002 - Di solito quando abbandono la mia umile tana per gettarmi in pasto al mondo seguo un principio piuttosto semplice: cerco di arricchirmi collezionando una storia, un aneddoto utile, magari, a far agitare i vasti mari della riflessione interiore. Un'osservazione, un'opinione, anche il brandello di un commento propositivo e critico possono risultare utilissimi per accendere la luce, per puntare l'attenzione su un problema o su una questione tutta nuova.
La mia soddisfazione personale, basta davvero poco, lo ammetto, aumenta esponenzialmente quando posso dare il mio contributo: esprimendo il mio parere, come prima cosa. Fornendo magari un'interpretazione differente, favorendo un'analisi che si sviluppi seguendo sentieri non convenzionali. Oppure, si tratta di uno degli apici in questo senso, intervenendo direttamente nelle varie attività disponibili all'interno del contesto in cui mi muovo.
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Ho avuto modo di perdermi piacevolmente tra i collage che C. ha esposto in una bella mostra, a Cagliari, durante il giugno del 2017, dal titolo Visioni di un futuro scappato.
Al centro della stanza, poggiato sul pavimento, trovava posto un grande rettangolo in carta pronto ad accogliere i contributi dei visitatori che, armati a loro volta di forbici, colla e vari giornali pieni zeppi di fotografie, hanno così dato vita ad una sorta di opera collettiva.
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Nonostante non sia mai stato un campione di abilità manuali mi son lanciato a modo mio nell'impresa, convogliando nell'arco di un'oretta scarsa tutta la mia buona volontà e una consistente dose di intraprendenza. Il risultato finale, non è difficile ammetterlo, è davvero poca cosa, soprattutto se paragonato ai lavori di C., eppure nonostante la scarsità sul piano estetico ed artistico, ho ripensato a quelle immagini per diversi giorni, tant'è che ci sto evidentemente riflettendo ancora a distanza di mesi.
Mi piace il senso che, quasi in maniera fortuita, sono riuscito a ottenere: non mi aspetto affatto che chi guarda il mio obbrobrio possa giungere alle mie medesime considerazioni; lo prenderò come un semplice spunto, un pretesto per intavolare l'ennesima analisi.
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La (quasi?) totalità delle azioni che compiamo quotidianamente vengono scandite dagli orologi: in principio il tempo, meglio, il suo trascorrere, era associrato al moto apparente del sole, un riferimento costante, imprescindibile, che configurava però un rapporto decisamente più morbido, largo, rispetto a quanto avviene attualmente.
La feroce vivisezione operata nei confronti delle ore, unità di misura che per secoli è stata sufficiente per organizzare le varie attività dell'universo umano, spaccate prima in quarti e poi sminuzzate ulteriormente in singoli minuti, a loro volta polverizzati in secondi, ha contribuito a complicarci ulteriormente l'esistenza.
Il concetto di ritardo, che ora può essere misurato con precisione assoluta, si è convertito in uno stato di ansia perenne; sin dalle prime battute, durante la mattina, siamo impegnati in una corsa contro le lancette, un confronto ormai ineliminabile, dove un singolo errore o tentennameno rischia di ripercuotersi sull'intera giornata.
Si consulta l'orologio per sapere quanti attimi di sonno e riposo possiamo permetterci, per sapere quando mangiare, per sapere quanto lavoro e divertimento ci rimangono ancora.
Niente di strano, dunque, se in un futuro neppure così tanto lontano in una porzione della nostra scatola cranica verrà installato un enorme cronografo di ultima generazione.
Il tempo è denaro, ci ripetiamo ormai da un pezzo, e starci dentro significa, anche, essere soggetti alla più totale coordinazione. Orde di zombi che oscillano ritmicamente accompagnati dalla stessa melodia in sottofondo: un tic-tac sordo, perenne.
Mi chiedo spesso se, davvero come si dice, il nostro cervello abbia capacità di adattamento così ampie per reggere a questi ritmi, che spesso sfociano nell'insostenibile; mi chiedo se sia effettivamente attrezzato per reggere al peso delle nevrosi, delle tensioni che gli procuriamo e che, come conseguenza logica del nostro discorso, rischiano di esplodere nello stesso identico momento, per l'immensa gioia di tutti gli strizzacervelli presenti sul mercato, in paziente attesa dell'ennesimo sbroccato a cui, di punto in bianco e chissà perchè, è iniziato a uscire del fumo nero, che sa di bruciato, fuori dall'orecchio destro.
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La fotografia però non riesce a mostrare tutti gli aspetti relativi alla mia piccola opera: dal vivo infatti è addirittura possibile sollevare, proprio come se fosse un velo, l'immagine dell'orologio: questa sottilissima palpebra in carta nasconde tre piccoli occhi di bambino.
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In origine, la storia è sempre la stessa, v'era l'uomo.
Esso si è conservato a lungo come una totalità pura, integra, incontaminata, ma con l'accumularsi delle varie conoscenze ha imparato ad intervenire, anche in maniera piuttosto invasiva, sul proprio corpo: si pensi ai trapianti di organo, ad esempio, o alle varie protesi realizzate con i materiali e per i fini più disparati.
Come accade troppo spesso, ai primi vantaggi seguono immediatamente una serie di effetti collaterali, anche piuttosto spiacevoli, che derivano principalmente dall'esagerata brama, di potere, di conoscenza, di onnipotenza, in cui l'essere umano precipita, perdendo di fatto l'equilibrio, la giusta misura, l'umiltà.
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I rischi a cui noi uomini moderni andiamo incontro sono molteplici: i poveri, i più deboli, rischiano seriamente di diventare soltanto un insieme di pezzi di ricambio a vantaggio esclusivo dei ricchi e dei più potenti.
Ho come l'impressione di trovarmi ad assistere, seduto dal mio posto esclusivo in prima fila, alla sfilata macabra di tutte le degenerazioni che ci investiranno a breve: se l'etica non saprà fornire, come auspicato da più parti, argini solidi al flusso veemente della ricerca medico-scientifica, potremmo presto piangere lacrime amarissime, per l'enorme portata di orrori che le nostre scoperte provocheranno, basti pensare, ad esempio, alla questione sempre più scottante degli uteri in affitto e della procreazione assistita.
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...e anzichè continuare ad aggrapparci alle nostre vite come i naufraghi fanno con i pezzi di legno galleggianti in mezzo all'oceano, dovremmo accettare il fatto che siamo qui, sotto questo cielo, anche per morire. L'epilogo, in questo senso, è comune: alla fine dei giochi ci ridurremo tutti ad una manciata di letame...
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Nota: La foto di copertina è stata scattata da Matteo Cau. Queste le parole che hanno accompagnato la pubblicazione dell'immagine nel profilo dello stesso su FB:
Quando i cavalli hanno terminato il loro ciclo di utilità, sono malati o anziani, vengono abbandonati, lasciati a loro stessi.
Portano tutte le ferite della fatica, mangiano in gruppo, alcuni stanno soli e aspettano la morte, fermi, immobili, liberi.
Poi ci pensano gli avvoltoi_
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