche se è una serata che attendo da tanto.
Presentimento.
Forse, chissà, perchè no?
Qualcuno avrà riaccompagnato a casa X2?
Dovere morale, da bravo cugino maggiore.
Giusto un salto, mi dico, non faccio tardi.
La superficie piatta, lastra perfetta in marmo freddo.
Saluta i vivi con gesti sommessi. Si può morire anche nei giorni di festa.
[Tristezza].
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294 – Il parco è immerso nel bianco; nebbia lattiginosa.
X3. chiede: — E’ la prima volta che passi la Vigilia a casa tua?
[Confusione].
— Da quando sono morti i miei nonni? Forse si.
[Confusione moderata. Lievissima tristezza].
O forse no.
[Confusione moderata crescente].
E’ comunque capitato da poco: non è vietato morire nei giorni di festa.
Ed è normale se poi, in quei giorni, è come se ti manchi qualcosa.
[Tristezza. Confusione moderata].
*
295 – Mi ritorna in mente un messaggio di X4., arrivato su FB il 29 novembre del 2015 alle 7.17
“Questa è una di quelle domande illegittime, che se volessi trovare delle giustificazioni ne potrei trovare mille e nessuna, ma mi interessa proprio la tua risposta. Ma tu, nelle tue mille storie brutte (tra quelle note e quelle supposte leggendoti), con l’Alzheimer c’hai mai avuto a che fare?”
*
296 – X2 è stato riaccompagnato a casa da X5.
[Sollievo].
X. parla in maniera strana: è cortese, mi confonde, chiedendomi quasi perdono per il modo in cui si esprime.
— Son bravi tutti a lanciare frecciate.
Il resto mi sfugge. Qualcosa che c’entra con un esercito, forse.
[Confusione estrema].
*
297 – Come un cantante famoso: devi offrire a ciascuno di loro il medesimo spettacolo, pagano per questo.
Di solito, succede così:
— Come stai?
— Cerco di fare il massimo per stare al meglio.
Identica risposta ad identico input. Ma non quella notte.
Penso ad una ritirata rapida, strategica.
E’ obbligatorio morire nei giorni di festa?
*
298 — Quanto ti manca per finire i tuoi studi? — chiedo a X. alcuni giorni dopo che il suo piccolissimo piedino poggiato strategicamente contro la parte esterna del mio ha praticamente tenuto sotto scacco la mia volontà, bloccandomi sul posto e annullando sul nascere le velleità di fuga.
[Stupore. Confusione estrema. Meraviglia. Paura lieve crescente].
Io che in quel momento volevo soltanto ritirarmi in disparte ad ululare malinconico alla luna, o chissà, soltanto crollare in un rifugio lontano.
*
299 – Sento una strana, inedita ostilità evaporare dal corpo delle persone. Sensazione già vissuta. Deja-Vu.
[Disagio estremo].
Quanta luce produce una stella? Di più o di meno di una lampada alogena? Fari nel cielo.
Lucy in the sky with diamonds.
Qualcuno di voi si sente di escludere categoricamente un ritorno di effetto?
La sensazione che siano venuti a prendermi: è il momento degli ultimi saluti.
[Agitazione intensa. Paura. Estremo disagio. Sensazione di salire verso l’alto].
Va sempre bene, sino a quando sai che ci sarà una prossima volta.
*
300 – X. consegna un mazzo di chiavi a X6. Il segnale che aspettavano.
Poi X6. intima in tono serio: — Vieni con me!
Che sia uno sbirro sotto copertura?
[Paura moderata. Confusione].
X7. mi chiede: — Hai problemi ai reni? Sei sicuro? Quanti anni hai?
[Smarrimento. Confusione. Lieve paura. Agitazione].
XY., fratello di XZ., [che è un militare per davvero], mi viene incontro massiccio, con occhi spiritati e fare piuttosto serio. Non pronuncia mezza sillaba.
[Estremo disagio. Estrema paura. Sensazione di forte pericolo].
*
301 – Ore 17.00 dello stesso giorno: prima bella chiacchierata con X8.
— Ci sono solo due categorie di persone — gli dico — che si muovono nello spazio in maniera rigidamente strategica: i militari, durante le loro azioni e gli hooligans nei giorni dedicati al tifo e al pallone.
Aggiornamento: C., alcuni mesi più tardi, perfezionerà la teoria. Anche gli attori si muovono in materia strategica nello spazio. Ecco perchè ho deciso di iniziare un laboratorio teatrale con lui.
*
302 – Mi sembra mi stiano spingendo verso il fuoco acceso dentro ad un braciere improvvisato in lamiera, sospeso a mezza altezza.
[Senso di pericolo. Paura. Agitazione estrema].
X7. chiede a X6. mentre barcolla vistosamente: — Tu cadi in piedi?
— Io cado sempre in piedi — risponde X6.
[Smarrimento. Confusione. Disagio. Senso di pericolo lieve].
*
303 – X8., X9. e X10. mi chiedono: — Come stai?
— Un po’ così — replico io, spiazzandomi un po’.
[Tristezza].
*
304 – Prendete un disco, scavateci un solco profondo con una punta ben affilata: è necessario, e ribadisco, necessario, soprattutto se si opera su un sistema di un terzo e non sul vostro, far sedimentare la traccia e non sovrapporne subito un’altra. Il lettore potrebbe confonderle, incepparsi o, peggio ancora, rompersi.
*
305 – X11., che ha passato l’autunno in un paese straniero, si avvicina a salutare. Ma più che una manifestazione di gioia sembra un abbraccio nel giorno del lutto.
[Tristezza. Smarrimento. Confusione. Malinconia].
*
306 – Arriva anche X12, sbuca dalle mie spalle, silenzioso come un gatto.
— Hai visto che nebbia stanotte? Come stai?
— Un po’ così….
[Smarrimento. Confusione. Agitazione. Tristezza. Sensazione lieve di pericolo].
*
307 – Quando ti manca qualcosa, diventi vulnerabile. Se il nemico se ne accorge, può colpirti a morte.
Forse ho fatto la scelta sbagliata.
[Disagio. Fastidio. Sensazione elevata di pericolo. Paura moderata. Agitazione].
*
308 – Frammenti di conversazioni da altre dimensioni.
Perdere peso velocemente. Benzodiazepine. Teorie per spiegare il complicato rapporto tra un mutuo e la ristrutturazione di una casa.
[Confusione. Smarrimento. Disagio. Lieve sensazione di pericolo].
*
309 – Se fosse per me, sarei già a casa a dormire da un pezzo. Ma sembra non sia una possibilità contemplata.
Se solo ci fosse anche e solo un cane con me, sarebbe tutto diverso.
*
310 – X. si infila manciate di fonzies in bocca. Mi guarda come se dovessi dire per forza qualcosa, da un momento all’altro.
— Tu non ne vuoi, vero?
Scuoto la testa. Proprio no.
[Smarrimento. Confusione. Stanchezza diffusa fisica e mentale].
*
311 – In vita mia, avrò parlato con X13 tre, massimo quattro volte.
— Stai suonando?
— Non più…
— Smesso? Come mai?
— Era arrivato il momento…
— Ma adesso hai un nuovo progetto? Stai scrivendo qualcosa? Devi continuare?
Cosa risponderebbe G. M a quest’ultima affermazione?
— A dio piacendo…
Noto che X13. lancia un’occhiata a X.
— Non si può andare avanti così! — esclama.
E’ quello che penso anche io.
[Smarrimento. Confusione lieve].
*
312 – Il momento è arrivato: sembra che io debba partire per sempre.
Un unico rammarico: non ho diritto ad un ultimo saluto?
[Tristezza. Angoscia. Disperazione].
*
313 – La scimmia ha sviluppato un istinto tutto suo…
…individua quello che gli sembra l’anello debole della catena.
— Vieni a farti due passi con me? — chiedo a X fissandola negli occhi.
L’ultima carta.
Attimi eterni di attesa: spiragli.
[Smarrimento. Confusione. Angoscia. Senso elevato di paura e pericolo].
*
314 – Del resto, ripeto, si tratta dell’ultimo desiderio di un condannato a morte.
Questa volta non scherzo: son pronto a rinunciare a tutto, prendetemi quello che volete.
[Angoscia. Disperazione. Lieve paura e senso di pericolo].
*
315 – Ci dirigiamo verso la macchina: siamo io, X. e X8.
Siedo nel posto riservato al conducente.
Cosa vuoi fare di preciso? Mi chiede qualcuno dei due.
Niente di particolare: sognare soltanto di dormire sereno, visto che non posso più arrivare a domattina.
[Angoscia. Tristezza]
*
316 – La macchina si riempie di urla.
[Angoscia. Alti livelli di paura e senso del pericolo]
— Volevi il diavolo? Te l’ho portato! — dice X.
Ormai è chiaro. Ho le ore contate in questa realtà.
