062 — C'è poco da fare: ci sono attività che per essere svolte richiedono una buona e abbondante dose di solitudine.
Quando Su Maistu lavora alle sue opere non ha di certo compagni, né tanto meno un pubblico che assiste al processo creativo, o fa il tifo per lui.
Considerado che Su Maistu trascorre nel suo laboratorio tutti i suoi pomeriggi e le sue serate, è facile fare il conto di quante ore alla settimana si sbuccia in completa autonomia, anche se è vero che può godere della preziosissima, impagabile presenza di Piereddu, e sono ben consapevole di quanto riesca ad incidere, in questo senso, un quattro zampe.
Anche per scrivere, per buttare giù le righe, bisogna ritagliarsi del tempo da dedicare, in maniera esclusiva, alla faccenda, e non può essere diversamente: se trascorro le mie mezzore libere alle pietre, assieme al mio taccuino e alle mie matite, sto scegliendo, allo stesso tempo, di non stare, per dire, seduto al tavolino di un bar insieme ai miei simili, a parlare del più e del meno...
*
063 — Credo che il rapporto con la nostra solitudine sia, in assoluto, una delle faccende più complesse da gestire e, allo stesso tempo, una delle più formative.
In realtà, poi, credo di essere geneticamente ben strutturato in questo senso: mio nonno paterno trascorreva intere ed intere mattine tra gli alberi di arance dell'orto di cui si prendeva cura, e ho sempre ammirato le dosi gigantesche di solitudine che trasportava, con serenità stoica, sulle proprie spalle.
Anche mio padre, dopo la prematura morte di mia mammy, sta dimostrando, comunque sia, di potersela cavare in autonomia, anche se c'è da dire che è agevolato, in questo, dai due incontri settimanali (appena una decina di ore in tutto) che ha con la sua attuale compagna e da cui, di fatto, dipende l'umore che lo anima nei restanti cinque giorni in cui si ritrova, come molti altri in questo pianeta, da solo con se stesso...
*
064 — A parte questo rispettabilissimo corredo genetico, che fa inevitabilmente parte del mio DNA e, quindi, in parole povere, delle mie potenzialità, la mia vita sin dal giorno 0 è stata caratterizzata dalla solitudine.
Questa è una constatazione a cui sono approdato giusto questa estate, grazie ad uno scambio di battute a dir poco illuminante che ho avuto, in una piazza di Milano, con I., a proposito della mia (non tanto) presunta anaffettività.
Mia madre, del resto, me lo ripeteva spesso e volentieri, ma credo di non aver mai trattato la faccenda con la dovuta attenzione: essendo nato prematuro, in anticipo di un mese rispetto ai piani, son passato dal suo grembo dritto nello spazio ridotto di un'incubatrice.
Per i primi quaranta giorni di esistenza in questo pianeta ho vissuto nella mia personalissima cella, senza ricevere lo straccio misero di un abbraccio, senza ninna-nanne, canzoncine o dolcezze varie ed eventuali a conciliarmi il sonno.
Certo, c'è chi sostiene che non rimanga nulla, all'interno della nostra memoria, dei primi mesi di vita.
Quando ho la possibilità di riparlare con I., in una spiaggia dell'isola, mi chiede: — E dunque pensi che tutto questo ti abbia condizionato?
Io ho potuto solo rispondere, strizzando un occhio: — Assolutamente no!!!
*
065 — Lungi da me, nel modo più assoluto, la tentazione di calamitarmi addosso anche e solo una singola, minuscola particella di compassione.
Preferisco puntare forte sul famoso “ciò che non ti uccide ti rende più forte”, coniato a suo tempo da Federico Nietzsche.
E dunque credo che sia molto, molto meglio trasformare le disavventure, di qualsiasi natura esse siano, in opportunità di crescita, in abilità, in risorse, in skills, per utilizzare un termine straniero.
Anziché piangermi (e farmi piangere) addosso credo sia molto più comodo entrare nell'ordine delle idee di avere a disposizione le carte migliori per sopportare, anche per diverso tempo, situazioni (e condizioni) che per qualcun altro magari risulterebbero intollerabili, insopportabili.
Per il resto, so bene come funziona: c'è ancora una piccola parte di me, seppur piccola, che coincide con la porzione della mia anima più fifona e piagnucolosa, che di tanto in tanto prova a convincermi del fatto che tutta questa solitudine, fagocitata quasi con brama animalesca, finirà per spaccarmi inesorabilmente ed inevitabilmente il cranio, finirà per uccidermi.
Sull'altro piatto della bilancia, però, ci sono centinaia di esempi a confortarmi, a darmi forza e coraggio (proprio nelle scorse notti Schopenhauer, nel suo “Il mondo come volontà e rappresentazione”, mi raccontava il caso dei Naasseni), relativi a uomini&donne che, in ogni parte del globo, dall'Europa all'India, hanno scelto di trascorrere la loro esistenza su questo pianeta nel più completo isolamento, seguendo i principi dell'ascetismo (tra gli altri: povertà volontaria e auto-negazione dell'impulso sessuale).