Certo, se si parla di droga stiamo parlando quindi, a conti fatti e senza vergogna, di una fuga. Una fuga breve e inutile. Come saltare da un recinto ad un altro.
A. Kaveh — Di tutta l'erba un fascio
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015 — Secondo il parere di molti, di fronte ai nemici (che si parli di capitalismo o di altre entità malefiche simili) non si scappa, ma li si affronta fino a mettere a repentaglio la propria vita, anche a costo, dunque, di imbattersi nella propria morte. Il capitalismo, del resto, è un mostro tentacolare, una sorta di Leviatano senza scrupoli, che ha progressivamente fagocitato tutto l'esistente, sino a rendere l'intero ordito del reale una sua appendice, una conseguenza, un risultato, un prodotto da vendere al miglior offerente pezzo dopo pezzo.
Secondo Sun-Tzu, l'autore del celebre L'arte della guerra, la ritirata fa parte del piano e merita uguale attenzione, nella sua pianificazione, di quella che si riserva alla fase dell'attacco. Anche la fuga, insomma, presuppone una strategia, oltre a una buona dose di furbizia, sagacia e astuzia.
A me personalmente le fughe ispirano tanta simpatia, a prescindere dall'esito.
Certo, è vero, a volte si scappa da un problema per finire dritto tra le braccia di un problema ancora più grande: dalla padella alla brace, si dice in questi casi.
A me piace premiare l'intenzione, quanto meno: fuggire da una situazione data significa, in un certo qual modo, esporla alla propria critica, rifiutarla.
Sarebbe a dir poco fantastico se ciascuno di noi (o l'insieme di tutti noi) avesse la forza di stravolgere le varie situazioni sfavorevoli in cui siamo immersi fino a trasformarle in situazioni vantaggiose.
Come dire: da una cella non si evade, la si distrugge; al massimo la si converte in un rifugio, in una roccaforte.
Ma poi, è chiaro, nella pratica le cose si complicano.
Dal capitalismo non si scappa: lo si combatte con il solo fine di distruggerlo, anche se poi gli utensili, le armi che utilizziamo per combatterlo, in realtà sono i suoi stessi prodotti.
Il discorso, in questo senso, vale anche per le droghe: a prima vista ci sembrano strumenti di liberazione, ma in realtà, secondo molti, compongono quell'eterno giogo che l'essere umano si trova stretto attorno al collo da secoli, se non da millenni...
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[Sulla fuga pt.2]
016 — È da diversi secoli, a dire la verità, che ci sono persone che considerano questo mondo come una sorta di trappola, principalmente per la nostra anima.
La vita, presa nei suoi aspetti ordinari, è una tagliola che produce, prima o poi, dolori e patimenti: meglio prenderne le distanze, il prima possibile, mettere al bando tutti i piaceri fisici (che sono gli elementi più dannosi, quelli che, di fatto, ci legano a doppia mandata al supplizio), rifiutare di procreare (e rifiutare di lasciare tracce sotto forma di eredi) e allenarsi per essere costantemente pronti, ora si, per l'evasione più grande e perfetta, ultima e definitiva: la morte.
In questo caso: andarsene per non tornare mai più, che se uno dovesse credere anche e solo per un attimo alla legge del karma, o alla metempsicosi, dovrebbe mettere nel conto che, in fondo in fondo, c'è una parte di noi che non ne ha mai abbastanza, che vuole (ancora) un'altra cucchiaiata di questa medicina amara chiamata vita...per questo bisognerebbe allenarsi quotidianamente per essere in grado di abbandonarla a cuor leggero, quando arriva il momento...
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[Sulla fuga pt. 3]
017 — Generalmente alcuni sono portati a credere che le droghe, le varie sostanze psicotrope, a prescindere dalla loro natura, producano semplicemente una sorta di annichilimento del pensiero, una sospensione, a tempo determinato, dell'attività mentale. Tradotto: ho un problema che magari non riesco a risolvere in nessun modo e attraverso le sostanze me ne dimentico per alcune mezzore, rifugiandomi in una sorta di oasi artificiale. Svanito l'effetto del farmaco, il problema tende a ripresentarsi, ad affiorare nuovamente alla superficie della mia coscienza.
Supponiamo poi che il problema sia una conseguenza diretta del regime capitalistico che si è impossessato del mondo: anziché cercare la radice, la causa del male, chi si droga si starebbe semplicemente nascondendo in un angolino buio.
Generalmente non si prende minimamente in considerazione la possibilità che gli stati alterati di coscienza possano svelare nuove modalità, suggerire nuove strategie per affrontare le varie questioni che ci affliggono.
Personalmente ho avuto il primo saggio delle potenzialità della marijuana durante i lunghi mesi in cui mia madre era ricoverata, come malata terminale, all'interno di una struttura ospedaliera.
In condizioni ordinarie non riuscivo ad accettare, nella maniera più assoluta, l'idea che stesse per morire da un giorno all'altro.
