083 — A questo punto, e per chiudere finalmente la discussione virtuale con il mio carissimo amico francese, potrei raccontargli, in sintesi, alcuni dei passaggi più significativi che, di fatto, mi hanno condotto a questo punto della storia, ma prima credo che sia doverosa un'ultima, piccolissima precisazione.
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084 — Jean-Loup Amselle, almeno è questa la sensazione che mi è rimasta addosso dopo aver letto il suo saggio, si scaglia, senza nessuna pietà, su tutti coloro che si sono recati (e che ancora si recano) in Perù anche e soprattutto per mandare in play un'esperienza con l'ormai famigerata Ayahuasca, godendo, magari, di quel teatro naturale rappresentato dalla foresta amazzonica, ambiente in cui crescono e dunque si trovano le piante da cui si ricavano gli ingredienti per la preparazione dell'infuso.
Il mio carissimo amico Amselle piscia nel culo di chiunque (...chiedo scusa per l'espressione poco elegante), senza distinzioni, eppure nella sua precisissima e puntualissima ricerca non cita neppure per una volta colui che può essere considerato uno dei più grandi (se non il più grande) apripista, almeno per quanto riguarda la cultura occidentale moderna, nel vastissimo universo delle sostanze psicotrope, e che risponde al nome di William Burroughs.
Anzi, a voler essere sinceri, di William Burroughs (e del suo discepolo Allen Ginsberg) si accenna appena, e giusto con una piccola frase, all'inizio del primo capitolo del saggio in oggetto.
Le parole fedelmente riportare sono quelle di un certo Olivier Harris, autore dell'introduzione a Le lettere dello Yage nell'edizione evidentemente consultata da Amselle.
“[Burroughs e Ginsberg] si spinsero più in là, e più a lungo, nomadi dello spazio e dell'immaginazione, perchè entrambi si sapevano esiliati dall'interno; stranieri nel proprio paese, persino nei propri corpi”.
Questo è l'unico passaggio, in tutto il libro, in cui si fa riferimento ai due scrittori americani (mettendone tra l'altro i loro nomi all'interno di parentesi quadre) che, da quanto riportano loro stessi, hanno avuto il privilegio di sperimentare il farmaco sacro in netto anticipo rispetto al boom turistico contro cui si scaglia polemicamente il mio amico francese.
Anzi, a voler essere obbiettivi, probabilmente è proprio grazie agli scritti di Burroughs e Ginsberg se si è verificata l'esplosione dell'interesse nei confronti della bevanda magica.
Dunque, tirando le somme, gli occidentali che raggiungono le regioni tropicali del Sud America per poter usufruire della droga in questione sono soltanto un gregge di creduloni, e questo giudizio Amselle lo pontifica dall'alto del suo piedistallo, senza concedere (non è affar suo, come spiega lui stesso) la minima possibilità di replica, considerando comunque che qualsiasi replica sarebbe inutile di fronte ad una menzogna dalle proporzioni così mastodontiche.
Ma a parer mio, potrebbe risultare utile fare giusto due calcoli (e due considerazioni) anche e solo per saggiare la consistenza, la presunta solidità del piedistallo dal quale Amselle si auto-elegge portatore unico della verità assoluta.
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085 — Per molti (di noi) consumatori appassionati di sostanze psicotrope e allucinogene, William Burroughs è uno zio, o un nonno, a seconda della generazione a cui si appartiene. Per quanto mi riguarda, lo considero il nonno più fantastico che non ho mai avuto.
Alcuni lo chiamavano il sopravvissuto, per la varietà di droghe che ha sperimentato, in prima persona (e spesso in avanscoperta) e per gli anni di militanza che ha riservato alla questione, senza mai arrendersi del tutto, senza mai perdere l'uso della ragione e della creatività, senza mai farsi trascinare definitivamente sul fondo, neppure dopo un decennio consacrato all'uso della morfina, di cui sono ben noti gli effetti collaterali, in termini, soprattutto, di dipendenza fisica e psicologica.
Le prime righe che Burroughs scrive a Ginsberg, dall'Hotel Colon di Panama, che di fatto sono quelle con cui si aprono le Lettere dello Yage, risalgono al 15 gennaio del 1953.
Il mio carissimo amico Jean-Loupe Amselle, nato nel 1942, all'epoca del primo viaggio di Burroughs nel continente Sud-Americano ha, grossomodo, undici anni e con tutta probabilità (considerando la tracotanza che fodera il saggio che poi pubblica nel 2013), pur essendo ancora un bambinetto, ha già capito che questo Yage, di cui appena si vocifera in giro, non è altro che una delle fandonie più grosse mai emerse nella storia dell'umanità.
A questo proposito credo sia utile riportare la nota introduttiva alle Lettere dello Yage a cui sto facendo riferimento, scritta da Donatella Manganotti:
“Lo Yagè è un narcotico allucinatorio usato dagli Jivaro e da altre tribù indiane dell'Amazzonia sia a scopo medicinale e sia per quei riti di iniziazione in cui i giovani devono subire prove particolarmente dolorose. Venne identificato come una nuova specie di malpigacea, Banisteriopsis Caapi, dal botanico inglese Spruce intorno al 1855. Da questa liana sono stati isolati diversi potenti alcaloidi: la telepatina (Fisher, 1923), la Yagenina e la Yageina (Barriga – Villalba e Albaracin, 1923), e la Banisterina (Lewis, 1928); ma, come dice Burroughs, uno studio sistematico e scientifico di questa pianta non è ancora stato fatto”.