[Angoscia. Paura]
*
317 – Una scimmia all’inferno deve imparare ad isolarsi dall’influenza dei demoni.
Ripeto la lista dei cinque attributi del guerriero, secondo gli insegnamenti di Don Juan trasmessi a Castaneda: Controllo, Disciplina, Equilibrio, Intento, Tempismo.
Un mantra nella mia testa.
Altre grida. Io parlo poco, giusto lo stretto necessario.
*
318 – X8. guida la macchina in maniera brusca: esce dal paese, affronta la rotonda e poi procede a velocità sostenuta verso il parco.
[Grande paura. Altissimo senso del pericolo].
*
319 – X. e X8. scendono dalla macchina.
X8. chiede: — E ora che farai?
— Niente di particolare, torno a casa e aspetto che la realtà si disintegri, blocco dopo blocco dopo blocco.
[Angoscia. Tristezza. Disperazione].
*
320 – Una macchina mi segue.
Ora mi buttano fuori strada.
[Angoscia. Tristezza. Alto senso del pericolo].
Nebbia, e un muro di paranoie.
Mi sorpassa. Procede oltre.
[Senso lieve di conforto].
*
321 – Gocce di sollievo nell’ampolla dell’angoscia. Per lo meno, ora sono solo.
I sette chilometri più lunghi di sempre: la mia vita potrebbe finire da un momento all’altro, e comunque ho perso irrimediabilmente il contatto con la dimensione in cui son cresciuto sino ad ora. Niente sarà più lo stesso.
Nella grande piazza del paese, in molti festeggiano ancora, ridono e scherzano, baciati dalla luna piena.
Di nuovo a casa.
Infilo una mano dentro la cuccia di Cartesio, per assicurarmi che ci sia ancora; magari la realtà ha già iniziato a disintegrarsi, partendo proprio dal quadrupede.
Un ringhio sommesso, orribile, come se non riconoscesse il mio odore.
Quante volte è accaduta una cosa simile?
[Grande smarrimento e confusione. Lieve senso di disagio. Lieve senso di paura. Tristezza profonda].
*
322 – Non riesco a smettere di tremare: dal freddo, e poi chissà per quale altra strana causa.
Mi vesto pesante, come se dovessi uscire in strada: una felpa grossa con cappuccio, i pantaloni della canadese.
Vado a specchiarmi: per un attimo ho il terrore di vedere la faccia di un me stesso vecchissimo e spaventato.
L’immagine riflessa è sempre la stessa: ci passo la mano sopra, piano, quasi temendo di distruggerla.
Scappo sotto le coperte: mancano tre ore, poi la luce dell’alba squarcerà i misteri di una notte incomprensibile.
*
323 – Dormire è impossibile, ricostruire i fatti lo è altrettanto, oltre che doloroso.
Mi ritrovo dentro al labirinto nella cattedrale di Chartres de la Dame.
Quando ti sembra di procedere verso il centro, la strada prende una brusca deviazione e ti allontana dalla meta.
Quando tutto sembra perduto, la via si apre improvvisamente verso il centro, che torna ad essere incredibilmente vicino.
*
324 – Ho sempre agito in buona fede: allora perché tutte queste macerie?
[Forte angoscia. Forte disperazione].
*
325 – Spunta il sole, i primi raggi di luce illuminano la stanza. C’è un’altra giornata da vivere anche per me.
Il quadrupede scodinzola, pregusta la sua passeggiata mattutina quotidiana.
Riparto da li. Prima certezza.
Considerando quanto è successo, non è un dettaglio da poco. Sufficiente per essere quasi felice.
*
326 – Al mio ritorno, un libro mi salta quasi tra le mani, dallo spazietto destinato ai non ancora letti.
‘L’iniziazione‘ di Rudolph Steiner.
*
327 – Cosa ho imparato: ogni singolo pensiero pesa quanto un macigno nell’economia generale della mia vita. Prendere consapevolezza che ogni singolo secondo vale quanto l’eternità.
E’ ancora tanto il cammino da fare, ma di fronte a me ora distinguo nitidamente un mostro dalle tre teste, le tre ‘P’: paura, paranoie inutili, permalosità.
*
328 – Sopravvivere ad un agguato, reale, presunto, immaginario, arricchisce incredibilmente il bagaglio esperienziale; nell’eventualità di ritrovarsi in una situazione analoga, le risposte saranno necessariamente diverse, perché influenzate dal caso precedente e da tutte le ricerche e gli esercizi condotti nel frattempo.
*
Aggiornamento: Parte di quanto descritto in queste righe si è verificato nuovamente, con puntualità, il 24 aprile del 2016. In quella serata, magica e terribile allo steso tempo, ho avuto modo di capire, tra l’altro, che devo purificare i miei intenti, alleggerire il cuore e la mente, se voglio continuare ad inoltrarmi in questi sentieri sconosciuti. Con maggiore cautela e, soprattutto, umiltà.
Cosa ancora più importante, devo valutare meglio, con cura ed estrema attenzione, il teatro in cui mando in scena le mie esperienze.
Rimangono, è normale, fa parte della nostra esistenza su questa terra, moltissimi aspetti che non riesco a decifrare; cercherò di avvicinarmi, con estrema modestia, alle zone d’ombra che di tanto in tanto affiorano nel mio cammino, non per tuffarmici dentro, ma per contemplarne, a debita distanza, con profondo rispetto, la natura misteriosa e spesso incomprensibile.
***
329 – Ci incontriamo per caso, di fronte al bar, all’ombra di un loggiato, al riparo dal sole caldo di agosto, tra le viuzze di Ruinas.
M. P. vaga per il paese con la sua macchina fotografica, a caccia di volti interessanti; mi chiede il permesso di fare qualche scatto ed immortalare il mio viso; accetto, ma in cambio riesco a barattare la possibilità di fargli giusto tre domande.
Ci diamo appuntamento per il tardo pomeriggio, al tramonto, nella piazza in cui da sempre va in scena il Meeting Artes et Sonos.
Di fronte a me, un perfetto sconosciuto: non so nulla di lui, tanto che per un attimo temo che l’esperimento possa fallire.
Come prima cosa gli chiedo quale è stato l’avvenimento più eclatante a cui ha assistito.
— I festeggiamenti per lo scudetto del Cagliari — risponde sicuro — non ho mai visto tanto entusiasmo, tanta follia serpeggiare tra la gente. Ricordo le persone stipate dentro le automobili, sopra i tettucci, arrampicate sulla statua di Carlo Alberto. Grida di gioia, clacson, bandiere dappertutto. Una bolgia.
*
330 – La consulenza fornitami da S. è tra le più preziose che mi sia stata offerta da quando ho incominciato con questo gioco: sfruttando le sue conoscenze in ambito antropologico, ho chiesto se poteva indicarmi un percorso bibliografico per approfondire i significati relativi alla festa: origini, sviluppi, caratteristiche. Una ricerca a cui mi dedicherò nell’immediato.
È curioso notare come certi riti, certe manifestazioni che in passato ricoprivano un ruolo essenziale, sia a livello comunitario sia per quanto riguarda il rapporto dell’individuo con la natura ed il cosmo, siano stati progressivamente svuotati nei contenuti ed impoveriti e banalizzati nella forma, per venire sostituiti con pratiche decisamente controverse: non c’è niente di strano dunque se migliaia di uomini si riversano in strada, ebbri di gioia, per celebrare la vittoria di un simpatico motociclista o di una squadra di calcio o di una quattro ruote rosso fiammante, mentre l’attenzione riservata al susseguirsi ciclico delle stagioni, ad esempio, viene relegato nell’angolo buio delle inutili superstizioni pagane.
*
331 – Gli occhi di M. si caricano di un bagliore elettrico: rivive le scene che racconta, prodigio della memoria, con l’euforia genuina di un fanciullo che scopre i primi segreti magici del mondo.
Gli chiedo se ha figli: le pupille si incendiano ulteriormente.
— Uno, ora è in Francia, dove lavora. Sono molto felice per lui, anche se ci vediamo poco: ha trovato la sua strada, mi fa piacere si sia realizzato: è diventato uno chef apprezzatissimo.
Già. Dev’essere proprio bello, penso, risolvere il proprio rebus e trovare il posto perfetto in questo grande gioco di società.
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332 – L’ultima domanda mi viene spontanea: — Ti ha mai deluso?
— Purtroppo sì, quando è stato bocciato a scuola: mi sono incazzato come una bestia, soprattutto perché possiede grandi qualità, ma non ne ha mai avuto voglia.
Scopro infine che M. si è laureato in Filosofia presso la facoltà di Cagliari; mi chiede informazioni su alcuni docenti, la maggior parte sono ormai in pensione, ma i superstiti non mancano.
Anche lui, racconta di sua spontanea volontà, ha fatto l’insegnante per diversi anni, prima di cambiare mestiere, schifato dall’ambiente, dai colleghi, dal sistema nel suo complesso.