Sotto effetto del THC, invece, riuscivo a rapportarmi alla questione in maniera diametralmente opposta: la morte mi appariva (e mi appare tutt'ora) in realtà come un passaggio naturale e inevitabile e, seppur in quel periodo mi trovassi immerso, inzuppato fino al collo in una delle situazioni più drammatiche affrontate in questa vita, riuscivo a trovare, in maniera del tutto inaspettata, dosi abbondanti di serenità.
Credo, a posteriori, che senza l'aiuto di quel portentoso farmaco naturale l'elaborazione dei miei personalissimi lutti sarebbe stata decisamente più problematica rispetto a quanto è avvenuto. Mi sembra di poter affermare, inoltre, che il consumo delle varie sostanze psicotrope che sono entrate a far parte della mia dieta annuale non ha smorzato la mia avversione nei confronti dei miei sfruttatori e di tutti coloro che vivono per esercitare la propria autorità, spesso in maniera violenta e coercitiva, nei confronti degli altri esseri umani.
Continuo a portare avanti le mie lotte, per quanto mi è possibile, e cerco di dare il mio contributo a tutte le lotte che mi germogliano attorno. Allo stesso tempo, le droghe non hanno estirpato in me quella piccola porzione di critica con cui, come se fosse una lente di ingrandimento, mi rapporto al mondo.
So bene che gran parte dei problemi con cui faccio quotidianamente i conti sono figli delle politiche scellerate messe in piedi dall'uomo bianco negli ultimi 400-500 anni e che siamo proprio noi occidentali, in realtà, con il nostro stesso stile di vita, a tenere in piedi questo meccanismo mortifero e, in un certo senso, a legittimarlo.
Le varie sostanze (soprattutto quelle che agiscono più in profondità, come l'LSD ad esempio) mi hanno portato a stravolgere il mio comportamento, a demolire certe abitudini, certe consuetudini che ora mi sembrano assurde e inaccettabili, come se le guardassi da un'angolazione completamente diversa, come se fossero illuminate da una luce nuova.
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[Sul rifugio]
018 — Si sa: la lotta provoca stanchezza in chi la pratica, alla pari di moltissime attività alle quali ci dedichiamo quotidianamente.
Stare in questo mondo comporta necessariamente tutta una serie di angosce, di dolori, di sofferenze, di ansie e di paure.
Ciascuno di noi è libero (almeno in teoria, perchè poi in pratica le cose sono parecchio più complicate) di ricaricare le batterie, di far fronte alle proprie emergenze esistenziali nella maniera che ritiene più opportuna. Non è assolutamente mia intenzione fare una distinzione tra pratiche buone, positive, e pratiche cattive e controproducenti, anche perchè in questo caso farei esattamente lo stesso gioco dei proibizionisti.
Da che mondo e mondo, dunque, gli stati d'ebrezza (raggiunti nei modi più disparati, attraverso le sostanze e le pratiche più varie) rappresentano una sorta di rottura con il quotidiano, seppur temporanea, in cui l'individuo si rigenera.
Il carnevale, ad esempio, che ancora oggi trova il suo posto all'interno del nostro calendario, in origine era il periodo dell'anno in cui venivano permessi e accettati tutta una serie di comportamenti e di attività extra-ordinarie che fungevano proprio da valvola di sfogo per tutte le tensioni accumulate nella vita di tutti i giorni. Uno sfogo necessario, imprescindibile, per preservare l'equilibrio psichico.
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[Svaghi, sfoghi e tempo libero]
019 — È lo stesso Kaveh, del resto, che mi offre uno spunto interessante, a questo proposito, quando scrive: «Il tempo libero non dovrebbe essere alienato dal consumismo ma, come tale, dovrebbe essere colmo della produttività personale, intima e spirituale. Il tempo libero dovrebbe rappresentare principalmente il momento della dedizione alla risoluzione di problemi di indole morale, educativa e anche e soprattutto ricreativa, intesi come approfondimento della creatività, delle relazioni sociali e dei rapporti interpersonali individuali e collettivi, dell'arricchimento di sé, della propria personalità. Ma, alla fin fine, non è così. In contrapposizione alla produttività lavorativa del tempo lavoro, il tempo libero sfocerà invece negli sfoghi, negli svaghi e soprattutto nei consumi di una quotidiana monotonia della riproduttività».
Non conoscendolo personalmente, non ho idea di come Kaveh condisca le proprie ore libere.
A me sembra, comunque, di sentirmi in profonda sintonia con le sua parole, con l'unico, piccolissimo dettaglio che io perseguo quegli stessi fini (arricchimento di sé e della propria personalità, su tutti) anche attraverso il consumo delle varie sostanze psicotrope che per mia immensa fortuna l'universo mi sta mettendo a disposizione dal giorno zero, cosa per cui, tra l'altro, ringrazio quotidianamente.
Per quanto riguarda gli sfoghi e gli svaghi, gestiti per gran parte dalla macchina capitalista, in cui si rifugiano i moderni (meglio: chi se lo può permettere), nient'altro come le sostanze ha contribuito a farmi prendere le distanze da quelle dinamiche.
Michel Foucault si esprime così sulla questione: "La droga: rottura con la fisica del potere, del lavoro, del consumo, della localizzazione".