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086 — A metà del mese di aprile del 1953, Burroughs scrive a Ginsberg: «Caro Al, di nuovo a Bogotà. Ho una cesta di Yagè, l'ho preso e so anche più o meno come si prepara».
Tutto questo nel frattempo che il mio tenerissimo amico francese Jean-Loup Amselle gioca presumibilmente ancora ad acchiapparello e a nascondino con i suoi coetanei undicenni.
È lo stesso Burroughs a riportare la ricetta della pozione al suo giovane socio statunitense: «Nel Putumayo gli indiani tagliano la vite a pezzi di venti centimetri e ne usano circa cinque sezioni per persona. I pezzi della vite vengono triturati con una roccia e poi bolliti con due pugni di foglie di un'altra pianta — identificata in via sperimentale come ololiqui — la mistura viene bollita tutto il giorno con una piccola quantità di acqua e ridotta a circa due once di liquido. Nel Vaupes raschiano via la corteccia da circa novanta centimetri di vite in modo da avere dei grossi pugni di raschiature. La corteccia viene messa a mollo per parecchie ore in un litro di acqua fredda, e il liquido viene poi colato e bevuto durante un'ora. Non aggiungono nessun'altra pianta».
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087 — A differenza del mio saggio e sapientissimo amico antropologo francese, che si astiene dal farlo perchè, come già riportato in precedenza, non ritiene l'assunzione dell'Ayahuasca un aspetto così rilevante all'interno della sua indagine sul consumo dell'Ayahuasca da parte degli occidentali creduloni, Burroughs si lancia, e a più riprese per giunta, come è lecito aspettarsi considerando la fama che riveste il personaggio, nella sperimentazione diretta della sostanza, con la spericolatezza tipica che hanno gli statunitensi quando si occupano delle loro faccende. Il suo, di fatto, può essere considerato come il primo viaggio in assoluto fatto da un occidentale con tale farmaco.
“Il brujo scoprì il bacile e vi pescò dentro circa un'oncia di un liquido nero e me la porse in una sudicia tazzina di plastica rossa. Il liquido era oleoso e fosforescente. Lo bevvi d'un fiato. Amare avvisaglie della nausea. Gli restituii la tazza e lo stregone e il suo assistente bevvero anche loro.
Me ne stavo lì seduto ad aspettare gli effetti e quasi immediatamente ebbi l'impulso di dire: «non è abbastanza. ne voglio ancora». Ho osservato questo inesplicabile impulso in altre due occasioni in cui ho preso una dose eccessiva di droga. Tutte e due le volte, prima che l'iniezione facesse effetto, ho detto: «Non è abbastanza. Ne voglio ancora». […] Dopo un paio di minuti un'ondata di vertigine mi travolse e la capanna si mise a girare vorticosamente. Era come partire sotto l'etere, o come quando si è molto ubriachi e ci si sdraia e il letto si mette a girare vorticosamente. Lampi azzurri mi passarono davanti agli occhi. La capanna prese un aspetto arcaico tipo Pacifico con teste dell'Isola di Pasqua intagliate nei pali di sostegno. […] Venni colto da una nausea violenta, improvvisa, e mi slanciai verso la porta andando a sbattere con la spalla contro lo stipite. Sentii l'urto, ma nessun dolore. Camminavo a stento. Nessuna coordinazione. I piedi erano come blocchi di legno. Vomitai violentemente appoggiandomi contro un albero e caddi al suolo in preda ad una disperata infelicità. Mi sentivo intorpidito come se fossi stato ricoperto da strati di cotone. Continuavo a cercare di venire fuori da questa vertiginosa ottusità e continuavo a ripetere: «Voglio soltanto andarmene via di qui». Una stupidità meccanica e incontrollabile si impossessò di me. Ripetizioni ebefreniche prive di significato. Esseri larvali mi passarono davanti agli occhi in una nebbiolina azzurra, ognuno di loro faceva uno squittio osceno e sfottente (più tardi scoprii che era il gracidare delle rane) – Devo aver vomitato sei volte. Stavo a quattro gambe, squassato da spasmi di nausea. Sentivo vomitare e gemere come se fosse stata un'altra persona. Stavo sdraiato vicino ad una roccia. Lo stregone stava in piedi davanti a me. Lo guardai a lungo prima di convincermi che era davvero lì e diceva: «Vuole entrare in casa?» Dissi: «No» e lui si strinse nelle spalle e rientrò dentro.
Le gambe e le braccia cominciarono a contrarsi in modo incontrollabile. Cercai il Nembutal con dita intorpidite e legnose. Mi ci devono essere voluti almeno dieci minuti per aprire il flacone e versarne le cinque capsule. Avevo la bocca arida ma riuscii in qualche modo a mandare giù il Nembutal. Le contrazioni spasmodiche si calmarono lentamente e mi sentii un po' meglio e rientrai nella capanna. I lampi azzurri ancora davanti agli occhi. Mi sdraiai e mi coprii con una coperta. Avevo freddo come con la malaria. Improvvisamente mi sentii molto insonnolito. La mattina dopo stavo benissimo, a parte una certa stanchezza e un certo residuo di nausea. Pagai il brujo e mi incamminai verso la città”.