Prima di salutarmi, si informa sui miei interessi. Gli passo un bigliettino da visita, lo legge, mi guarda e conclude.
— Foocault is dead…Vero, è un peccato che sia morto così presto.
*
333 – È la medesima conclusione a cui arrivo anche io il 2 gennaio 2014, mentre aspetto pazientemente che il tramonto maturi, sdraiato di fronte a quello che, con gli anni, è diventato il mio ufficio.
Una bruttissima alluvione si è abbattuta sull’isola nel mese di novembre, scombussolando la vita delle persone. Anche il calendario del campionato di calcio dilettantistico regionale, ovviamente, ha subito delle modifiche, così sono costretto a posticipare di alcuni giorni il mio appuntamento fisso annuale.
*
334 – Chissà dove si sarebbe spinta la sua analisi, cosa ne avrebbe pensato delle nuove degenerazioni, delle forme sempre più perfette di controllo e dominio.
Spetta ai suoi seguaci, a coloro che sono arrivati dopo, mantenere attivo il suo pensiero, riutilizzarlo, svilupparlo ulteriormente.
Chissà, mi domando durante le prime ore del 24 dicembre 2013, come avrebbe interpretato un fenomeno complesso come Facebook, così simile al Panopticon, tanto da sembrare una diretta conseguenza di una delle colonne portanti della sua intera ricerca.
Il terzo mondo delle idee è un terreno di conquista, un continente inesplorato; il primo che mette piede su una zolla vergine ci piazza sopra la sua bandierina, come gli americani sulla luna, e ne prende il possesso.
Lo stupore è relativo, svanisce in un istante, quando scopro, digitando Panopticon + Facebook sul motore di ricerca più famoso del globo, decine di articoli che trattano l’argomento.
Salvo tutti i link in un documento e mi riprometto di riprendere in mano il materiale appena possibile: credo sia una questione interessante, non la sola comunque, che merita di essere portata a spasso in giro per strade, piazze, negozi, case e bar.
Del resto, ne sono sicuro, se non siamo artefici di un pensiero forte e originale, possiamo comunque essere distributori materiali al dettaglio. Tradurre e rendere le nozioni facilmente accessibili, fomentare la discussione e il confronto critico e, perché no, sarebbe un sogno, formare un branco e passare all’azione diretta.
Io posso, anzi devo, necessariamente partire dai miei interessi, combinarli fra di loro, continuare a cercare, studiare, pensare, scrivere e pubblicare (nel senso di rendere pubblico): ora so che è quello che voglio fare della mia vita, di quella piccola fettina che si salva, a malapena e chissà per quanto tempo ancora, dalla triste agonia della schiavitù.
*
335 – Nove volte su dieci, puoi scommetterci tranquillamente, arrivi in ritardo: tra i sette miliardi di poveri dannati che operano nel pianeta terra, qualcuno aveva già pensato di intitolare il suo blog Foucault is dead.
— Cosa farebbe un rapper al mio posto? — domando a P., che mi aiuta a sviluppare il piccolo barattolino in cui sarebbero finite tutte le pillole relative alla mia vita precedente. — Semplice — mi rispondo da solo — giocherebbe con le lettere, con i suoni.
È così che Foucault si trasforma in Foocault.
Dal caso può straripare un regalo inaspettato. È proprio P. a chiudere il circuito:
— Foo è un termine usato in informatica, se non sbaglio indica l’indefinito.
Mi sembra perfetto, una combinazione magica, proprio quello che stavo cercando.
*
336 – Foo: è un termine inglese usato in informatica per un’entità alla quale non sono attribuibili precise definizioni.
Foo è una variabile metasintattica usata per rappresentare i concetti tramite astrazione e può essere usata per rappresentare una parte qualsiasi di un sistema complicato o anche semplicemente per dare un nome a un dato, una variabile, una funzione, un comando. La parola è usata negli esempi di programmazione e pseudocodice, così come le lettere X e Y sono usate in algebra.
Un altro uso del termine, nell’esercito britannico, è dato dall’abbreviazione di Forward observation officer (punta d’osservazione). I foos erano infatti coloro che precedevano le truppe in battaglia, setacciando il terreno alla ricerca di pericoli e segnalandoli all’esercito che li seguiva, mediante incisioni o segnali dove compariva la scritta Foo was here.
*
337 – Ripeto: chi mi conosce personalmente sa piuttosto bene quanto impegno ed intensità, sforzi e sacrifici, ho buttato sopra ai miei progetti passati.
Ora ho la possibilità di concentrarmi su questa nuova creatura: non faccio altro che pensare a lei, notte e giorno, che dolce ossessione in cui perdermi.
Male che vada, concludo in autonomia, ne uscirà fuori un romanzo grottesco di fantascienza; oppure, chissà, la cronaca dettagliata del crollo del castello malandato della mia razionalità buttato giù a colpi di cannone dalle truppe spietate comandate da Generale Delirio.
In tutti gli esperimenti precedenti ho sempre lavorato assieme ad altre persone, limite ma allo stesso tempo risorsa: da una parte la tua libertà d’azione deve tenere conto delle esigenze altrui, dall’altra puoi contare sull’incoraggiamento reciproco, si auto alimenta, che arriva dagli altri partecipanti del progetto.
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338 – Grazie a Foocault sono riuscito a liberarmi, spero definitivamente, dal peso di alcune gravose vicende. Mi sono affezionato così tanto a quel nome che ho deciso di associarlo al mio preconscio: è lui infatti che si esprime con la scrittura; è lui che divide con il mio ego (la parte cosciente) questi sessanta chili. È lui che utilizza la lingua per comunicare quando altero la mia coscienza ordinaria.
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339 – Ho scelto di leggere l’Albero Filosofico di Carl Gustav Jung attratto semplicemente dal titolo, senza sapere quali fossero le tematiche principali trattate nel volume.
Con mia grandissima sorpresa, nella seconda parte trovo un ampio riferimento alla tradizione sciamanica, a partire da quella, antichissima, siberiana.
“L’albero capovolto ha grande importanza presso gli sciamani della Siberia orientale. Kagarow ha pubblicato la fotografia di uno di questi alberi, chiamati nakassa. Le radici rappresentano i capelli, e nel tronco, vicino alle radici, è inciso un volto a significare che l’albero raffigura in realtà un uomo. Presumibilmente si tratta dello sciamano stesso o della sua più compiuta personalità. Com’è noto, egli risale l’albero magico per giungere in cielo, ossia nel mondo superiore, ove si congiunge con il suo vero Sé”.
Carl Gustav Jung – L’albero filosofico
Un altro punto che continua ad incuriosirmi è il seguente: alcune teorie e pratiche alchemiche, secondo Jung, rientrano in un sistema più ampio di tentativi per portare alla luce e far sbocciare le zone più oscure e profonde della totalità psichica.
“La pietra (filosofale ndr) è in realtà causa di grande imbarazzo per l’alchimia: non è mai stata prodotta, nessuno dunque sapeva dire cosa essa fosse in verità. L’ipotesi che a me pare la più verosimile è che essa sia un’«esperienza psichica», ecco il perché della paura, più volte espressa, di turbamenti spirituali”.
Carl Gustav Jung – L’albero filosofico
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340 – Dal mio piccolo taccuino degli appunti:
Foo(cault) è uno squat, un palazzo con tante persone dentro. Per ognuna di loro, mille pensieri diversi al giorno. È un’altra parte di me, mi ha tirato via dai casini diverse volte ormai.
Dottor Jung dice che non devo assolutamente provare a dominarla, è inutile e controproducente, potrei farmi molto male. Posso cercare di amministrarla, gestirla (al meglio), aiutarla a trovare il suo spazietto. Non sono sicuro di aver capito bene, ed è per questo che quando fiuto la presenza di uno psicologo ne approfitto per indagare meglio la questione, con scarsi risultati a dire il vero.
Foo(cault) ha un suo modo di rapportarsi agli altri, talvolta più aggressivo del me stesso ordinario, molto spesso più gentile ed affettuoso. Ha un suo modo di divertirsi, ha dei gusti particolari, delle tendenze, delle pulsioni.
Tra i due, è sicuramente quello più sfrontato e coraggioso, ormai l’ho capito. Il me stesso ordinario, fifone ed indeciso, viene messo all’angolo.
I guai, i malintesi, i contrattempi iniziano proprio quando quest’ultimo fugge via e cerca di prendere in mano le redini del gioco anche se non spetta a lui, perché, semplicemente, non è il suo turno.
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341 - Se dovessi arrangiarmi con un esempio, tirerei in ballo Fight Club di Palahniuk: Tyler Durden, l’alter ego, impersonato nel famoso film da Brad Pitt, usciva allo scoperto quando l’altro dormiva. Nel mio caso, a Fooky, così l’ho ribattezzato amichevolmente, basta una piccolissima, impercettibile modificazione chimica.
