[...gabbie e prigioni...]
029 - Se ti affacci fuori dall'ingresso principale della Facoltà di Lettere e Filosofia della città di Cagliari e punti la vista in alto, sulla tua sinistra, non puoi non notare il gigantesco carcere di Buoncammino, ormai vuoto e inutilizzato, dopo ben 120 anni, che scruta la città con aria minacciosa.
Trascorrevo spesso i quindici minuti di pausa tra una lezione e l'altra osservando insistentemente, ed in silenzio, le piccole fessure nere chiuse da solide sbarre, disseminate lungo le pareti.
Mi sentivo impotente: sulla carta, gli studi che io e i miei colleghi stavamo affrontando avrebbero dovuto aprirci la mente con la stessa forza dirompente della dinamite; trasformarci dunque in individui rinnovati, armati di una consapevolezza lucente e penetrante, con cui saremmo potuti intervenire sul mondo, partendo dai suoi aspetti più contraddittori, magari proprio da quella prigione, emblema solido e spietato di Non-Libertà.
La sua muta ma costante presenza, invece, ribadiva tutta la nostra patetica inutilità: ci riempivamo la bocca con tanti bei discorsi ma in pratica eravamo, come tutti gli altri, innocui ed inermi.
A volerla dire tutta, trovavo una tristissima corrispondenza tra i detenuti rinchiusi nel penitenziario ed il mio cervello, costretto a sorbirsi quintali di nozioni sterili, improduttive; tenuto in catene, sottoposto alla rigidità implacabile dell'istituzione, pronta a fagocitare le nostre speranze in un solo boccone, per poi riconsegnarci al mondo come utensili disinfettati, da dimenticare senza troppi tentennamenti, nel silenzio di qualche cassetto.
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030 - ...ed è come se all'improvviso, per via di un maleficio, diventassero visibili tutta una serie ordinata di muri che la mia percezione, tratta in inganno sino a quel momento, un attimo prima ignorava, beata e colpevole allo stesso tempo.
Ho quasi paura di aver rotto il complicato meccanismo; il vaso di cristallo si schianta a terra e diventa 'mille pezzi': stare soli o assieme ad altri, ormai cambia poco.
La colonna vertebrale scossa da un brivido gelido.
In trappola, senza nessuna via d'uscita. Una sensazione che si amplifica, a dismisura, con un'intensità inconsueta rispetto al passato.
La bocca cucita, nemmeno un mugugno.
Cresce la diffidenza per gli altri e per se stessi.
Come starci ancora dentro? A che proposito? Con quali intenzioni? Quanto resisterò ancora? Quanto resisteremo tutti?
Un incubo: la vita che diventa, di punto in bianco, simile ad un supplizio, ad una lenta condanna da scontare; una poltiglia schifosa e maleodorante da bere con struggente pazienza, sino all'ultimo sorso...
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“Quella notte non dormii. Un'enorme sensazione di vuoto inondò la mia cella, un vuoto più grande che mai. Dovevo uscire dal carcere in qualche maniera. Dovevo fuggire. Ne avevo bisogno”.
Xosè Tarrio Gonzalez – Huye, Hombre, Huye