Probabilmente in precedenza il suo spazio era limitato alla musica, e dunque, in pubblico, soltanto al concerto. Ora invece è libero di muoversi a suo piacimento tra di voi.
— Questo tuo dualismo alla lunga mi inquieta — mi ha confessato E. durante una piacevolissima passeggiata pomeridiana.
È come in Fight Club: il tizio strano semina casini, in ogni dove; la mattina dopo ti svegli con un sacco di inghippi per la testa, più di quanti sei in grado di gestirne, e non riesci a comprendere come sia potuto succedere. Molte volte, fortunatamente, non è accaduto proprio nulla di brutto.
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342 – In questo mondo, di tanto in tanto, accadono avvenimenti clamorosi, quasi dei miracoli, se consideriamo le metastasi di piattume che macchiano il posto in cui viviamo.
In Italia, ad esempio, c’è stata l’esplosione dell’estro immenso di Leonardo da Vinci, che nel corso della sua esistenza (circa una settantina di anni, da quanto riportano gli storici), ha pescato fuori dal cilindro del terzo mondo delle idee una quantità esagerata, per gli standard normali, di genialate.
Un fenomeno che mi ha sempre affascinato, con le debite proporzioni rispetto al caso succitato, è quello legato a Luther Blissett, uno pseudonimo utilizzato da un collettivo estremamente variegato che interveniva sul reale attraverso scritti, pubblicazioni di varia natura, video, performance teatrali ed i cosiddetti sabotaggi culturali, con l’intento di svelare e ostacolare i meccanismi subdoli della macchina dell’informazione e dell’intrattenimento di massa.
Le prime tracce apparvero a metà dei ’90 a Bologna: il progetto rimase in piedi per cinque anni, trovando la sua giusta conclusione con un suicidio programmato e condiviso dagli attori protagonisti, sparsi anche in altre grandi città d’Europa.
Il loro sepuku, così lo definirono coloro che poi si trasformarono nel collettivo Wu-Ming, si è verificato poco prima dalla definitiva invasione dei social-media: rimane la curiosità per quello che avrebbero potuto realizzare in un contesto tecnologica come il nostro.
Il secondo è quello relativo a Jack Folla, il DJ detenuto ad Alcatraz dipinto dalla fantasia di Diego Cugia, che per un discreto periodo trasmetteva le sue considerazioni in radio, per poi trasferirle su carta.
Mi ha sempre stupito l’ultima parte del programma, dedicata alle telefonate dei suoi ascoltatori, registrate dalla segreteria telefonica: voci emozionate di persone veramente colpite dalle sue parole; apprezzavano il nichilismo disincantato con cui guardava fuori dalla finestra della sua cella, per la determinazione e il coraggio che infondeva nell’ascoltatore, chiamato a dare un calcione, una netta sterzata alla propria esistenza.
Gli Albratros, era questo il nome di quel gruppo di sognatori, organizzarono anche un raduno, a Roma: una sorta di terapia catartica emozionale collettiva.
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343 – Ci sono poi gli esempi da seguire: persone che ce l’hanno fatta, sfondando il recinto e lanciandosi al galoppo, mostrando a tutti che colpire il centro del bersaglio è possibile.
Uno di questi è Daniele Rielli, aka Quit the Doner, uno scrittore (blogger e giornalista), che andava in giro a caccia di cose interessanti da descrivere e raccontare agli altri (reportage narrativo, lo definiscono alcuni), anche per conto di testate importanti come Il Venerdì di Repubblica.
Anche lui, si legge nella sua bio, ha subito la tortura degli studi filosofici; da circa un annetto è uscito il suo primo romanzo, un bel traguardo.
Gli ho pure mandando una mail e un messaggio su FB per complimentarmi con lui, ma non mi ha mai risposto.
Il secondo è Uriel Fanelli (il nome, a quanto pare, è preso da un racconto di fantascienza scritto dallo stesso) che nel suo blog trattava gli argomenti più disparati (politica, economia, cultura in generale, società, religione, ecc) a cadenza quotidiana.
Ha creato una grossissima comunità di interessati, attivi, alle sue considerazioni, ma da quanto ho capito (muovevo i primi passi con Foocault quando mi sono imbattuto, per caso, in uno degli artefici della sua disfatta) è stato azzannato a morte da un branco di (giovani?) accademici che ne hanno smontato le argomentazioni e svelato la vera identità, rompendo il giocattolo.
Il sito internet è chiuso e il progetto sospeso in maniera, sembra, definitiva.
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344 – Il 20 marzo del 2015, giorno in cui spushero il secondo blister, racconto tra l’altro del talento nel disegno del mio giovane compagno delle scuole elementari; con mio grande stupore, tra le celle di Facebook nasce una bella discussione, almeno per quanto mi riguarda, che coinvolge altri tre utenti, e naufraga piacevolmente sino ad approdare alla questione dell’effettiva efficacia del sistema scolastico italiano.
Alle 16.09, S. pubblica un commento in cui afferma che “è poco fascinoso parlare di scuola in questi termini e in questo luogo”.
Io sono invece convintissimo del contrario, anzi, se posso vado oltre: mi capita spesso di scambiare quattro chiacchiere in proposito, è uno dei miei argomenti di conversazione preferiti, e raccogliere, nelle situazioni più disparate, le testimonianze dirette delle persone a proposito della loro esperienza con l’istruzione di massa.
Le più interessanti e genuine appartengono a coloro che sono ancora invischiati nel processo; vivono il fenomeno quotidianamente, si godono in diretta i vantaggi e gli svantaggi. Giudicano diversamente la cosa, è ovvio, rispetto a coloro che ne sono usciti, magari già da diverso tempo.
Questi ultimi si dividono, fondamentalmente, in due grandi gruppi: da una parte troviamo chi si è dimenticato delle vele, della noia, dei contrasti con compagni e docenti e difende a spada tratta il sistema, dall’alto di una solida maturità germogliata anche grazie ai tredici anni, se non di più, passati con la schiena curva sopra un banco in legno ed una sedia scomoda; una tappa essenziale, giurano, della loro formazione. [E’ curioso come molti usino gli stessi toni per il servizio militare obbligatorio nell’esercito].
Dall’altra c’è invece chi è capace di riportare a galla sozzure e contraddizioni in maniera anche profondamente critica e lucida, con enfasi e trasporto esemplari.
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345 – Il video è decisamente vecchio: le immagini, in bassa qualità, almeno per gli standard a cui è abituato il nostro occhio dopo la grande rivoluzione digitale, documentano un confronto pubblico tenutosi all’interno di una sala gremita di persone con abiti e acconciature improbabili.
[In quarant’anni il nostro senso estetico ha fatto passi da gigante].
Seduto al centro, tra Michel Foucault e Noam Chomsky, c’è il moderatore.
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346 – Secondo l’americano, una società più giusta, equa, vivibile, può scaturire soltanto attraverso una trasformazione del lavoro, che deve tornare ad essere una pratica creativa, fertile, stimolante; gli individui smetterebbero di essere una semplice rotellina del grande ingranaggio sociale, politico ed economico per tornare ad essere gli attori protagonisti delle loro storie; in questo modo si favorirebbe il passaggio a forme associative e decisionali spontanee e orizzontali in linea, ecco il secondo punto, con il modello tipico dell’anarco-sindacalismo.
Il francese invece ha una visione diversa: “Il mio approccio è molto più limitato. Va molto meno lontano di quello di mister Chomsky. Nel senso che non sono in grado di definire, menchemeno di proporre, un modello sociale ideale per la nostra società scientifica o tecnologica.
D’altra parte c’è un compito che mi pare urgente, immediato e prioritario: abbiamo l’abitudine, almeno nelle nostre società europee di pensare che il potere sia localizzato nelle mani del governo e che si eserciti attraverso particolari istituzioni: l’amministrazione locale, la polizia, l’esercito. Istituzioni che sembrano fatte per trasmettere gli ordini, farli rispettare e punire chi non obbedisce.
Ma io penso che il potere politico si eserciti anche e soprattutto tramite alcune istituzioni che sembrano di non avere nulla a che fare con il potere politico, che dovrebbero essere indipendenti e che in realtà non lo sono. Sappiamo bene che l’università e in generale tutto il sistema scolastico, in apparenza fatto per distribuire il sapere, è fatto per mantenere al potere una certa classe sociale, e per escludere dagli strumenti del potere tutte le altre classi.
La psichiatria, che in apparenza è destinata al bene dell’umanità e alla conoscenza degli psichiatri, è essa stessa un modo per imporre un potere politico su un gruppo sociale. Così come la giustizia.
Mi sembra che l’obbiettivo politico in una società come la nostra, sia di criticare il ruolo delle istituzioni apparentemente neutre e indipendenti; di criticarle, di attaccarle al punto che la violenza politica che si esercita oscuramente in esse emerga e di conseguenza possa essere combattuta”.
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347 – Chi di voi ha avuto la sensazione, anche solo per un secondo, di essere accerchiato da masse immense di deficienti? Non vi spiegate come sia possibile che quel rapper tontolone venda così tanti dischi (anche se in realtà la risposta ce l’avete: lui e i suoi fan, che poi sono i vostri figli, i vostri fratellini, i vostri cuginetti, sono tutti scemi); non capite come Berlusconi abbia raggirato [e forse continua a farlo] milioni di vostri connazionali per venti anni; non accettate il fatto che di fronte ad una scelta il popolo si butti puntualmente dalla parte sbagliata, ovvero nella soluzione che avvantaggia il potere; non vi spiegate come sia possibile così tanta arretratezza culturale e tecnologica; appassite nel risentimento, nel frattempo brucate erba amara in un paese che merita di sprofondare per sempre nel buio silenzioso degli abissi, tanto è grande il carico di inutilità e inconsapevolezza che si porta appresso.
A me sembra quasi di vederli: grossissimi sederi che spurgano merda in continuazione.
Osservate increduli la fauna stipata nella Punto bianca che vi è appena sfrecciata affianco: dentro ci sono quattro ventenni che giocano a far finta di essere Cristiano Ronaldo e ballano il reggaeton, con la testa (beati loro, direbbe qualcuno) leggera, leggera, leggera.
Da dove sono sbucati? Dal tubo catodico?
Dove sono andati a finire i grandi insegnamenti etico-morali con cui è farcita l’Eneide, che avete sapientemente diluito in sessantaquattro ore annuali? Dove è finita tutta la conoscenza che avete sistemato, voi o qualcuno al vostro posto, come dei bravissimi giocatori di tetris, in quei piccoli magazzini?
— La colpa è delle famiglie! — urlano sdegnati gli educatori, come se il fatto che un giovane trascorra in media 10 ore (quasi la metà di una giornata), tra viaggio verso la scuola, lezioni e compiti (per chi ci casca) si trattasse di un dettaglio.
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348 – 25/09/2015
E’ il venerdì dedicato ai festeggiamenti in onore di S. G.
R. sta in silenzio, nel tavolo dei grandi: si guarda intorno smarrito come un anatroccolo finito per sbaglio tra gli scaffali di un centro commerciale; non partecipa ai discorsi, sbatacchia timidamente la sua noia sopra lo schermo dell’I-Phone.
Io son seduto poco distante, da solo: mi godo il rosso fuoco del tramonto che fa da sottofondo al lento passeggiare di bambini, uomini, donne, famiglie, in slalom tra bancarelle di dolciumi e giostrine meccaniche.
Mi aggancio ad un trenino di conoscenti che si insedia da quelle parti; c’è un posto libero, proprio alla sua sinistra.
Il pilota automatico è inserito già da una mezz’ora buona: Fooky sfonda la porta (aperta) con pratica ampiamente collaudata. — Posso chiederti una cosa? Ti è mai capitato di odiare a morte un tuo professore?
R. sorride come un venditore di ombrelli a pochi secondi dallo scoppio di un temporale; la faccia di chi non vede l’ora di svuotare il sacco.
— Ti sembra una cosa normale? — aggiungo.
Scuote la testa con forza, a destra e a sinistra.
La sorella, seduta affianco a lui, intercetta il mio input: — Quattro anni in prima superiore — accompagna l’affermazione mostrando le dita della mano aperta, pollice escluso.
— Raccontami per filo e per segno cosa è successo — lo incoraggio, prima di venire letteralmente inondato da quel flusso di ricordi.
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349 – Vestite la vostra tenera fanciullina di tutto punto: grembiulino e fiocco; cartella sulle spalle, con dentro la merenda; l’astuccio dei colori: penne, matite, gomme per cancellare.
Visto che ci siete datele pure un bacio sulla fronte da parte mia, come si farebbe con i soldati che partono per la guerra.
I primi giorni farà un po’ di capricci, conditi da qualche lacrima, magari un mezzo pianto isterico.
Ma passa tutto, nessuno è mai morto del resto, anzi, ammiriamo come siamo venuti su bene.
Toglietemi però una curiosità: avete idea del pasticcio (potenziale) in cui state inzuppando quell’esserino meschino?
R. narra, con la maestria del grande oratore, storie di ordinaria follia consumate tra quei banchi e quelle quattro pareti: branchi, orde di selvaggi in perenne agitazione, che accendono focolai di caos con ogni mezzo possibile e immaginabile, di fronte allo sguardo impotente di un missionario finito per sbaglio nelle mutande di Lucifero.
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350 – Il primo anno, racconta, era impossibile seguire le lezioni, anche volendo; ha un menù assortito di aneddoti dettagliati: ragazzetti che infilano altri ragazzetti dentro l’armadio, professori totalmente ignorati, scherzi e trabocchetti di ogni tipo; più che cinque ore di lezione, una royal rumble.
Il secondo segue lo stesso copione: difficile rimanere serio, composto e attento quando i tuoi compagni si nascondono (!!!) dietro (!!!) ai giubbotti appesi all’attaccapanni fissato contro il muro.
— Mi hanno bocciato anche per colpa mia — ammette — ma i professori di sicuro non ci aiutavano.
Si verificano i primi contrasti con il preside, che nel tentativo di ripristinare l’ordine esercita in maniera sconsiderata potere e autorità, contribuendo ad aggravare la situazione, irrigidendo ulteriormente le parti in questione.
Anche i docenti si lasciano sedurre dal clima di totale disfacimento, perdono stimoli ed interesse a svolgere nel migliore dei modi il compito per cui sono pagati. E’ tanta l’incredulità da parte mia quando mi riporta di una giovane insegnante che sfrutta l’ora di lezione per battere il record realizzato dagli amici in un giochino sul telefono, chiedendo aiuto ai suoi allievi mancini, particolarmente abili a premere velocemente il bottone sinistro.
Per il terzo anno, R. tenta la carta del cambio di istituto, ma la giocata non sortisce gli effetti sperati: ci sono delle materie che, malgrado gli sforzi, proprio non riesce a comprendere; la didattica purtroppo non prevedere grosse deviazioni rispetto alla linea principale, così chi non galleggia rispettando gli standard affonda senza possibilità alcuna di salvezza.
Il quarto sembra, finalmente, quello giusto: i voti non sono ottimi, ma orbitano grossomodo attorno alla sufficienza, ad esclusione di due\tre discipline, ampiamente recuperabili.
La professoressa di lettere, che tra le altre cose è amica della mamma, riserva un colpo di scena clamoroso: con sincero gaudio, assicura al ragazzo e contemporaneamente al genitore, che dopo innumerevoli sforzi le porte della seconda stanno per spalancarsi: in sede di scrutinio esprimerà il suo parere favorevole, presentandolo, per quanto la riguarda, con un bel sei.
Nonostante i pronostici favorevoli però, per R. la storia non cambia: sarà respinto, ancora una volta, anche a causa di quell’inaspettatissimo cinque in italiano.
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351 – Ogni qualvolta mi è capitato di accennare al caso di R., la faccia dei miei interlocutori rimanda sempre alla stessa conclusione: è un asinello.
Chissà che idea si saranno fatta i genitori del ragazzo, entrambi insegnanti.
A conti fatti, di quei quattro lunghi anni cosa è rimasto? Tanto fastidio, un sentimento di inferiorità e inadeguatezza, difficilissimo da lavare via (ci proveranno, come sempre in questi casi, psicologi e assistenti sociali, per 50 euro a botta), pochissime nozioni utili acquisite e una marea di tempo prezioso trasformato in merda puzzolente da consegnare ai netturbini.
A me, lo dico in tutta sincerità, R. non è sembrato per niente stupido: dimostra grande competenza nei discorsi che riguardano i suoi interessi e le sue passioni, peccato solo che non rientrino tra i punti previsti dal programma stilato dal ministero della Pubblica Istruzione.
Mi descrive il movimento, in pieno fermento, dei giovani raver sardi, sempre a caccia di belle location dove dare vita alle loro feste; parliamo di rap [ho assistito ad un live di uno dei suoi artisti preferiti all’alba di una brillante carriera] e, una volta allentata la tensione, gli accenno a Sorvegliare e Punire di Michel Foucault e alla sua teoria secondo cui la scuola non è altro che una cugina di primo grado del carcere: è del tutto normale incappare in certi fastidiosissimi incidenti lungo il percorso.
Gli esprimo, per quanto possa servire, la mia solidarietà e chiudo il discorso con una semplice considerazione.
— Tutto quello che mi hai raccontato in quest’ultima ora e che hai vissuto in prima persona sulla tua pelle varrà meno di niente se fra dieci, quindici anni, infilerai tua figlia\o nello stesso meccanismo che non ha fatto altro che stritolarti. Se ti ricorderai queste esperienze, invece, agirai di conseguenza.
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352 – D., con poche mosse, ha aperto uno squarcio profondo nelle prospettive future della mia esistenza. Tiene in braccio la piccola E. L., e con tono solenne dichiara: — Ho cinque anni di tempo per evitare che mia figlia vada a finire dentro ad una scuola.
Si basa sul suo vissuto, che è purtroppo simile a quello di molti altri: la sua curiosità e la sua spontaneità sono state annichilite, mozzate brutalmente al pari della sua autostima (recuperata con fatica attraverso la psicoterapia); proprio per questo non ha nessuna intenzione che quella creaturina, oggetto di amore immenso, possa correre rischi in tal senso.
Io, di conseguenza, ho cinque anni di tempo per prepararmi, le dico, qualora servisse il mio aiuto, anche solo per leggere una fiaba a voce alta. Questo piccolo atto darebbe un senso compiuto all’insieme dei miei giorni.
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353 – Sarebbe un errore credere che quello di R. sia un caso isolato, contraddistinto da singolare sfortuna.
Per avere un quadro più preciso del fenomeno non mi rimane che proseguire nella ricerca.
M. e G., ad esempio, sono già pronti per raccontare le loro versioni, ma non posso ospitarli nel pieno trambusto di un laboratorio.
A loro riserverò un posto nella stanza degli ospiti presso la mia nuova casa.
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354 – 26 settembre 2015
D. marcia con foga, a passo sveltissimo; la faccia stranamente cupa, avvolta in una sciarpa di nervoso e di tribolazioni. Mi sembra quasi di poter vedere i suoi pensieri, vanno più veloci delle gambe; si accalcano senza pietà di fronte ad una porta anti-panico chiusa dall’esterno con una grande catena.
— È sparito un quadro per la mostra di stasera! — mi urla dall’altra parte della strada, sgranocchiando grossi blocchi amari di disappunto come se fossero cracker.
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355 – 28 settembre 2015
Sir Alexander il Magnifico tira su il suo solito spettacolo: un grande tendone da circo, clown, animali ammaestrati che saltano dentro a cerchi infuocati, ballerini, cantanti, trapezisti ed equilibristi, giocolieri e poi ancora una banda di ottoni composta da centoventotto elementi più trentasei percussionisti con i loro tamburi giganteschi e due dozzine di ragazzi vestiti di bianco che roteano nello spazio ballando la capoeira. Tutto in scena contemporaneamente.
Sono trascorse sessanta ore dall’episodio sfortunato e una pacata rassegnazione ha attutito, come una pioggia di disinfettante, l’irritazione e l’ira di D., provocate dallo spiacevole incidente. Mi parla dell’asta di beneficenza in programma per la nottata seguente: verranno battute le opere esposte alcune sere prima in uno spazio urbano, solitamente vuoto e inutilizzato, ribattezzato per l’occasione Down Bridge e trasformato in maniera impeccabile in galleria d’arte. In effetti, per raggiungere tale fine sono stati utilizzati due faretti ben posizionati, un tavolino per appoggiare bottiglie e bicchieri per il rinfresco e un piccolo generatore di corrente.
La cosa più interessante, a mio avviso, è stata l’abilità con cui D. ha strappato l’autorizzazione al sindaco, per altro presente all’evento, creando così un precedente positivo. Quel posto è diventato una risorsa impiegabile: ha subito una efficacissima trasformazione, dal basso, seppur per poche ore.
— Un giorno – fantastico dimenticando il volume della voce acceso — potrei scrivere qualche riga: le ultime testimonianze della tela smarrita.
— Fallo, fallo, fallo subito, per domani!
D. è una pompa di benzina che inonda la mia volontà confusa, ma decisamente vispa, con litri di combustibile rossastro.
L’incendio divampa, si diffonde incontrollato negli ambienti adiacenti, coinvolgendo arredi e poveri, inconsapevoli passanti.
Le molteplici, infinite manifestazioni del possibile sono una voragine profonda migliaia di chilometri, ed io mi ci tuffo a peso morto, in caduta libera.
Le pareti si colorano di visioni ed idee, scorrono rapide, ma ho il tempo per ammirarle distintamente ad una ad una.
L’immaginazione rompe gli argini, dilaga con una forza sconvolgente, un’intensità rara.
D. è un vigile urbano sconsiderato: mi invita a proseguire, fa un cenno secco e deciso, con la sua paletta d’ordinanza, ad un tir carico di tritolo che procede a velocità folli verso una lastra di fuoco.
L’unico limite che pone a quell’urto spropositato è un semplice avvertimento: — Dovrai fare tutto da solo, in autonomia, perché io domani sarò occupatissimo.
La mia mente si trasforma in una lamina di carta bianca lasciata in ammollo in un barile di inchiostro.
Prendo una penna e inizio a buttare giù gli appunti sopra ad un foglio: si potrebbe organizzare una raccolta fondi negli esercizi commerciali, contemporaneamente un volantinaggio per pubblicizzare l’iniziativa.
— Non serve parlare, conta solo fare. Fare e basta! — continua a ripetere con enfasi.
— Magari potremmo chiedere a X. se suona la chitarra, che ne dici di un requiem per il quadro smarrito nel nulla?
Noto che l’entusiasmo di D. si sfracella in una valle disseminata di enormi chiodi appuntiti.
Tiro il freno a mano, il cervello rallenta di colpo: mi rendo conto di essere andato oltre i limiti del buon senso e della ragionevolezza.
Sir Alexander applaude divertito per lo spettacolo offerto da quella buffa scimmietta.
Forse è meglio concentrarsi sulle righe promesse poco prima che partisse il rally tra le dune del Terzo Mondo di Popper. Sembrano l’unica intuizione solida da cui partire.
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356 – Gocce di lava calda atterrano sulla base del cranio; Alexander il Grande abbassa la leva della macchina dei sogni e da inizio al secondo tempo del film.
Gli altri sono come le membrane elastiche dei flipper: la piccola sfera in ferro della mia fantasia rimbalza e traccia traiettorie imprevedibili.
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357 — Come si chiama il tizio che ha scritto L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica?
— Walter — risponde V., che nel frattempo gravita attorno alla mia postazione. Frammento insufficiente. Il cassetto non si apre.
— Walter Benjamin —. Ecco la risposta esatta e completa. Dieci punti per A.
Anche se l’originale è ormai introvabile, da una sua copia, una fotografia ad esempio, possono derivare centinaia di riproduzioni.
Il delirio è come un blocco di creta morbida: se lo lavori con tutti gli accorgimenti del caso può assumere forme così perfette, logicamente coerente in tutte le sue parti, da sembrare credibile: partendo da un file JPG stamperò decine di volantini.
— Immaginette! Come quelle dei santi! — suggerisce V.
Il frutto della creatività di M., ne sono convinto, si spargerà con una modalità nuova: in molti verranno a conoscere la storia sfortunata di quella tela e, chissà, qualcuno la riconoscerà, appesa in ostaggio sul muro di qualche orribile salotto per poi riconsegnarla all’artista, suo legittimo e disperato proprietario.
Scendo nel dettaglio: A. e V. hanno tutte le informazioni sui materiali migliori da utilizzare per la riproduzione, sui prezzi e su chi potrebbe fare il lavoro.
Sir Alexander suona il suo organetto in maniera impeccabile, la colonna sonora perfetta per quella favola. Rimango solo assieme a lui, sino a quando evapora leggero sotto i bisbigli dei primi raggi di sole di un’alba che, appena nata, prende a calci tutta la confusione della notte ormai trascorsa. Di fronte ad un tè bollente, butto di getto le righe relative alla questione.
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358 – “Ci sarei dovuta essere anche io, quella sera in cui gli altri misero piede per la prima volta in Down Bridge.
È facile immaginare, grazie ai racconti e alle testimonianze fedeli, il grado di entusiasmo e soddisfazione raggiunto dagli organizzatori e dai partecipanti.
L’azione veniva legittimata dalla presenza cordiale, e soprattutto dalle parole, della prima cittadina: “Uno spazio vuoto, qualsiasi esso sia, è da considerarsi come utilizzabile; ben vengano dunque, spazi vivi e dinamici”.
La prima volta che presero Down Bridge organizzarono una mostra di quadri.
Ci sarei dovuta essere anche io, ma a me è spettata una sorte diversa: non so se rivedrò nuovamente la luce, se incontrerò ancora uno sguardo umano o se invece sono destinata ad essere rosicchiata dai topi in qualche discarica di periferia.
Magari, chi mi ha preso con sé si è innamorato alla follia: sarebbe quasi un complimento implicito.
Più probabilmente invece, nessuno svelerà mai il dilemma che mi riguarda.
Eppure so che qualcuno mi ha amato veramente, a cominciare da colui che mi ha concesso di essere, e questo basta.
Sfidare l’oblio, l’indifferenza, la rassegnazione: se sono riapparsa, sotto altra forma, non è merito mio, ma di chi ha voluto che ci fossi comunque”.
*
359 – La realtà ha regole e schemi più rigidi rispetto a quelli propri della fantasia: se per interagire con la seconda è sufficiente il cesello, per la prima spesso occorre, e manco basta, il martello pneumatico.
Il problema più grande a cui vado incontro non è proprio quello che si potrebbe definire un dettaglio trascurabile: non ho avuto modo di parlare con M, perchè quando partorivo quel mostriciattolo di idea si era già spostato altrove; in definitiva mi manca l’immagine e non ho il suo numero di telefono per tentare di proseguire con il mio piano.
Mando diversi SMS, nella speranza che qualcuno possa mettermi in contatto con lui, purtroppo però è tutto inutile.
Si fa strada il dubbio che mi stia spingendo troppo oltre, sconfinando bruscamente in un terreno non mio, nel lavoro altrui, con il rischio di comprometterlo. Decido così di lasciar perdere.
La sera dell’asta, V. e A. si aspettano un resoconto degli aggiornamenti e degli sviluppi: purtroppo mi sono limitato alla stesura di una ventina di righe, che D. ha comunque pubblicato, in maniera anonima, come gli avevo chiesto, su un sito web con cui collabora.
Rimane il rammarico per non essere andato sino in fondo in un percorso che ancora oggi, a distanza di mesi, reputo potenzialmente valido e gratificante, benchè fosse soltanto un esperimento.
Non sono stato in grado di gestire tutte le variabili, anche se probabilmente i tempi erano troppo stretti per poter ambire ad un risultato migliore
Mi tengo ben stretta l’emozione di aver combinato i miei neuroni con quelli di altre due persone.
— La parte più bella dell’intero processo artistico – conferma A.
Il ‘grazie per il pensiero’ di M., a cui ho illustrato tutta la vicenda con qualche giorno di ritardo, è stata una piccolissima consolazione.
*
360 – “Nothing happens unless first a dream” – Carl Sandburg
È quanto si legge su di un poster che ritrae un tramonto sul mare; campeggia, da tantissimi anni, sopra la porta della stanza in cui dormo.
Desiderare, con la giusta intensità, si è rivelato talvolta una premessa fondamentale per la realizzazione dei miei propositi.
Mi auguro dunque di potermi innestare, offrendo umilmente il mio contributo, in molteplici progetti, già a partire da domani.
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361 – Discorso sul metodo, pt. 3
Ho soltanto voglia di perdermi tra di voi, osservarvi, gioire per i vostri successi o piangere di tristezza per le vostre sconfitte e delusioni. Ho voglia di dire la mia, scoprire, cercare, riflettere assieme a voi.
Capire se il pensiero possa, come sostengono alcuni, modificare l’esistente, fare spazio ad un futuro diverso, imprevisto.
Mi resta da scegliere soltanto l’atteggiamento da adottare: per alcuni, molte delle esperienze raccolte in queste righe mi hanno reso l’ennesimo “palle mosce”; per altri, dovrei smussare l’arroganza che mi porto dietro ed aprirmi definitivamente ad una visione meno conflittuale.
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362 – Temo tuttavia che non sia ancora giunto il momento di abbandonarsi indistintamente con chiunque a coccole e smancerie.
Il mondo è in mano ai figli di puttana: occorre prima tirarsi fuori dal loro raggio d’azione, nei limiti del possibile, non si tratta di un compito facile, per poi provare a scrivere, assieme ai superstiti, se mai ce ne saranno, le nuove regole del gioco.
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363 – C’è un tempo per la semina, ed un tempo per il raccolto.
C’è un tempo per la caccia, ed un tempo per il banchetto.
La bontà di un raccolto non dipende soltanto dall’abilità del contadino.
Il buon esito di una battuta di caccia non dipende soltanto dall’abilità del cacciatore, ma anche dalla quantità e dalla qualità della selvaggina presente in quel determinato territorio.
Quanto segue è frutto di una notte insonne, dopo un safari capitato per caso nell’estate del 2015.
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364 – Non mi è affatto difficile immaginare A. chiuso in una stanzetta, intento a percuotere compulsivamente il suo strumento: è lui stesso a descrivere nel dettaglio quei giorni tutti uguali, spesi interamente in quell’attività che a lungo andare perdeva il suo senso e si trasformava in un generatore di alienazione mortale.
Adolescente dimenticato dai suoi simili.
Ripetere il movimento per centinaia di volte, correggere l’angolazione dell’impatto, l’intensità dello stesso. Con l’esperienza, la pratica, tutto può diventare una professione.
Pupazzi buoni per i crash-test.
La tua passione diventa un’enorme croce alla quale un pubblico svogliato e indifferente ti appende senza pietà.
Centocinquanta concerti in un anno, come minimo: è il modo in cui A. ha deciso di stare appresso all’ingranaggio.
La fatica? Non si sente nemmeno per scherzo.
— Essere obbligati a suonare così tanto assomiglia ad un insulto. Se le cose funzionassero, un minimo per davvero, in questo paese di merda, anni luce dall’illuminata Francia, in cui i musicisti sono tutelati da un sindacato e hanno una cassa di previdenza autogestita, mi dovrei sbattere esattamente la metà. Anche se — ammettono tutti gli schiavi dopo il condizionamento operato dal sistema —, non riesco proprio a stare fermo.
Devo fare, muovere, bruciare energia per svilupparne altrettanta.
Diffondo la mia proposta capillarmente, sangue rosso che irrora ogni più piccola vena di ogni singolo buco di culo dell’impero.
A. si lancia a picco nell’ennesimo virtuosismo, le bacchette di legno si agitano convulse e rimbalzano rapide, frenetiche, seguendo strutture ritmiche ingarbugliatissime: tempi dispari frazionati dal bisturi tagliente in mano ad uno psicopatico.
Dietro di me, una casalinga stanca e la proprietaria di un negozio di scarpe tentano invano di farsi trasportare da quella stranissima corrente musicale, combinazione schizofrenica di stili e umori.
Cercano di trovare un senso. Invano. Passano pochi secondi e le due donne si dirigono verso l’uscita.
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365 — Siamo dei musicisti difficilmente inquadrabili — mi spiega A. — non è facile avere a che fare con me. Ecco perché ho scelto questo mondo.
Nella nicchia si sta stretti stretti, non c’è spazio per riflettori e tappeti rossi. Una riserva in cui la selvaggina è selezionata accuratamente per una platea di soli palati fini, per definizione. Tutti gli altri possono ripiegare sul cantante famoso di turno; che continuino pure a ronfare nella loro, beata, ignorante stupidità.
Strategia, tattica; assalto al segmento di mercato; bacini di utenza sufficientemente grossi per poter chiudere i conti, a fine anno, con un bel sorriso.
Francia e Germania sono i posti migliori, dove le persone hanno ancora dei soldi da spendere.
— In Italia è leggermente più complesso — spiega. — Al sud soprattutto: manca la professionalità, i requisiti minimi per poter lavorare decentemente.
La serata a cui partecipo è ad accesso libero e gratuito: ci penserà il gestore del chiosco a risolvere con un artificio l’imbarazzo rappresentato dal cahcet dei giullari sonori; una bottiglietta d’acqua viene venduta ad un prezzo dieci volte superiore a quello di costo, legge applicata a tutti i prodotti in offerta, con rincari variabili: panini, bruschette, patatine, birre.
In cambio, una spruzzata di intrattenimento per mandare in archivio l’ennesima serata afosa.
— Un mio concerto vale 100.000 euro — provoca A.
Tanto costano le prove per lo show, il sudore, gli spostamenti, senza parlare poi dell’estrema, accurata ricerca sonora che sta alla base del progetto stesso.
Monetizzare, monetizzare l’impossibile. La saliva, l’anima, gli umori corporali. Note, parole, abbracci, baci.
Dicono che tutto abbia un prezzo: basta solo essere bravi a trovare l’offerta giusta.
Ad A. hanno proposto di andare in Cina a confezionare musica dance per adolescenti con gli occhi a mandorla.
— Avrei tirato su un bel gruzzolo in breve tempo, ma non mi interessava.
Non abbastanza, deduco.
Poi una dichiarazione d’amore, che in un certo senso posso capire bene.
— Ho scelto di rimanere fedele alle mie convinzioni, a quel mondo che striscia nell’ombra. Avrei potuto entrare a far parte di qualche orchestra, suonare magari nei programmi della TV, alcuni miei amici guadagnano bene, ma sono solo gli ennesimi schiavi in giacca e cravatta. Io ho scelto altro, ne vado fiero.
Preferire le strade di campagna all’autostrada del mainstream.
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366 — Ti potrà sembrare banale, o stupida. Non farci caso e, se vuoi, rispondimi sinceramente.
F. rimane spiazzato dalla prima domanda, nonostante l’avessi avvisato.
Si aspettava qualcuno pronto a venerare la sua musica, discorrendo di sinth, tastiere, semi crome e tempi dispari. Invece è costretto a parlare di altro.
— C’è qualcosa che ti da particolarmente fastidio?
— I cani. Li odio. — Lancia un’occhiata al socio, per un’istante. — Ecco perché ho una tartaruga.
Ride. E io con lui.
Poi qualcosa si sblocca; abbassa la guardia, mi concede una rapida panoramica all’interno della sua vita, tanto sono solo uno sconosciuto che non rivedrà mai più.
— In realtà — ammette — l’ho sempre desiderato. Ho vissuto per un po’ di anni in giro nei posti occupati, a contatto con gli animali dei miei amici, ma non ne ho mai avuto uno tutto mio, in esclusiva, con cui instaurare un rapporto profondo. E’ una cosa che mi manca parecchio.
Cambia espressione. Posso intuire la malinconia: non è tanta, giusto un assaggio, una patina sottilissima, ma c’è.
— I miei si sono trasferiti da poco in una bella casa con giardino, sto cercando di convincerli ad adottarne uno, ma è un’impresa ardua.
Ora sembra più sereno.
Allargo la piccola fessura per sbirciarci meglio.
— Io non posso permettermelo purtroppo, almeno per il momento. Non vivo in una casa abbastanza spaziosa, e poi sono sempre in giro. Non sarebbe giusto, una sofferenza inutile. Purtroppo devo stare appresso a questa vita di merda.
Scambia un’occhiata con il suo batterista, il quale si affanna subito a dare una giustificazione alla dichiarazione del compare. — Intende che…
Non è più il suo momento.
Posso farmi un’idea da solo, senza interpreti.
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367 – E’ una cosa del tutto normale avere degli impulsi al rigurgito verso la propria professione, sul modo paradossale in cui sbricioliamo le nostre esistenze.
Ci sdraiamo sulla tavoletta del cesso e aspettiamo semplicemente che qualcuno ci pippi via, assieme ai microbi e ai germi che, in fondo in fondo, ridono della nostra presuntuosa pochezza.
F. si ricorda di essere un musicista. Tira fuori le grandi palle quadrate del suo ego, riprende coraggio o forse soltanto un colore più vivace sul viso. E’ già qualcosa.
Ma non è ancora arrivato il momento di discutere su quanto è bello e bravo con il suo strumento.
— Le scuole medie sono state un vero disastro.
Spalanca le porte del suo passato, una stanza in penombra, (quante ce ne saranno?), piastrellata con pessimo gusto, proprio come lo erano i risvolti ai pantaloni, o la capigliatura anti-estetica.
Mostriciattolo da bersagliare durante le pause delle lezioni, nei corridoi, nei bagni, nei cortili.
Per fortuna dimenticare non è sempre difficile.
— Le superiori, invece, decisamente meglio. Ma forse anche no…
Le prime idee politiche, l’anticonformismo, la rottura con i genitori.
— Avevano previsto per me un futuro in una delle due botteghe di famiglia.
Quante saranno le persone con una storia simile alla sua? Dovrebbero coalizzarsi, fondare un partito, scrivere un libro e devolvere l’intero ricavato per affievolire lo sterminio continuo di tenere speranze.
Il padre è una sorta di uomo d’affari, un rappresentante impegnato a spingere in lungo e in largo, per conto terzi, prodotti vari nel vecchio continente; la madre una psico-terapeuta.
Tra i due fuochi F. ha scelto la facoltà di psicologia, per poi darsi definitivamente alla musica.
Qualcosa di quegli studi sembra penetrata nel suo stile musicale; a furia di inseguire nevrotici e schizofrenici, va a finire che una parte di noi, [anche solo l’estro artistico], si trova ad affrontare fantasmi simili.
Distorsioni, frequenze basse; strutture ritmiche estreme, vorticose, disturbanti.
— Forse questo parco — dico guardando verso il palco, posizionato ai piedi di un salice silenzioso e pacifico, non è la location più adatta per una proposta del genere.
— Che intendi?
— Se proprio devo immaginarmi una scenografia per la tua musica, penso al traffico cittadino, a fiumi di nevrosi, al rumore dei motori, ai muri grigi, al disordine ipercinetico di una metropoli…
Finalmente per lui parliamo di musica.
— La nostra non è come la descrivi: è gioia, divertimento, forza espressiva, liberazione. E tu sei geloso.
Sapevo che prima o poi qualcuno avrebbe pigiato quel tasto.
— In realtà, sono geloso solo di mia nonna, che è morta a novant’anni senza un bau di dolore.
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368 – In questo momento sono convinto che l’uomo oscilli costantemente tra due dimensioni: una interiore ed una pubblica.
La prima è paragonabile all’attico, dalla quale si scrutano e si ammirano il cielo, le stelle e le altre meraviglie celesti.
La seconda è simile ad una cantina, dove si entra in contatto con i ratti e con le sozzure che questo mondo produce.
Per salire verso i piani alti della casa gli antichi maestri consigliano toni miti e rilassati, purezza di sentimenti e nobiltà d’animo.
A mio avviso, allo stato attuale delle cose, sarebbe meglio distinguere i livelli: un comportamento troppo mansueto potrebbe risultare letale nel caos dei piani bassi; viceversa, il vivere costantemente sotto pressione, alimentando la collera e il risentimento, rischia di trasformarci inevitabilmente in tante uova strapazzate, pronte per venire ingurgitate dallo strizzacervelli di turno.
Ognuno, è chiaro, ha comunque la facoltà di apparecchiare la propria tavola come meglio crede.
Discorso diverso, però, andrebbe fatto in pubblica piazza: non siamo più nelle condizioni di poter chiudere gli occhi o fare sconti al furbetto di turno.
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369 – In tempo di pace gli uomini stanno con le loro donne e i loro figli a coltivare i campi.
In tempo di guerra gli uomini stanno lontani dalle loro donne e dai loro figli, innaffiano i campi con il sangue dei nemici, ma non solo.
In tempo di pace gli uomini trascorrono le giornate libere a godersi il calore del sole e il canto degli uccelli.
In tempo di guerra le giornate libere si passano a leccarsi le ferite, o a seppellire i tanti cadaveri.
In tempo di pace l’uomo trova asilo sotto un tetto, assieme ai suoi cari.
In tempo di guerra la casa è una trincea, un accampamento militare in cui condividi la puzza con tutti gli altri puzzolenti.
In tempo di pace si scartano doni e regali; sembra quasi che l’universo sia obbligato a
farceli.
In tempo di guerra ogni singolo secondo è una conquista, un furto piazzato ai danni della morte.
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370 – Il ragazzo sulla destra dello schermo è M., aka P.
Osservate il suo sguardo, l’espressione del viso.
Assaporate il tono deciso della voce, si sposa alla perfezione con quanto prodotto attraverso il basso, la chitarra e la batteria. L’atteggiamento mi sembra inequivocabile, così come la natura del messaggio.
Ultimamente prendo grandi spunti dalla musica dei Mex-Off; mi piacerebbe riuscire a trasferire anche solo una minima parte della furia che riescono a riversare in musica, nel mio pensiero e nella mia parola, durante una disputa.
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Aggiornamento: 01/10/2016
Mentre vomito quel liquido scuro, acido e terroso dentro ad una busta in plastica ho la sensazione di espellere definitivamente dal mio corpo ogni singola molecola di odio e di dolore accumulata nel corso di questa vita. Tutto fuori tranne, la sento in maniera chiara e nitida, una piccola parte, grande come il pugnetto di un neonato, incastonata alla perfezione nel centro del diaframma.
“Devi essere come uno scorpione. Lo scorpione non viene avvelenato dal suo stesso veleno, ma usa quel veleno contro il nemico, ogni qualvolta si senta minacciato o si trovi in pericolo”.
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Conclusione: Queste righe, suddivise in 370 pillole, sono molto simili al bugiardino presente in ogni confezione di medicinali.
Alla casa farmaceutica non importa se il cliente decide di ignorare le avvertenze o non si sofferma con la dovuta attenzione sulla lunga lista di controindicazioni ed effetti collaterali provocati dal prodotto.
La casa farmaceutica si mette l’anima in pace, si tutela con il più classico dei “noi ve l’avevamo detto”.
D’ora in poi, ogni qualvolta qualcuno cercherà di fottere, imbrogliare, raggirare, insultare, offendere, danneggiare me o qualche mio caro, in maniera più o meno subdola, rischierà seriamente di far emergere la parte più violenta e irruenta della mia personalità. Con tutte le conseguenze che questo comporta.
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Non si tratta di cambiare il mondo, non siamo così tanto folli da pensare una cosa del genere.
Si tratta, più semplicemente, di scavare e difendere un tunnel che ci permetta di rifugiarci nella foresta, così la chiamava Ernst Junger nel “Trattato del ribelle”, per creare, semplicemente, un’alternativa quanto più possibile valida alla nave che imbarca acqua da più parti.
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